lunedì 1 luglio 2024

Le forze viventi e la logica del capitale

Michael Heinrich arricchisce la lettura di Marx con uno sguardo nitido sul rapporto tra scienza e critica. Occorre, però, non tralasciare in questo quadro le potenzialità del lavoro vivo.


jacobinitalia.it Chiara De Cosmo

A partire dagli anni Ottanta, con l’affermazione crescente delle politiche neoliberiste e il depotenziamento, almeno nel mondo occidentale, dell’immaginazione di un futuro alternativo rispetto ai rapporti capitalistici, la teoria marxiana pareva non tenere più il passo con i tempi. Lo studio dell’economia iniziò progressivamente a ridursi alla sola indagine quantitativa, all’esplorazione di modelli di equilibrio che facevano astrazione dalle relazioni materiali e storiche. Una seria presa in carico della teoria del valore marxiano sembrava, in questo contesto, ormai anacronistica. 

Nata come una tesi di dottorato elaborata tra il 1987 e il 1990, La scienza del valore di Michael Heinrich, recentemente edita in italiano a cura di Stefano Breda e Riccardo Bellofiore (PGreco, 2023), si proponeva di sfidare questa prospettiva. Tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, riprendendo alcuni degli esiti più alti raggiunti dal dibattito degli anni Venti sulle categorie della critica dell’economia politica marxiana da parte di autori come Isaak I. Rubin e Henryk Grossman, il problema del valore e la teoria del capitale di Marx erano state rimesse a fuoco in una duplice direzione. Da un lato, letture di più stretta competenza economica – come quelle legate al paradigma neo-ricardiano che si rifaceva alla riflessione di Piero Sraffa – ne avevano tentato una formalizzazione; dall’altro, alcuni pensatori che rientrano nel novero di quella che è conosciuta come Neue Marx Lektüre, tra cui Helmut Reichelt e Hans Georg Backhaus, ne avevano colto la centralità per comprendere il modo in cui, in un mondo dominato dal capitale, si costruissero le forme della socializzazione.

Tuttavia, proprio questo divaricarsi di orientamenti, da un lato più strettamente economico, dall’altro più apertamente sociologico, aveva impedito di cogliere la reale portata scientifica della teoria marxiana. Nell’attuale fase globale, una stagione che può dirsi di crisi complessiva in diversi ambiti della produzione e della riproduzione sociale, il pensiero marxiano è tornato al centro di una sempre più diffusa considerazione teorica. Non per ricercare in esso delle ricette pronte che ci consentano la soluzione degli antagonismi e delle contraddizioni contemporanee; ma per riuscire a leggerle a fondo. E per poter trovare in questo spazio concrete possibilità di cambiamento. È in questa cornice che un libro come La scienza del valore va interrogato. Non soltanto perché si tratta di un contributo che l’autore ha continuamente rielaborato, fedele al metodo marxiano, a contatto con il mutamento delle condizioni presenti, nel lungo arco temporale che arriva fino alla nona ristampa tedesca del 2022. Ma anche perché esso, per la sua ricchezza di contenuti, per il materiale ampio che passa al vaglio, per le interpretazioni che discute, è in grado di suscitare domande importanti sul modo in cui funziona la nostra società e la teoria che in essa è inserita e con essa prova a confrontarsi.

Uno dei tratti più originali dell’interpretazione di Heinrich è quello di sottolineare come la teoria del valore di Marx sia una teoria monetaria del valore.  Ossia Marx riconosce il nesso sistematico e universale che si crea, nello scambio interno a una società dominata dai rapporti capitalistici, tra la «forma di valore» dei prodotti e la loro «forma di denaro»: Marx scopre nel carattere strutturalmente monetario dello scambio, non più ridotto a una forma di baratto su scala allargata, la natura storicamente specifica della circolazione capitalistica. Come ha sottolineato Riccardo Bellofiore nel contributo introduttivo all’edizione italiana del testo, questo orientamento è in parte ripreso dalla strada battuta dagli esponenti della Neue Marx Lektüre, ma assume tratti inediti. Innanzitutto per il fatto che esso nasce da una considerazione complessiva dell’opera marxiana, attenta a coglierne le continuità e le fratture, le trasformazioni e i rovesciamenti; e poi perché prova a vagliarne la tenuta, rispetto agli attuali rapporti produttivi e le mutate condizioni presenti. Su questo terreno, in effetti, si manifesta uno degli aspetti più radicali della critica marxiana, che rovescia i presupposti delle analisi economiche classiche e rivela la logica di quelle leggi ferree, in apparenza naturali, che dominano la società regolata secondo i ritmi di riproduzione del capitale. 

Nelle categorie di «scambio», «lavoro», «valore», formulate per la prima volta da autori come Adam Smith e David Ricardo, Marx non vede semplicemente delle forme concettuali più o meno aderenti ai rapporti materiali. Egli ne rintraccia, piuttosto, una storia nascosta, quella stratificazione di rapporti che si sono costruiti storicamente e che dispiegano una specifica tendenza e precise dinamiche di funzionamento. 

Nei paradigmi classici l’atto di scambiare i prodotti del proprio lavoro, al fine di andare oltre il soddisfacimento di bisogni immediati, rispondeva a una razionalità genericamente umana. Da sempre gli esseri umani avevano manipolato la natura, realizzando prodotti che, posti l’uno di fronte all’altro, erano in grado di rispondere alle diverse esigenze di una molteplicità di individui. Così, dal singolo isolato da sempre portatore di questo comportamento economico si era passati alla costruzione della società. Alla generalizzazione di queste eterne leggi di scambio. A differenza dell’economia politica classica, che intendeva in questo modo il lavoro sempre come un processo individuale di ricambio organico tra l’essere umano e la natura e lo scambio come atto tra due possessori di merci individuali, Marx non spiega più i fenomeni economici facendo ricorso agli interessi degli individui, a una determinata antropologia dell’homo oeconomicus. Egli ricostruisce piuttosto la specifica socialità del lavoro, gli specifici rapporti di produzione che stanno alla base delle azioni degli individui in una fase e in condizioni storiche determinate. 

Poiché, all’interno di una società dominata dai rapporti capitalistici, i singoli svolgono il loro lavoro individuale nella forma di lavori privati indipendenti l’uno dall’altro, l’unico modo per cui questi ultimi possano attuarsi come elementi del lavoro sociale complessivo è quello di scambiare i propri prodotti. Il nesso sociale si costituisce, per Heinrich, a posteriori, nell’ambito della circolazione. Lo scambio non è più il riflesso del comportamento più razionale dell’essere umano, ma una necessità dettata dal modo in cui funziona la produzione. I prodotti del lavoro, isolati, non sono merci, né oggetti di valore; lo diventano quando vengono posti in relazione l’uno con l’altro sul mercato, sulla base di qualcosa che li accomuna e che emerge soltanto in questa relazione. Ed emerge, precisamente, quando si materializza in una sostanza diversa dal corpo delle merci che vengono scambiate: quando si concretizza e si rende visibile nel denaro. Tutti questi passaggi non avvengono in maniera sincronica: la merce può essere venduta, ma non è detto che sia immediatamente comprata. È nella forma contraddittoria di questa scissione temporale che si rivela come la possibilità delle crisi sia endemica ai rapporti capitalistici. Una possibilità che, se si manifesta fin dall’analisi critica della circolazione semplice, si riflette poi in una serie di ulteriori mediazioni in quella su scala allargata.

È in questa direzione che emerge l’importanza di tenere insieme, nello studio della teoria marxiana, sia il piano di più stretta considerazione economica che quello di un’analisi teorica e sociologica. Per capire come si costruisca una società in cui dominano rapporti di produzione capitalistici non si può non esaminare il funzionamento della logica del valore; ma viceversa, dalla sua non linearità, non si possono non leggere gli antagonismi strutturali che la dominano e che riflettono la natura profondamente contraddittoria del capitale. Queste contraddizioni, ed è forse questo un primo rilievo critico che si può muovere all’interpretazione di Heinrich, non sono tuttavia soltanto il risultato del dispiegamento di leggi contraddittorie, che si riflettono nella natura stessa della forma-valore attribuita ai prodotti di lavoro. Esse, piuttosto, sono l’esito di una costante incorporazione di lavoro vivo in un sistema in cui la produzione non è diretta alla soddisfazione dei bisogni, ma alla valorizzazione del capitale. E questa sussunzione non è mai scontata, come nota Bellofiore, ma sempre un luogo in cui l’antagonismo che domina la società capitalistica si ricrea continuamente e diviene, perciò, un concreto terreno di scontro.

In questo si riflette forse anche uno dei limiti del quadro epistemico in cui si muove la proposta interpretativa di Heinrich. Se la scienza marxiana viene ridotta a una ricostruzione articolata delle ferree leggi del valore, come della necessità delle sue contraddizioni per la riproduzione della società borghese, allora la critica e la trasformazione politica non possono che esserle estrinseche. Nel porre sotto la lente d’indagine le categorie dell’economia politica e nel mostrare come in esse si celino dei significati in apparenza semplici, ma che rimandano in realtà a una serie di mediazioni e a una specifica articolazione dei rapporti sociali, Marx non aveva in mente soltanto la restituzione della logica di queste relazioni. Comprendere la maniera in cui funziona il modo di produzione capitalistico, capire come nell’apparenza di un libero confronto sul mercato di liberi individui si celi in realtà il modello di una socializzazione rovesciata, significava per Marx individuare gli spazi per una sua trasformazione concreta. 

Senza la considerazione di questo elemento trasformativo, la critica marxiana diviene soltanto l’esibizione di un sistema il cui decorso, certo non privo di crisi ma che non portano a un suo crollo definitivo, è perfettamente spiegato, ma difficilmente revocabile. Senza un’idea di società liberata, la critica marxiana si ridurrebbe alla ricostruzione del rapporto valore-denaro come forma determinante per la costituzione del nesso sociale all’interno di una società dominata dai rapporti capitalistici e la trasformazione sarebbe posta a un altro livello, di una critica o pratica politica che userebbe queste categorie soltanto come strumentario per la propria azione. Ma il socialismo non è un appello astratto, anche se non si iscrive in maniera deterministica come sbocco delle contraddizioni del capitale. Esso è piuttosto, un orizzonte determinato che sorge proprio nella contraddizione tra ciò che questa società afferma di essere e ciò che in realtà è. Immaginare una società in cui la socialità non sia costruita sulla base del nesso valore-lavoro è una proposta concreta, non un’utopia che rimane fuori della scienza. Perché la scienza, se è critica, è anche parziale e trasformativa.

La lettura di Heinrich si costruisce su un’ipotesi interpretativa forte, e certamente ben articolata e documentata. Essa riprende, come sottolinea Vittorio Morfino nella sua premessa al testo, alcune categorie del pensiero di Louis Althusser, che consentono all’autore di porre un discrimine netto tra il campo problematico in cui si muove la critica marxiana e quello dei paradigmi classici e neoclassici dell’economia. Individuando anche momenti di frattura e spazi di ambiguità negli scritti di Marx stesso, che mostrano quei luoghi in cui egli rimane legato al modello tradizionale di una teoria non monetaria del valore. Con la critica espressa nelle Tesi su Feuerbach Marx abbandona, pur senza riuscire sempre a portare a fondo questo distacco, l’essenzialismo e l’antropologismo dei classici, come anche la loro idea di realtà e di storia. La critica dell’economia politica diviene la ricostruzione dei nessi categoriali che riguardano la struttura della società, non immediatamente sovrapponibile allo sviluppo storico inteso come successione di formazioni sociali nel divenire. Essa è lo strumento e la pre-condizione per l’analisi dei processi concreti, che lascia spazio alla contingenza perché mostra appunto le leggi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, ma non spiega immediatamente i processi evenemenziali. 

In un modo di produzione basato sulle merci l’uguaglianza tra i lavori individuali viene posta sul mercato per mezzo del denaro, perché i singoli lavori concreti non sono immediatamente comparabili; la loro uguaglianza, l’uguaglianza del tempo necessario alla loro produzione, deve essere istituita a posteriori. Un orizzonte alternativo, in questo quadro scientifico, è pressoché impensabile. Sarebbe forse, tuttavia, possibile un ripensamento di questa frattura netta posta nel percorso scientifico di Marx. Pur mettendo da parte un’idea astratta di «essenza umana», la critica del modo di produzione capitalistico è, ancora una volta, orientata al superamento dei suoi antagonismi, al comunismo in senso storicamente specifico: questo non vuol dire né intendere quest’ultimo come necessità, né come fine astratto, ma come possibilità concreta iscritta all’interno della relazione di valore in cui si esprime il nesso sociale nella società capitalistica. Questo esprime una linea di continuità tra Marx e le sue «fonti»: Marx abbandona un’idea di essenza muta, naturale che si costruisce tra gli esseri umani, riconoscendo che essa si specifica in senso storico e come insieme di rapporti sociali. Ma il fatto che quest’ultima venga ricondotta all’attività concreta degli esseri umani, quindi determinata storicamente, non vuol dire che venga del tutto abbandonata come astrazione. Il modo di produzione capitalistico ha storicamente dispiegato uno specifico modo della socializzazione, che va analizzato e criticato; ma questo sempre dal punto di vista di un’umanità socializzata che può realizzarsi a partire da queste condizioni specifiche. Fare di questo un residuo ambiguo che resta in Marx della «scienza» a lui precedente mi sembra problematico e riduttivo, rispetto al piano trasformativo che la critica dell’economia politica non cessa di mantenere.

Se la Scienza del valore rileva giustamente l’importanza di una riconsiderazione globale dell’opera marxiana, che indaghi la critica dell’economia politica come scavo nelle categorie e che restituisca, nelle ragioni della loro apparenza rovesciata, i rapporti reali, allora, però, non può essere dimenticato che questa ricostruzione è anche un tentativo di mostrare la forze viventi, che effettivamente agiscono e sono agite dalla logica del capitale. Le forme non si muovono da sole, ma si incarnano nelle relazioni materiali. La critica, ed è forse questa la grande rivoluzione marxiana, nel momento in cui è tale, è una forma di conoscenza che è anche forza storica reale di trasformazione.

*Chiara De Cosmo si è laureata presso l’Università di Pisa ed è attualmente dottoranda in Filosofia alla Scuola di Alti Studi, Fondazione Collegio San Carlo di Modena.

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