martedì 18 gennaio 2022

Il Premio De André canta in romanesco

La XX edizione al cantautore capitolino Lorenzo Santangelo con il brano L’arancio, amara e romantica confessione in dialetto di un nonno a suo nipote.

Da “Creuza de ma” a “Bello de nonno” è un attimo. Nel mezzo il Premio De André, XX edizione, conclusosi con una finalissima all’Auditorium Parco della Musica di Roma.


 

Daniele Priori Giornalista, attivista politico, esteta, ciccione, pieno di buon gusto, buoni propositi e molte ambizioni (che spesso rimangono tali)

Ad aggiudicarsi il prestigioso riconoscimento (10mila euro per la tournée offerti da Nuovo Imaie e un contratto Sony Music) che ha visto la partecipazione di 1300 aspiranti cantastorie, è stato Lorenzo Santangelo, artista romano, vissuto negli ultimi sette anni in Australia e ora tornato con un brano struggente, L’arancio, cantautorale (l’unico del genere tra gli otto finalisti ammessi) a raccontare, in un dialetto romanesco marcato, il senso della vita con gli occhi, le parole e la malinconia mutuati dal nonno. 

Tra i premiati anche il rapper aquilano Simone Cocciglia che, con le idee chiare di un Animale sleale, già nei versi iniziali fa il quadro della situazione attuale: “È morto Battiato/Salvini fa il capo/Io voglio scappare su Marte”. Al performer abruzzese è stato assegnato il premio Repubblica

La giuria chiamata a emettere gli ultimi verdetti è stata presieduta da Dori Ghezzi, fondatrice della manifestazione che ha premiato anche due opere nelle sezioni Poesia, dove a vincere è stato il componimento del friulano Pietro Nicolaucich Le malecose. Mentre nella Pittura ha vinto l’artista sarda Sidra di Alghero, con l’opera Donna con burqa.


Da segnalare le performance di Melga che con il suo brano Dolce universitaria porta da Massafra (Taranto) una fisarmonica con la quale riproporre in chiave moderna i suoni e i ritmi tradizionali che battono il tempo nel tacco dello Stivale e Luca Fol, romagnolo dal look e dallo stile un po’ elettronico e un po’ british, nel ruolo di un eterno Peter Pan che, pur con il corpo in Italia, nella sua Rimini, continua a sognare, tra note e ricordi, la sua vacanza a Brighton cantati nel brano Io sono meno inglese di thè prodotto dal maestro Antonio Patané.

Indubbiamente i tratti interetnici dei brani di De André come della nuova musica a lui ispirata, continuano a farla da padrone in questo tipo di manifestazioni. Una pluralità espressiva che, da sempre, abbraccia i dialetti italiani come le lingue delle minoranze.

Struggente la versione di Khorakhanè, dedicata al popolo rom, che la cantautrice Pilar, ospite della serata, ha regalato alla platea. Così come le esibizioni di Daniele Silvestri, targa Faber, che si è addentrato nel clima da antico far west sardo della Disamistade e di Neri Marcorè che, insignito del riconoscimento dedicato a “quelli che cantano Fabrizio”, con la sua voce calda e così vicina al tono proprio dell’originale, ha riportato il pubblico di cultori tra i vicoli di Genova, lungo quelle creuze de ma, calate a precipizio sul mare della Liguria, dove tutto è cominciato e, grazie all’impegno di Dori Ghezzi, continua a marcare gli orizzonti di una musica altrimenti asfittica. Merito, mai troppo decantato, dello sguardo di De André e di chi non smette di amarlo. Uno sguardo infinito, ben oltre i ventidue anni di assenza di Faber.

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