venerdì 3 maggio 2024

Dal Vietnam alla Palestina: la guerra è tornata come un boomerang nel “giardino” statunitense

La Casa Bianca si sta spazientendo sulla necessità di raggiungere un cessate il fuoco a Gaza.

contropiano.org

Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha insistito martedì sui negoziati al Cairo per un patto tra Israele e Hamas che consentirebbe una tregua nella Striscia di Gaza in cambio del rilascio di ostaggi. Se avremo un cessate il fuoco, potremo ottenere qualcosa di più duraturo e forse porre fine al conflitto (a Gaza)… ma tutto ciò inizia con un accordo per la restituzione degli ostaggi alle loro famiglie, ha dichiarato in una conferenza stampa.

Al di là della scena internazionale, questo messaggio ha anche una motivazione politica interna.

Nel momento in cui i sondaggi del Presidente Joe Biden non sono in crescita, per la Casa Bianca il raggiungimento di un accordo è vitale, soprattutto nel bel mezzo di una campagna elettorale e mentre le proteste universitarie pro-palestinesi, sempre più diffuse, si scatenano contro il sostegno di Washington a Israele.

L’ “oltranzismo” dell’attuale governo israeliano potrebbe costare caro all’attuale amministrazione statunitense che, come un qualsiasi apprendista stregone, ha attivato delle forze che ora non riesce a governare facendo da ostetrica alla nascita del fascismo ebraico dentro e fuori i confini di Israele.

In questo caso le élite statunitensi sono recidive, basti pensare al supporto dell’insorgenza islamica contro l’Afghanistan democratico in funzione anti-sovietica.

Ma non sembrano appunto, avere imparato molto dai propri errori.

Mentre Hamas attende la sua risposta all’ultima proposta dei negoziati che durano da mesi, gli Stati Uniti stanno facendo pressione da tutte le parti, con Biden in testa, affinché l’organizzazione della Resistenza Palestinese accetti un accordo che preveda la consegna di oltre 30 ostaggi in cambio del rilascio di prigionieri palestinesi e di una tregua nei combattimenti.

Ma Israele intende proseguire la propria rappresaglia contro i Palestinesi a Gaza, facendo fallire in anticipo qualsiasi tipo d’accordo.

I colloqui sono entrati nella fase finale in un momento decisivo per l’amministrazione Biden: le proteste contro la guerra si stanno diffondendo nei campus statunitensi e il raggiungimento di un accordo potrebbe essere l’unico modo per evitare un crescente scisma con gli elettori più giovani e l’ala progressista – che solidarizza con la protesta studentesca – , mentre la gestione del conflitto potrebbe continuare a trascinare il presidente in basso nei sondaggi in vista delle elezioni di novembre.

Mentre il Segretario di Stato Antony Blinken ha tenuto una serie di incontri a Tel Aviv con funzionari israeliani al termine del suo settimo tour in Medio Oriente dall’inizio del conflitto, anche lo stesso Biden è coinvolto nei negoziati, segno di un impasse evidente che non trova sbocchi.

Lunedì il Presidente ha parlato con il suo omologo egiziano, Abdelfatah al Sisi, e con l’emiro del Qatar, i leader dei due Paesi che, insieme agli Stati Uniti, stanno mediando i colloqui. La Casa Bianca ha chiesto ai due leader arabi di fare pressione su Hamas affinché accetti i termini del patto. In un messaggio su X ha anche ripetuto che Hamas è ora l’unico ostacolo a un immediato cessate il fuoco e al soccorso dei civili a Gaza, ma in realtà è vero il contrario se si valutano le proposizioni del movimento.

Il Presidente degli Stati Uniti ha fretta. La situazione a Gaza, per lui, sta divenendo una questione di politica interna.

Porre fine alla guerra gli darebbe una grande spinta in vista delle elezioni di novembre e placherebbe elementi di conflitto in corso – come gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso alle navi mercantili degli Stati che sostengono l’aggressione sionista (USA e Gran Bretagna in primis) – o in procinto di esplodere, come gli scontri tra Israele ed Hezbollah al confine libanese che ha proiettato il Paese dei Cedri in una situazione non dissimile a quella del 2006.

E non è detto che si riacutizzi il conflitto tra Israele ed Iran.

Il protrarsi del conflitto, d’altra parte, complica le prospettive politiche di Biden. Un aspetto che non può permettersi, visto che i sondaggi indicano ancora una volta una battuta d’arresto nella sua battaglia contro il repubblicano Donald Trump.

La media dei sondaggi compilata dal sito specializzato RealClearPolitics lo colloca a un punto e mezzo dal suo rivale, e negli Stati più in bilico (ovvero gli Swing State) l’ex presidente aumenta il suo vantaggio a 3,2 punti.

Un sondaggio sui giovani di Harvard di aprile ha rilevato che il democratico è in vantaggio sul suo predecessore solo di otto punti percentuali tra i giovani sotto i 30 anni, un segmento della popolazione che tradizionalmente propende per quel partito e che il presidente ha bisogno di sostenere con forza in quella che si prevede sarà un’elezione molto combattuta. Nel 2020, Biden aveva un vantaggio di 23 punti percentuali sul voto dei giovani.

Ma è chiaro che si sta ricreando un fossato difficilmente colmatile, anche con le parti del “nuovo movimento operaio” nord-americano più sensibile alla questione, in primis il sindacato dei lavoratori dell’auto (UAW) in forte ascesa e che da mesi sostiene il cessate il fuoco. Così Shawn Fain: “la UAW non sosterrà mai gli arresti di massa o l’intimidazione di coloro che stanno esercitando il loro diritto a protestare, scioperare o prendere posizione contro l’ingiustizia”.

*****

Tra i legislatori democratici di Capitol Hill c’è una palpabile preoccupazione per le proteste pro-palestinesi nei campus – in cui sono già stati arrestati ben più di un migliaio di studenti – e per la possibilità che l’opposizione repubblicana le utilizzi strumentalmente in chiave law and order per sottolineare come Biden sia incapace di gestire la situazione.

Una situazione per certi versi “uguale e contraria” di quella che ha dovuto gestire Trump con la diffusione della seconda ondata del movimento #BlackLivesMatter.

Se ci fosse una sorta di (cessate il fuoco) a Gaza in questo momento, sarebbe molto utile, ha dichiarato ad Axios la deputata democratica Jan Schakowsky, secondo la quale la crisi nella Striscia incombesulla campagna elettorale.

Tra i democratici si teme che, in assenza di buone notizie dal Medio Oriente, le proteste. possano arrivare fino alla convention di agosto del partito a Chicago, il grande evento della campagna politica in cui Biden sarà acclamato come candidato ufficiale per le elezioni presidenziali di novembre. La prospettiva spaventa molti, che ricordano come l’ultima convention tenutasi in quella città, nel 1968, sia andata disastrosamente in mezzo a forti proteste di piazza contro la guerra del Vietnam in quelli che l’ala più radicale dell’allora movimento studentesco guidata dalla Students for Democratic Society aveva eletto essere il luogo dei “Giorni della Rabbia.

Quel tornante storico per gli USA è stato lo spunto per la docu-fiction di Aaron Sorkin – Il processo ai Chicago 7 – che si ispira proprio alle mobilitazioni del 28 agosto 1968 ed al “surreale” processo contro 7 attivisti contro la guerra del Vietnam.

Per il momento, la Casa Bianca sta cercando di spiegare abbastanza inutilmente all’ala progressista del suo partito cosa sta facendo e cosa sta cercando di ottenere a Gaza. Questa settimana, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha incontrato i legislatori di questo gruppo.

Nel frattempo, Biden ha ridotto al minimo quello che normalmente sarebbe un evento obbligatorio e frequente in questo periodo dell’anno: la partecipazione alle cerimonie di laurea dei college.

Una rottura simbolica ma significativa del business ad usual della politica statunitense.

Il presidente ha in programma solo due eventi di questo tipo, all’Accademia militare di West Point e allo storico Morehouse College di Atlanta, in Georgia, storicamente l’unico college per studenti neri interessati alle arti liberali.

Biden non ha parlato in modo specifico delle proteste, compito che ha delegato ai portavoce della Casa Bianca. L’ufficio del presidente ha cercato di mantenere una posizione neutrale e, pur assicurando di difendere la libertà di riunione purché pacifica, si è dichiarato contrario a qualsiasi iniziativa che possa rappresentare un atto di antisemitismo. Ha condannato l’occupazione di un edificio da parte degli studenti della Columbia University.

Gli americani hanno il diritto di protestare pacificamente, purché si segua la legge. E l’occupazione di un edificio con la forza non è un atto pacifico“, ha dichiarato Karine Jean Pierre, portavoce di Biden, durante il briefing stampa quotidiano di mercoledì.

Un bel boomerang…

La protesta, comunque si sta diffondendo nelle università americane. Martedì scorso, la polizia di New York ha sgomberato un accampamento di studenti filo-palestinesi alla Columbia, epicentro di un movimento che chiede agli istituti di istruzione superiore di rinunciare agli investimenti in aziende strettamente o lontanamente legate alla guerra di Gaza, ma la scia di militarizzazione è continuata in altri campus.

Improvvisamente, un accampamento a sostegno di Gaza è sorto in un’università di Salt Lake City, nel cuore dello Utah. Fino a quel momento, non c’erano state manifestazioni relative al Medio Oriente in un campus considerato uno dei meno attivi politicamente negli Stati Uniti. L’occupazione è stata seguita da scontri. Nella notte di lunedì 29 aprile, la polizia antisommossa ha caricato e arrestato diciannove persone.

Il governatore repubblicano dello Stato, Spencer Cox, ha elencato una lista di atti non protetti dal Primo Emendamento della Costituzione sulla libertà di espressione – violenza, danni alla proprietà, accampamento nel campus – ma l’American Civil Liberties Union ha risposto che il ruolo delle università non è quello di sopprimere le proteste, anche se sono rumorose, dirompenti e offensive per gli altri”.

Ma la governance universitaria in genere sembra avere indossato l’elmetto, facendo intervenire le forze dell’ordine, con una modalità che ricorda lo sgombero violento attuato ad Oakland durante il movimento Occupy, ma stavolta su scala nazionale.

Si tratta di una sorprendente illustrazione di una protesta – finora confinata nella parte orientale del Paese e ad Austin, in Texas, dove è stata duramente repressa dal governatore repubblicano Greg Abbott – che ora si sta diffondendo in tutto il Paese. I suoi promotori evocano la guerra del Vietnam o la lotta contro l’apartheid, ma la mobilitazione, amplificata dai social network, coinvolge ancora (in proporzione) piccoli numeri e la polizia ha effettuato solo1.500 arresti in una trentina di campus, secondo la CNN.

Ma più che il numero è il peso e la visibilità che sta avendo questo movimento nelle università, considerata la funzione che svolge l’università negli USA, e soprattutto per la capacità che ha una minoranza agente organizzata – come fu con il Vietnam –  mettendo in discussione un proprio privilegio, di determinare un piano politico in grado di mettere in difficoltà l’establishment.

La Columbia University di New York rimane l’epicentro delle proteste. Martedì la scuola è stata isolata prima di essere evacuata con la forza dalla polizia in serata, con una serie di arresti. I manifestanti (alcune centinaia su 36.000 studenti) non solo avevano sfidato l’ultimatum del presidente dell’università di rimuovere le tende da un prato nel cuore del campus, ma avevano anche occupato l’edificio Hamilton, famoso per essere stato occupato nel 1985 durante le richieste di boicottaggio del Sudafrica, ancora sotto il regime dell’apartheid sostenuto dagli USA.

L’edificio è stato brevemente ribattezzato Hind’s Hall” in onore di Hind Rajab, una bambina di 6 anni uccisa il 29 gennaio a Gaza insieme alla sua famiglia. Una delle migliaia, tra donne e bambini, uccise nella Striscia.

Questa umiliazione da parte della direzione della Columbia era inaccettabile per Joe Biden. Il Presidente Biden rispetta il diritto alla libertà di espressione, ma le manifestazioni devono essere pacifiche e legali. L’occupazione di edifici con la forza non è pacifica, è sbagliata“, ha dichiarato martedì la Casa Bianca, aggiungendo che il presidente americano ha condannato la diffamazione antisemita – che solo lui ha visto – e l’uso della parola ’intifada‘”, “rivolta” in arabo

Non male per un Paese che nasce da una insurrezione anti-britannica!

I professori della Columbia stanno cercando di decifrare il movimento. L’accusa di antisemitismo è stata usata per vietare ogni discorso pro-palestinese, afferma Nadia Abu El Haj, antropologa americana il cui padre era palestinese. L’autrice denuncia uno sforzo concertatoper mantenere una narrazione egemonica profondamente favorevole a Israele”. I repubblicani si sono allineati con i megadonatori [delle università americane] e con alcuni membri democratici del Congresso che sostengono che la politica pro-palestinese è intrinsecamente antisemita, ma non sono interessati all’antisemitismo. Sono le stesse persone che si rifiutarono di condannare la manifestazione Unite the Right a Charlottesville” dell’agosto 2017 – quando gli scontri con l’estrema destra hanno causato la morte di un manifestante – continua Nadia Abu El Haj, che aggiunge: Questo potrebbe costare a Joe Biden le elezioni. Ha perso completamente il voto dei giovani”.

Il cambiamento in America è profondo, secondo Madeleine Dobie, docente di francese alla Columbia: I giovani sono cambiati, ma anche Israele, spiega, riferendosi a una potenza nucleare, guidata da Benyamin Netanyahu con l’estrema destra e che non sta negoziando la pace con i palestinesi.

È una situazione complicata”.

La presenza di studenti ebrei tra i manifestanti è molto forte. Jewish Voice for Peace” è potente nel campus almeno quanto Students for Justice in Palestine. Si tratta di giovani adulti che, per la maggior parte, “sono cresciuti in famiglie molto sioniste“, aggiunge Nadia Abu El Haj, che ritiene che questi giovani stiano mettendo in discussione la loro formazione.

Certamente è una “frattura generazionale” che si sta consumando proprio in quella non certo estesa porzione di giovani che può accedere all’insegnamento universitario statunitense.

Una delle principali richieste degli studenti è la fine degli investimenti legati alla guerra di Gaza, dal momento che le università hanno un considerevole portafoglio di sovvenzioni e proprietà: 50 miliardi di dollari per Harvard (Massachusetts), 40 per Yale (Connecticut), 36 per Stanford (California) e 14 per la Columbia, riporta un’inchiesta di Le Monde.

Martedì sera, gli studenti della Brown, nel Rhode Island, (6 miliardi di dollari di fondi) hanno smantellato il loro accampamento, avendo la direzione accettato di discutere il ritiro dei fondi dalle aziende legate all’esercito israeliano. Per il momento, la Columbia non investe in una serie di settori (tabacco, prigioni private, Sudan, combustibili fossili), ma gli studenti hanno un’interpretazione ampia della partecipazione alla guerra, che include giganti tecnologici come Google, Amazon e Microsoft. Confrontarsi con questo disimpegno è difficile anche perché mette in discussione la natura dell’istruzione universitaria intrinsecamente legata al settore privato e allo strutturale uso “civile-militare” dell’innovazione tecnologica nel contesto di quello che è il military-industrial complex.

In California, la University of Southern California ha cancellato le cerimonie di laurea previste per il 10 maggio a seguito di una controversia: si è rifiutata di permettere al relatore di parlare, come di consueto, ufficialmente per motivi di sicurezza, in quanto lo studente in questione era filo-palestinese.

Una forma dunque di “censura di guerra preventiva”.

Per quanto riguarda le università pubbliche, la direzione del sistema universitario UC California, che comprende dieci campus, tra cui Berkeley, vicino a San Francisco, e UCLA, a Los Angeles, ha scelto di non intervenire, soprattutto perché, nella maggior parte degli istituti, le lezioni erano terminate e gli studenti avrebbero dovuto prepararsi per gli esami.

Ma martedì sera a Los Angeles, l’università ha dovuto abbandonare la sua posizione di arbitro quando un gruppo di contro-dimostranti filo-israeliani ha attaccato violentemente l’accampamento degli studenti filo-palestinesi. La polizia antisommossa è intervenuta per porre fine agli scontri. Un atto di violenza abietto e imperdonabile, ha denunciato il sindaco della città, Karen Bass. Mercoledì sera, le autorità universitarie hanno infine chiesto l’evacuazione dell’accampamento e la polizia si è preparata a intervenire.

A Berkeley, invece, la direzione continua la sua politica di non intervento. Su iniziativa della UC Berkeley Divestment Coalition, il 22 aprile gli studenti hanno piantato le prime dodici tende sui gradini della Sproul Hall. Un luogo simbolico dal 1964, quando lo studente Jack Weinberg fu arrestato per aver distribuito volantini a favore dei diritti civili dei neri. Gli attivisti di Free Palestine intendono occupare la scalinata fino a quando l’università non si libererà dei suoi investimenti nell’industria delle armi e in altre aziende che ritengono stiano traendo profitto dalla guerra a Gaza, come BlackRock, Lockheed Martin e Boeing. Gli studenti chiedono anche la creazione di un programma di studi palestinesi, come a suo tempo negli Anni Sessanta e Settanta era stata chiesto l’introduzione degli studi sulla storia afro-americana, nativo-americana e latino-americana che hanno messo progressivamente in discussione la narrazione WASP.

Da parte sua, il Jewish Community Relations Council Bay Area ha giudicato abominevoleil linguaggio usato da alcuni manifestanti filo-palestinesi, ma ha riconosciuto che è coperto dalla libertà di espressione. Ha inoltre sottolineato che l’amministrazione si è impegnata a garantire la sicurezza degli studenti ebrei. Il 30 aprile l’atmosfera a Berkeley è rimasta ampiamente pacifica, con seminari sul disinvestimento e sulla storia della regione mediorientale tenuti da professori venuti a mostrare la loro solidarietà nei Teach In.

Paradossalmente, travolti dai gesti di sostegno, gli studenti filopalestinesi hanno chiesto ai loro sostenitori di smettere di portare loro del cibo!

Tornando alla Columbia, fino ad ora luogo simbolo della protesta, bisogna ricordare che l’irruzione di martedì è avvenuta 56 anni dopo l’irruzione della polizia nella Hamilton Hall, con l’arresto di 700 studenti che protestavano contro il razzismo e la guerra del Vietnam.

Il co-conduttore di Democracy Now! Juan González, che era uno dei leader studenteschi della storica protesta del 1968, afferma che la violenta repressione alla Columbia University e in altri campus degli Stati Uniti ha riportato l’attenzione nazionale su una guerra ingiusta, condotta da Israele con il sostegno degli Stati Uniti.

Afferma González Nel prossimo mese non ci sarà nessuna cerimonia di laurea in America in cui la guerra a Gaza non sia un tema scottante ed aggiunge che la composizione più eterogenea delle proteste di oggi – guidate principalmente da studenti palestinesi, musulmani e arabi, con un supporto significato di studenti di origini ebraiche provenienti da famigli sioniste – potrebbe aver reso i funzionari scolastici e la polizia molto più disposti a reprimererispetto a quando si trattava di un movimento di protesta prevalentemente bianco.

Nel 1968, dopo lo storico sciopero studentesco del 30 aprile, la polizia di New York fece irruzione nel campus. Centinaia di studenti furono feriti e 700 arrestati. Il giornale del campus, il Columbia Spectator, titolava in parte: La soluzione violenta segue il fallimento dei negoziati”.

Juan González era un leader della rivolta della Columbia ed è stato uno dei fondatori della sezione newyorkese di Young Lords – la formazione di portoricano-americani ispirati dalle Pantere Nere.

Afferma González all’intervistatrice durante le trasmissioni di Democracy Now:

Mi hanno colpito soprattutto le prese di posizione dei presidenti delle università, non solo alla Columbia e alla Barnard, ma anche in tutto il Paese. Credo che il grande Chris Hedges l’abbia detto meglio, quando ha parlato di recente della bancarotta morale di questi presidi di università che condannano le interruzioni del business as usual nelle università, mentre ogni singolo preside di università americana ha taciuto sulla massiccia distruzione delle università di Gaza, dei licei e delle scuole di Gaza da parte dell’esercito israeliano. Tacciono su ciò che sta accadendo nell’istruzione in un altro Paese, in un’altra parte del mondo, finanziata dagli Stati Uniti.

Quindi, credo che l’importanza in termini di somiglianze sia che gli studenti capiscano che a volte è necessario interrompere l’attività ordinaria per concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica su un’evidente ingiustizia. E credo che questo sia esattamente ciò che sono riusciti a fare. Oggi l’intero Paese sa cosa significa disinvestimento, cosa significa disinvestimento dal governo e dalle forze armate israeliane, mentre prima questo tema era ai margini del dibattito politico. Nel prossimo mese non ci sarà cerimonia in America in cui la guerra a Gaza non sia un tema scottante, sia all’esterno con i manifestanti che all’interno nei discorsi e nelle presentazioni. Credo quindi che gli studenti siano riusciti a concentrare l’attenzione del Paese su una guerra ingiusta.

E continua marcando la differenza tra l’atteggiamento della governance universitaria, iniziando da quella della Columbia, e quello degli studenti che protestano.

Non vedo come il preside Shafik possa sopravvivere. Molti di questi presidi in tutto il Paese saranno conosciuti non per i risultati ottenuti in precedenza, ma per il resto della loro vita come coloro che hanno fatto intervenire la polizia per schiacciare gli studenti che mantenevano una posizione morale di opposizione al genocidio.

Quindi, credo che gli studenti che sono stati arrestati porteranno questo distintivo di coraggio, in contrapposizione al profilo di codardia dei presidenti delle università che hanno osato cercare di sospenderli o espellerli. E le vite degli studenti sono cambiate per sempre – e, credo, per il meglio – in termini di importanza del dissenso e dell’opposizione all’ingiustizia.

Nello sciopero studentesco del 1968 – raccontato anche nell’autobiografia di David Gilbert Amore e Rabbia -, gli studenti occuparono cinque edifici, tra cui l’ufficio del presidente nella Low Library barricandosi all’interno per giorni. Gli studenti protestavano contro i legami della Columbia con la ricerca militare e contro il progetto di costruire una palestra universitaria in un parco pubblico di Harlem. L’avevano chiamata con un gioco di parole G-Y-M – Crow con riferimento alle leggi segregazioniste Jim Crow

Dal Vietnam alla Palestina la guerra è tornata come un boomerang nel “giardino” statunitense.

Nessun commento:

Posta un commento