martedì 3 settembre 2024

“Un posto al sole”: una fiction nazionalpopolare?

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La fiction Un posto al sole è, come si sa, una fiction da record: non solo va in onda su Rai3 praticamente con gli stessi attori da ben 25 anni, ma ha costantemente un pubblico assai numeroso e affezionatissimo, che tocca punte di audience di quasi 3 milioni di spettatori a puntata, conquistando ogni anno nuovi spettatori anche nelle fasce più giovani, con una crescita del 7,5% nel target 15-34 anni e del 14% in quello 35-44. Proprio per questa popolarità, la fiction merita un’analisi attenta, sia dal punto di vista del fenomeno di costume, sia dal punto di vista della sua solida struttura narrativa, soprattutto perché i temi trattati la collocano in quel filone realistico e di attualità che, in genere, può agevolmente veicolare modelli di comportamento e di identificazione nel pubblico che ne fruisce. Nella fiction entra infatti prepotentemente l’“oggi”: le vicende si svolgono ai giorni nostri, in una città odierna, Napoli; i problemi trattati sono attuali (la mafia, la disoccupazione, la povertà, le difficili professioni di cura, il bullismo e le violenze urbane e così via). Inoltre le puntate si adattano alle ricorrenze e alle festività in tempo reale. Il tutto ovviamente suggellato da quel “collante” di sicuro effetto sul pubblico costituito dalla narrazione di sentimenti e relazioni di coppia più o meno positive, matrimoni e separazioni, nascite e lutti

Certo siamo ancora lontani dal record di durata di 37 anni della serie australiana Neighbours (cui peraltro Un posto al sole si è ispirato) che si è definitivamente chiusa nel 2022. Un recente studio dello psicologo australiano Adam Gerace, pubblicato sulla rivista scientifica Plos one ha evidenziato, sulla scorta di 1300 interviste fatte ai fan della serie, che la chiusura ha indotto in loro sentimenti assimilabili a un vero e proprio lutto, dal momento che questi spettatori avevano stabilito una relazione para-sociale con i personaggi della fiction. «Non è così strano» – afferma lo psicologo –, «in fondo, spesso essi avevano avuto un rapporto con questi personaggi più lungo che per molte loro amicizie, invecchiando in parallelo ad essi». Con questo tipo di serie televisive siamo dunque di fronte a processi di identificazione e fruizione di massa di grande interesse e anche di fronte a grandi responsabilità da parte di chi le “confeziona”.

Possiamo affermare, ad esempio, che con Un posto al sole ci troviamo di fronte a un modello di produzione e fruizione nazional popolare? Il concetto, come è noto, è stato elaborato da Antonio Gramsci a metà degli anni Trenta del secolo scorso, riferendosi sostanzialmente alla produzione letteraria, in particolare ai romanzi. Egli lamentava l’assenza, in Italia, di opere con caratteristiche in grado di «soddisfare il gusto estetico non solo di élites ristrette ma del maggior numero di lettori, operando una mediazione attiva tra le esigenze di lettura più qualificata e le richieste più elementari ma non meno autentiche, dei ceti subalterni» (V. Spinazzola, Gramsci, le sue idee nel nostro tempo, Roma, 1987). In Italia, secondo Gramsci, erano del tutto assenti opere “popolari”, come quelle dei grandi romanzieri dell’Ottocento, Tolstoj e Dostoevskij ad esempio; anche il nostro Manzoni interpretava esigenze, personaggi e temi popolari esclusivamente in un’ottica di pietismo borghese. Insomma Gramsci sottoponeva la cultura italiana a una stringente analisi critica, auspicando la nascita di intellettuali “organici”, cioè capaci di promuovere una unificazione del pubblico il più vasta possibile, facendosi interpreti «di stati d’animo e aspettative diffuse nell’intera collettività». Ovviamente la severa critica di Gramsci alla cultura italiana “borghese” va collocata nel contesto storico in cui è stata elaborata e va ridimensionata, ma la sua intuizione di nazional popolare (spesso travisata o strumentalizzata in funzione di politiche culturali anche regressive) e di una intellettualità capace di intercettare in modo “organico”, cioè funzionale a una crescita di coscienza dei problemi e della subalternità dei fruitori, è più che mai attuale.

Da un lato, senza snobismi, possiamo riconoscere che Un posto al sole risponde a esigenze sentite (non solo di semplice intrattenimento), si radica in un contesto “popolare”, allarga il raggio di possibili e non sempre convenzionali identificazioni (crisi di coppia, genitorialità sofferte, omosessualità, bullismo, protezioni ai testimoni contro la mafia ecc.). Dall’altro, però, dobbiamo constatare che nella fiction non si parla mai, rigorosamente, di politica, anche intesa soltanto come capacità di organizzazione e difesa collettiva dei propri diritti. In alcune delle ultime puntate prima dell’estate, ad esempio, è stato affrontato il nodo del diritto alla casa (riferito alla problematica del centro storico napoletano, ormai spesso nelle mani di speculatori e mafia che vogliono spodestare dalle loro abitazioni i residenti per ottenere alloggi liberi a esclusivo uso turistico temporaneo). Ebbene, difensore e paladino degli umili e vessati abitanti risulta essere unicamente un ottimo sacerdote (africano, don Antoine), eccellente esempio di opera pastorale nei quartieri degradati dei Napoli, ma certo non lontano da una tradizionale impostazione cautamente cattolico-filanropica del conflitto sociale.

Non è un caso che nella fiction siano ampiamente presenti, e neanche tanto sotto traccia, suggestioni di derivazione manzoniana. Penso, ad esempio, al percorso sofferto e tormentato di un personaggio, Eduardo Sabbiese, un boss mafioso che decide di abbandonare la sua situazione di delinquenza per abbracciare la decisione di diventare collaboratore di giustizia. Ebbene, l’apice di questo percorso avviene in una sola notte che, narrativamente, rimanda perfettamente alle forti tinte della tragica e sofferta notte dell’Innominato manzoniano. Non sembri irriverente il confronto, anzi. È un segno di quel “lievito” che le grandi opere sanno dispensare nel tempo, fornendo ispirazione e modelli vivi e attuali, e non solo nel solco definito della loro interna struttura ideologica. Certo però in Un posto al sole l’impegno collettivo resta interamente demandato alla solidarietà cristiana. Per il resto i “buoni” agiscono guidati da una moralità, magari laica, ma del tutto individualistica, mentre i “cattivi”, nella logica strettamente binaria che guida sostanzialmente la fiction, sono sempre a un passo dalla auspicata redenzione dai loro peccati.

Ancora un dato interessante: nonostante Un posto al sole abbia una forte connotazione regionale, anzi cittadina, ciò non impedisce un gradimento sovra regionale. Non solo perché i temi trattati sono “nazionali” (la mafia presente al Sud quanto al Nord, lo spopolamento forzato dei centri storici che interessa tutte le città d’arte, Firenze e Venezia in testa), ma anche perché dalla fiction emerge una sorta di “spirito nazionale” che nulla, naturalmente, ha a che vedere con il nazionalismo marca Fratelli d’Italia. Si tratta piuttosto di un processo culturale di unificazione che dalle élites, superato l’antimeridionalismo degli anni del boom economico, si è radicato nella classe media e popolare, magari individuando poi nei migranti, anziché nel Sud, il nuovo capro espiatorio.

Dal punto di vista della struttura narrativa, la fiction (come avviene in molte altre serie televisive) sfrutta meccanismi ben collaudati, quelli tipici dei romanzi d’appendice che uscivano a puntate sulle riviste ottocentesche o, più indietro nel tempo, l’entrelacement delle vicende e la suspence alla fine di ogni canto introdotte dall’Ariosto nell’Orlando furioso. E proprio Gramsci auspicava la produzione (che in Italia mancava) di romanzi d’appendice di buona fattura, come avveniva ad esempio in Francia, ben consapevole dell’attrattiva che questo genere di letteratura, guardato con sufficienza, poteva invece avere sul popolo.

Con Un posto al sole siamo dunque di fronte a un prodotto culturale di buon livello, capace di veicolare messaggi etici, frutto di un lavoro di squadra (per testi, scenografie, costumi) e attoriale ben collaudato nel tempo e con esiti accettabili. Non deve però mancare la consapevolezza critica che l’impostazione della fiction resta saldamente nell’ambito di un moderato progressismo, ben lontano da quella sollecitazione, anche artistica, alla presa di coscienza dei propri diritti e delle radici del conflitto sociale e dello sfruttamento che ne potrebbe fare un’opera lodevolmente nazional popolare. La fiction, priva di riflessioni politiche, senza attenzione autentica alle diseguaglianze e soprattutto senza alcuna denuncia delle cause di esse e delle possibili soluzioni in un mondo, quale è il nostro, dominato da un feroce finanzcapitalismo, non alimenta certo quella coscienza collettiva di cui avremmo bisogno e che Gramsci auspicava come limpida coscienza di classe.

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