Chi giurava «mai soldati in Ucraina» si dovrà ricredere, la diplomazia giace ormai silenziosa in un angolo.

Quella deriva bellicista che ci porta in guerra

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it)

Ecco: la parolina è stata pronunciata: istruttori, consiglieri, berretti verdi. Sembra un vocabolo innocuo. Invece ricordatevi questa data, 27 maggio. Perché quando la guerra, quella grande, non quella per comoda procura o confortevolmente non belligerante, infurierà, potrete partir da lì per riflettere con sbigottimento su come è iniziata anche per noi. Purtroppo non ci aiuterà a soffrire di meno.

Si son persi due anni per accomodarsi sugli inverosimili (ma utilissimi, per loro, i centauristi della Immancabile Vittoria) paragoni storici con il 1939 e la seconda guerra mondiale: Putin come Hitler vuole conquistare il nostro mondo, Ucraina come la Polonia, rischi mortali di una nuova Monaco se si ascoltano i vili pacifisti eccetera, eccetera). Come si costruisce una omeopatica discesa agli inferi, un baedeker della guerra totale semmai era scritto, chiaro e distinto, nel Vietnam degli Anni Sessanta.

Eppure provate a negare che erano quelli tempi entusiasmanti. Altro che quelli delle lente digestioni bideriane per cui basta una prosa nudarella. L’America, e con lei l’Occidente, aveva finalmente a capo uomini brillanti ed energici, non crudeli e non fanatici, avevano afferrato il comando con baldanza, rapidi dinamici sicuri. Perché non c’era più tempo di aspettare, la Storia nei momenti cruciali non concede simili lussi. Se si esita, si riflette troppo, il mondo, quello nemico, va avanti senza di noi. Sì c’erano stati degli errori, Cuba, anche allora; come oggi, Afghanistan, Iraq. Ma in fondo niente di molto importante, niente di molto grave: un vetro rotto da una sassata, come spiriteggiava una delle teste d’uovo kennediane. Già: un vetro rotto. Ma quella sensazione di esser diventati vulnerabili non era facile eliminarla.

Come oggi la Guerra Fredda era più fredda che mai. Per questo. Il Vietnam, e ora l’Ucraina, sembravano il posto più adatto per rendere credibile la propria forza.

Iniziò proprio così, con l’invio degli istruttori militari a Saigon. Oggi lo annunciano in molti, il gallicano furore di Macron in prima linea. Si camuffa il tutto con filosofemi brodosi, minimalisti e di facile impiego: che cosa cambia, in fondo? Fu solo un modo per togliersi lo scomodo e la lungaggine di trasferire i discepoli, i soldati ucraini, in Inghilterra o in Polonia per addestrare alle nuove armi decisive, che chiuderanno la guerra in un baleno.

Non si accorse l’amministrazione Kennedy di una verità molto antica, che quando si comincia a discutere dell’impiego della forza, i fautori della forza sono sempre meglio organizzati, sembrano più numerosi e sanno utilizzare a loro favore tanto le armi della logica, quanto quelle della paura.

Come l’acqua si trasforma in ghiaccio, così in questi due anni di guerra l’idea che la vittoria ucraina fosse possibile senza di noi ha finito per cristallizzarsi fino a diventare una realtà. Non perché fosse vera, non lo è mai stato neppure al momento della ritirata russa all’inizio dell’aggressione. Ma perché è diventata reale nella mente di alcuni leader molto potenti che vi scorgevano enormi vantaggi per il proprio potere e per rassodare un incerto futuro politico. Così ciò che non è mai esistito e che fin dall’inizio è apparso subito fragile e caduco, la vittoria ucraina e la resa russa con la fine di Putin, è stato fatto diventare solido e stabile.

Un Paese eroico con un esercito formato da una falange tebana che apprendeva in fretta e disponeva di suggestive capacità di bricolage bellico, i droni fatti in casa, i pensionati con le bombe molotov capaci di respingere i tank russi, generali geniali e dall’aspetto marziale… E poi lui, Zelensky, il Grande Incantatore. Quello che fu il leader sudvietnamita Diem per dare corpo al tragico errore americano negli Anni Sessanta.

È il presidente-star ucraino che ha realizzato, mese dopo mese, un impercettibile ma sostanziale cambiamento, l’illusione che bastassero munizioni e poi carri armati e poi qualche missile e gli F-16 e …suvvia, ignavi, uno sforzo ancora ed è fatta. Perché era l’idea della vittoria che ci legava sempre più a lui. In questo modo i protettori hanno cominciato ad essere alla mercé del protetto.

Biden, Macron, e uno dopo l’altro anche quelli che pudicamente continuano a giurare: mai un soldato in Ucraina!, si sono accorti e si accorgeranno, a loro spese, che trattare con il complesso militar industriale (e finanziario) una volta che è riuscito a infilare un piede nella porta, è terribilmente difficile, ti conduce dove non volevi arrivare.

I quattrinosi guerrafondai, quelli democratici come quelli autocratici, hanno l’idea di disporre sempre di una arma nuova, di una strategia imbattibile. La loro fede sopravvive da più di due anni nonostante i fatti ne dimostrino sempre di più l’inefficacia. Sono dei credenti che convertono per utile o per mediocrità, a poco a poco, anche i politici. Così la diplomazia giace ormai silenziosa in un angolo, misera e sperduta come una ciabatta in mezzo al Sahara.

Utilizzando in modo spregiudicato brigate di esperti non restii ad accenti maccartisti per fare l’esame a chi non dimostrerebbe sufficiente zelo occidentale, la vittoria a tutti i costi contro “i mongoli’’ è diventato ciò che l’opinione pubblica occidentale, “il popolo” vuole. Perché questa «è la nostra guerra» non si può lasciare che gli ucraini la combattano da soli. La prima tappa sono appunto i consiglieri militari.

I civili continuano a illudersi di esser loro ad avere in pugno la situazione mentre i nuovi mastini della guerra, in doppiopetto e in divisa, si assicurano giorno dopo giorno una posizione di sempre più ampio controllo delle decisioni nella scelta dei fini e nella valutazione dei mezzi. Mentre i politici perdono il terreno, un passo dopo l’altro, senza neppure accorgersi che stanno perdendo. La bugia è diventata realtà, i governi occidentali vi sono intrappolati. La loro politica è fallita ma non possono ammetterlo. Perché sarebbe la loro fine politica. Forse potremmo battezzarla la estensione, su un altro scacchiere, della sindrome di Netanyau.

Gli aiuti militari nelle risaie indocinesi e nella steppa ucraina non hanno cambiato niente, anzi vietcong e russi guadagnano terreno. Allora si spiega che la colpa non è di decisioni sbagliate ma dei sudvietnamiti e degli ucraini che si fanno uccidere troppo in fretta, sbagliano le controffensive, chiedono sempre e poi dilapidano i doni. Basterebbe qualche buon soldato occidentale che insegni loro a far meglio la guerra. Poi quando il primo “consigliere” sarà ucciso, perché avverrà, allora ogni soldato morto occidentale finirà per diventare una ragione in più perché altri ne muoiano in Ucraina. In Vietnam fu così.

Quando Kennedy fu ucciso “gli istruttori” erano già sedicimila. Settanta erano morti. La guerra era diventata infinita ed era già persa.