Ogni modello della prassi politica è influenzato da una filosofia
politica che analizza il mondo che ci circonda e, in epoca moderna,
soprattutto le sue caratteristiche economiche.
resistenze.org Prabhat Patnaik
peoplesdemocracy.in (Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare)
Sulla base di questo presupposto, la specifica filosofia politica stabilisce gli obiettivi per i quali si deve lottare e la prassi politica da essa ispirata porta avanti questa lotta. L'obiettivo può essere difficile da raggiungere, più difficile in certi contesti che in altri, e questa difficoltà può rappresentare un ostacolo per la prassi politica; ma ciò non costituisce una crisi per quella filosofia politica. La pura e semplice difficoltà di raggiungere un obiettivo non costituisce una crisi. Una crisi di una filosofia politica si verifica quando essa ha una contraddizione interna, quando l'obiettivo che propone è logicamente in conflitto con qualche altra caratteristica in cui crede.
Molti potrebbero sostenere che l'obiettivo del socialismo proposto dalla filosofia politica del marxismo sia diventato, nel contesto attuale, un po' più difficile da raggiungere; ma questo, pur spiegando l'attuale indebolimento della sinistra, non costituisce una crisi per il marxismo.
La filosofia politica chiamata liberalismo, invece, sta affrontando una crisi nel senso che l'obiettivo che propone per il raggiungimento di ciò che considera come libertà umana è logicamente impossibile da raggiungere in un mondo che il liberalismo stesso ritiene valido; in altre parole c'è una contraddizione logica al suo interno che è sorta nel corso dello sviluppo dell'economia e alla quale non ha risposta. La crisi che il liberalismo si trova ad affrontare è di questa natura.
Il liberalismo moderno è stato sviluppato in risposta alla Rivoluzione bolscevica durante la crisi capitalistica del periodo tra le due guerre, come un modo per risolvere quella crisi, e altre crisi simili che potrebbero sorgere in futuro, senza trascendere il capitalismo. Riteneva che la combinazione di democrazia liberale di tipo occidentale e di capitalismo temperato dall'intervento dello Stato fornisse il quadro migliore per raggiungere la libertà umana. Riteneva che con le istituzioni della democrazia liberale di tipo occidentale, lo Stato, lungi dall'essere uno Stato di classe, avrebbe espresso la "razionalità" sociale e lo avrebbe fatto meglio che in qualsiasi altro quadro istituzionale. Pertanto, uno Stato liberaldemocratico di questo tipo può intervenire nell'economia sia per correggere eventuali disfunzioni che possono sorgere a causa del funzionamento spontaneo del capitalismo, sia per rendere questo funzionamento spontaneo adeguato alle esigenze della razionalità sociale, anche quando non si tratta di disfunzioni. Questa versione del liberalismo, nella cui formazione aveva avuto un ruolo importante l'economista inglese John Maynard Keynes e che proprio Keynes aveva chiamato "nuovo liberalismo", si differenziava dalle versioni precedenti del liberalismo nella misura in cui queste ultime avevano voluto che l'intervento dello Stato fosse ridotto al minimo, nell'errata convinzione, prima prevalente, che l'economia capitalista funzionasse sempre in condizioni di "piena occupazione".
Questa nuova versione del liberismo, anche se non entriamo nel merito della sua validità all'interno del quadro istituzionale che prevede (ed è assolutamente non valida, tra l'altro, a causa del fenomeno dell'imperialismo che non conosce nemmeno), cessa certamente di essere valida quando il capitale, compresa la finanza, si globalizza. Questo perché in questo caso non abbiamo uno Stato-nazione che presiede a un capitale essenzialmente nazionale, ma uno Stato-nazione che si confronta con un capitale globalizzato; e in questo confronto lo Stato-nazione deve cedere alle richieste del capitale globalizzato per paura di innescare una fuga di capitali, il che significa, come ammetterebbe anche il più ardente "nuovo liberale", che lo Stato non può agire come incarnazione della razionalità sociale.
In altre parole, la presunzione alla base del "nuovo liberalismo" era che il dominio su cui operava lo Stato e il dominio su cui operava il capitale proveniente da quel paese, più o meno coincidessero. Questo era in effetti il caso quando Keynes scriveva e anche più tardi. Ma con la crescente globalizzazione del capitale, questa presunzione perde la sua validità. E quando ciò accade, è irreale anche solo pretendere che l'esecutivo dello Stato sia spinto dall'opinione pubblica ad agire in modi che ritiene socialmente razionali, indipendentemente dal fatto che il capitale globalizzato concordi con tale azione.
Le radici della crisi del liberismo risiedono quindi nel fenomeno della globalizzazione; ma questa crisi si manifesta chiaramente nel periodo di crisi del neoliberismo, quando appare sulla scena la disoccupazione di massa su larga scala, che era esattamente ciò che Keynes pensava fosse il tallone d'Achille del capitalismo che, se non superato attraverso l'intervento dello Stato, avrebbe reso il sistema vulnerabile a una rivoluzione di tipo bolscevico.
Il perseguimento della "gestione della domanda" keynesiana, che avrebbe dovuto superare le crisi di sovrapproduzione che affliggevano il capitalismo, richiede che l'aumento della spesa statale, la panacea per la crisi, sia finanziato o aumentando le tasse a spese dei ricchi o non aumentando affatto le tasse, cioè attraverso un maggiore deficit fiscale: una maggiore spesa statale finanziata raccogliendo maggiori entrate fiscali a spese dei lavoratori che consumano comunque gran parte dei loro redditi, non aggiungerebbe domanda aggregata, quindi non allevierebbe la crisi. Ma questi due modi di finanziare la spesa statale aggiuntiva, tassando i ricchi e aumentando il deficit fiscale, sono entrambi osteggiati dal capitale finanziario globalizzato, che quindi elimina la possibilità di qualsiasi intervento fiscale da parte dello Stato contro la crisi. Può ovviamente intervenire attraverso strumenti monetari, ma questi, come è noto, sono estremamente blandi, spesso incoraggiando l'inflazione che aggrava la crisi, piuttosto che stimolare una maggiore spesa privata. All'interno del neoliberismo, quindi, non c'è modo di superare la crisi; il "nuovo liberismo" di Keynes viene meno. Il vicolo cieco del regime economico neoliberista diventa quindi una crisi per la filosofia politica del liberalismo.
Questo ingresso nel vicolo cieco dell'economia può essere illustrato con l'esempio dell'Europa. Fino alla metà degli anni Settanta il tasso di disoccupazione nei Paesi dell'UE (all'epoca 15) era stato per lungo tempo inferiore al 3%. Alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta, con il procedere della globalizzazione, il tasso di disoccupazione ha iniziato a salire e da allora è rimasto in media al di sopra del 7%, anche se con variazioni da un Paese all'altro; l'intervento dello Stato non è riuscito a ridurlo.
Poiché un singolo Stato-nazione non può intervenire per rilanciare la domanda aggregata e ridurre la disoccupazione quando si confronta con il capitale globalizzato, il Paese può imporre controlli sui capitali per uscire completamente dal vortice della finanza globalizzata, oppure avere uno stimolo fiscale coordinato con altri Paesi, nel qual caso si può controllare la tendenza dei capitali a volare via da qualsiasi Paese che espanda la domanda (poiché tutti i Paesi seguirebbero una politica simile di espansione della spesa pubblica). La prima opzione implica l'uscita dal regime neoliberista: i controlli sui capitali richiederebbero anche, prima o poi, controlli sul commercio, e questo significa che verrebbe violato il carattere fondamentale di un regime neoliberista, ossia flussi relativamente liberi di capitali e di beni e servizi. Il capitale finanziario internazionale si opporrà con le unghie e con i denti, per cui tale percorso richiederebbe una mobilitazione di classe alternativa che non può rimanere confinata a un programma di conservazione del capitalismo monopolistico.
La seconda di queste strade, se deve essere uno stimolo fiscale veramente coordinato in tutti i Paesi, richiede un grado di internazionalismo che il capitalismo, con la sua tendenza intrinseca a dominare la periferia, non è in grado di dimostrare. Pertanto, nel migliore dei casi, può introdurre uno stimolo fiscale coordinato all'interno della metropoli, pur imponendo l'austerità fiscale alla periferia, il che significherebbe un irrigidimento dell'imperialismo. Il capitalismo può anche provarci, ma un tale inasprimento dell'imperialismo non può essere riconosciuto dal liberalismo come un pregio; al contrario, significherebbe una sconfitta del liberalismo così come si presenta, ossia come una via alternativa non socialista alla libertà umana.
È questa situazione critica del liberalismo a costituire la sua crisi. Non può affermare che la libertà è possibile all'interno del capitalismo quando c'è una disoccupazione su larga scala che tiene anche bassi i salari, causando una stagnazione generale o un peggioramento della condizione del lavoro. Non può superare questa realtà materiale senza trascendere il capitalismo neoliberista, la cui necessaria alleanza di classe porterebbe l'economia oltre il capitalismo stesso. (Il discorso di ritirarsi in un capitalismo pre-neoliberale è analogo a quello del ritorno a un sempre mitico "capitalismo di libera concorrenza" come mezzo per eliminare i mali del capitalismo monopolistico, che Lenin aveva messo alla berlina nel suo libro sull'imperialismo). Qualsiasi acquiescenza a uno stimolo fiscale coordinato tra i soli Paesi metropolitani per ridurre la disoccupazione, che escluda la periferia dal suo ambito, equivale a un tradimento di ciò che il liberalismo sostiene di rappresentare.
Il liberalismo classico aveva fatto i conti con la Grande depressione. Il liberalismo keynesiano, o nuovo liberalismo, ha fatto i conti con la crisi del neoliberismo. E non ci sono altre versioni di liberalismo disponibili, o anche solo possibili, che possano far uscire le economie dall'attuale stagnazione mantenendole confinate nel loro involucro capitalista.
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