L’ufficio del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha pubblicato un avveniristico progetto per Gaza.
(di Michele Manfrin – lindipendente.online)
Ad inizio maggio, l’ufficio del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha pubblicato un avveniristico progetto post-bellico per la Striscia di Gaza, passato del tutto inosservato. L’attuazione del progetto israeliano prevederebbe quattro fasi, l’una dipendente dal realizzarsi di quella precedente. I documenti pubblicati mostrano il tentativo israeliano di portare ad una pace duratura – ovviamente alle condizioni di Israele – e reintegrare Gaza nell’economia regionale attraverso grandi infrastrutture e investimenti economici, col fine di «moderare la sua politica». Infatti, nell’esplicazione del grande piano, Gaza è definita un «avamposto iraniano» che «sabota le catene di approvvigionamento emergenti» e «ostacola ogni speranza futura per il popolo palestinese». Il piano ha anche evidenziato il posto storicamente centrale che Gaza occupa nelle rotte commerciali Est-Ovest, collocandosi sia sulle rotte commerciali Baghdad-Egitto che su quelle Yemen-Europa.
La prima fase del progetto, che si stima debba durare circa un anno, prevede l’instaurazione di aree libere dal controllo di Hamas, ove una coalizione di Paesi formata da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Bahrein, Giordania e Marocco distribuirà e supervisionerà gli aiuti umanitari. I palestinesi di Gaza gestiranno le zone sicure sotto la supervisione di questa coalizione. La seconda fase si verificherebbe in un arco temporale stimato tra i 5 e i 10 anni, durante i quali la coalizione araba dovrebbe creare un organismo multilaterale chiamato Gaza Rehabilitation Authority (GRA), atto a supervisionare gli sforzi di ricostruzione e gestire le finanze della Striscia. Il GRA sarebbe quindi gestito dai palestinesi di Gaza ma sotto la supervisione della coalizione araba, che si assumerebbe ogni responsabilità. In parallelo, dovrebbe essere attuato una sorta di “Piano Marshall” che fornisca le capacità economiche di realizzazione del progetto, accompagnato da un «programma di deradicalizzazione». La terza fase, definita «autogoverno», vedrebbe un lento trasferimento di potere ad un effettivo governo locale di Gaza o a un governo palestinese unificato, che, in questo caso, comprenderebbe anche la Cisgiordania. Tuttavia, questo sarebbe estremamente subordinato al successo della deradicalizzazione e della smilitarizzazione della Striscia di Gaza e il trasferimento di potere sarebbe soggetto all’accordo di tutte le parti coinvolte, quindi Israele e la coalizione di Stati arabi sopracitata. Durante tutte e tre le fasi, Israele manterrebbe il diritto di agire contro le «minacce alla sicurezza». Tradotto, significa che Israele potrebbe comunque decidere di volta in volta cosa è giusto e cosa non lo è in base ai propri interessi, riservandosi il diritto di intervenire.
Ultimo passo da compiere nell’ambito del piano israeliano, affinché i palestinesi possano gestire la Striscia di Gaza in maniera indipendente (sebbene non si parli esplicitamente della realizzazione di uno Stato) sarebbe quello di aderire agli Accordi di Abramo. Si tratta di una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti risalente al 13 agosto 2020, firmata a Washington sotto la presidenza di Donald Trump, che normalizza i rapporti tra Israele e i suddetti Stati arabi. Anche l’Arabia Saudita avrebbe dovuto essere tra i firmatari degli accordi (suggellando così uno storico accordo tra sauditi e israeliani), ma, anche alla luce di quanto accaduto dopo lo scorso 7 ottobre, lo Stato mediorientale ha più volte affermato di non voler aderire fin tanto che non sorgerà uno Stato palestinese indipendente. Oltretutto, l’Arabia Saudita e l’Iran, con l’intermediazione cinese, nel marzo dello scorso anno hanno siglato un altrettanto storico accordo per la normalizzazione dei rapporti bilaterali, certamente non gradito da Israele e Stati Uniti. L’Arabia Saudita, dal primo gennaio scorso, sarebbe stata ammessa all’organizzazione BRICS, ma ancora non ha ufficialmente ratificato la propria adesione. Molti analisti leggono questo comportamento attendista dei sauditi come un possibile ripensamento in favore di un accordo più ampio che coinvolga Stati Uniti, Israele e gli altri Stati mediorientali. Un simile accordo, ovviamente, non permetterebbe ai sauditi di partecipare ai BRICS ove, oltre alla presenza di Cina e Russia, che gli USA vedono come nemici, c’è anche quella dell’Iran.
Il piano regionale più ampio è quello di intensificare i mega-progetti (come NEOM in Arabia Saudita) e implementarli nel Sinai. Ciò consentirebbe a Gaza di funzionare come un importante porto industriale sul Mediterraneo, cosa che la renderebbe il principale centro di esportazione delle merci del Medio Oriente, così come del petrolio saudita e di altre materie prime provenienti dal Golfo. Il piano prevede anche la creazione di una massiccia zona di libero scambio che copra Sderot-Gaza-El Arish, che consentirebbe a Israele, Gaza ed Egitto di trarre vantaggi in maniera cooperativa. Combinando i nuovi investimenti infrastrutturali e l’integrazione della regione con i giacimenti di gas appena scoperti appena a nord di Gaza contribuirebbero a sostenere la nascitura industria. Tutto questo, tuttavia, non tiene minimamente conto del parere dei palestinesi e della loro volontà di autonomia e indipendenza.
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