sabato 5 giugno 2021

Non è tanto importante quanto a lungo viviamo, ma come lo facciamo

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La medicina è una materia piuttosto complessa e utile per la nostra società, anche se a me sembra che sul piano filosofico abbia una concezione dell’essere umano piuttosto semplicistica: ho come l’impressione che consideri l’essere unicamente come corpo e identifichi il bene esclusivamente con il suo “funzionamento”, aggiungendo che tanto più è un bene, quanto più a lungo un corpo funziona.

Credo che la versione parossistica e anche un po’ degenerata di tale concezione potremmo rintracciarla in certi casi di accanimento terapeutico in cui la sacralità della materia deve essere difesa anche contro il desiderio della psiche che la abita.

A mio avviso la medicina ha un grosso limite che forse non è stato considerato in questo periodo di emergenza: non risolve il problema della morte, semplicemente lo posticipa. Secondo Freud la morte è un qualcosa di irrappresentabile: ogni volta che cerchiamo di immaginarla finiamo per farlo sempre come spettatori e mai come attori principali, mai come un qualcosa che ci investe in prima persona, per questo, aggiunge, la scuola psicoanalitica ha affermato che non c’è nessuno che crede alla propria morte, ognuno di noi è inconsciamente convinto della propria immortalità.

Se ammettiamo anche noi questa ipotesi, potremmo allora dire che questa convinzione inconscia è ciò che rende vivibile la vita; la pena più atroce di un condannato a morte non è tanto quella di dover morire, condizione analoga alle persone libere, ma quella di dover pensare quotidianamente a un qualcosa che non può essere inglobato nell’economia psichica, la pena di morte è il risveglio dal sogno dell’immortalità.

Come società, in questo periodo abbiamo vissuto parzialmente questo risveglio, e purtroppo una volta superata l’emergenza sanitaria la nostra condizione ontologica rimarrà pressoché invariata, arriverà un giorno in cui la medicina non avrà la soluzione al nostro problema: anche noi dovremo morire.

Per una società materialistica, pragmatica, anche piuttosto superficiale, che orienta ogni azione all’utile, la fine del corpo è davvero la fine, perché oltre il corpo non c’è niente. Il vero problema però è che in tale contesto viene considerato privo di valore tutto ciò che “non si tocca”, la filosofia ad esempio, che per secoli ha trovato soluzioni efficaci a problemi insormontabili, è stata relegata nel campo delle scienze inutili o, al meglio, al pari del piacere immaginario del racconto di una fiaba.

Una di queste fiabe narra la storia di un uomo che di mestiere faceva lo schiavo in epoca romana, secondo il quale l’infelicità deriva da una errata concezione di ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è: è in nostro potere la nostra opinione, il nostro desiderio, la nostra avversione. Non è invece in nostro potere il nostro corpo, non siamo noi a decidere di essere alti, bassi, biondi, neri; non è in nostro potere il nostro patrimonio, la nostra reputazione, la fedeltà di nostra moglie e così via. Queste cose, visto che non sono in nostro potere, non ci riguardano. Se ci dedicheremo solo alle cose in nostro potere, nessuno ci danneggerà, nessuno ci sarà nemico, perché non subiremo alcun danno. Padrone di qualcuno è colui che ha il potere di procurargli o togliergli ciò che vuole o non vuole, chi vuole essere libero quindi non fugga ciò che è in potere di altri, altrimenti è inevitabile che sia schiavo. Non ci fa violenza chi ci insulta o percuote, ma il giudizio che costoro ci facciano violenza.

Se ci pensiamo, noi applichiamo inconsapevolmente il nucleo di questi principi ogni volta che qualcosa ci turba, quando poi in un secondo momento, il nostro turbamento si ridimensiona: a cambiare non è stata la cosa che ci ha turbato ma il nostro giudizio nei confronti di essa. Siamo semplicemente intervenuti nel territorio in nostro potere, che è quello giusto.

Questa è la fiaba di uno schiavo di nome Epitteto, che ci offre la chiave della libertà interiore e che potremo leggere quando la medicina non saprà più cosa fare del nostro corpo. L’accettazione di ciò che non è in nostro potere, per quanto difficile possa essere, renderà il nostro animo più sereno. A quel punto la morte, in maniera molto più concreta del nostro sogno di essere immortali, potrà davvero diventare qualcosa che non ci riguarderà.

 

a cura di Giordano Proietti

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