venerdì 20 novembre 2020

Rileggere Illich.

foto Pixabay

Quarantaquattro anni or sono (1976) Ivan Illich pubblicò questo storico libro che svolge una critica radicale dello stato in cui versa la moderna medicina occidentale, provocando accese discussioni e anche furiosi contrasti. La medicina può far ammalare? Proprio così, sosteneva Illich, tutte le volte che nel suo operare essa supera specifici limiti, che è ciò che oggi accade, ancor più di quarantaquattro anni or sono. Ho scritto “storico” perché questo libro segnò una tappa di profondo dibattito, ma non di successiva svolta pratica, nella storia della medicina[1]. 

Così oggi è incluso fra le letture indicate nei curricula di varie facoltà di medicina. 

comune-info.net Aldo Zanchetta

Lessi il libro all’epoca, ma oggi mi pare che lo compresi solo in parte. Proprio in quegli anni stavo trasformandomi da ingegnere chimico in ingegnere farmaceutico, in un momento di forte evoluzione tecnologica della produzione dei medicinali. Così mi appassionai a quel mestiere che richiedeva forte creatività e impegno e che per 25 intensi anni mi avrebbe procurato gioie e dolori, innescando però poco alla volta crescenti interrogativi sulla scienza, sulla tecnica e sul loro mercimonio.

Nel 2001, dopo aver chiuso quell’esperienza ed avendo accumulato una forte carica critica verso la società industriale conosciuta dal di dentro in uno dei suoi rami più avanzati, mi ricordai di Illich e riaprii il suo libro più noto, La Convivialità, e via via mi dedicai a leggere o rileggere i suoi libri (Energia ed equità, Il lavoro ombra etc. stimolato anche dalla fortunata occasione di averlo conosciuto personalmente e aver potuto conversare due volte con lui per alcune ore alla vigilia della sua morte (2002).

Ritenevo di ricordare abbastanza bene il contenuto di Nemesi Medica per cui nella lettura detti la precedenza ad altri testi finché in epoca di pandemia ho ritirato fuori dallo scaffale il vecchio libro nel quale gli anni avevano fatto fiorire nel frattempo ampie macchie giallastre, dandogli la veste di un “libro d’epoca”.[2] Ma la rilettura mi ha detto che se di libro d’epoca si tratta, essa è quella attuale. 

Scrivo queste note avendo iniziato una terza lettura, più lenta e centrata su alcuni singoli capitoli o brani, ognuno dei quali, denso, stimola un’ampia riflessione. Queste prime note sono centrate sulle prime sette pagine, ovvero l’Introduzione.

Prima però una breve spiegazione del titolo: Nemesi Medica – L’espropriazione della salute. Le persone, secondo Illich, sono state espropriate della personale responsabilità verso i propri corpi e verso la propria salute, responsabilità che nel tempo è stata prima trasferita a professionisti e successivamente ad una impersonale istituzione medica, quella che oggi ci detta quello che in questo campo specifico dobbiamo e possiamo fare, e quello che no.

Nelle principali culture antiche, in particolare quella greca, il medico era colui che aiutava il paziente a guarirsi. Sostitituendosi a questa tradizione, eccedendola e accrescendo via via il proprio potere, il professionista e l’istituzione medica hanno ceduto a una forma di hubris (orgoglio, superbia). Nella cultura greca, attenta con i suoi miti a condannare ogni evasione dell’essere umano dai propri limiti, la hubris costituiva un’invasione di campo nei poteri delle divinità, la cui risposta punitiva, tramite la natura, era la nemesi, “l’ineluttabile castigo di ogni tentativo d’essere eroi anziché creature umane”. Nel caso della medicina Illich chiama questa punizione iatrogenesi, generata cioè dalla stessa medicina (“iatros”, medico; “genesis”, origine), come accade in fisica quando una azione perturbante produce sul sistema un effetto di ritorno, o feedback. Ma per la medicina questa analogia è imperfetta, come argomenteremo più tardi. Per questa ragione, per non confondere la diversa natura dei due fenomeni, Illich ricorse a una immagine della mitologia greca, la dea Nemesi, distributrice di giustizia.

L’Introduzione esordisce perentoriamente: “La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute” e, per non lasciar dubbi, prosegue: “L’effetto inabilitante  prodotto dalla gestione professionale della medicina ha raggiunto le proporzioni di una epidemia“,  il cui nome è appunto iatrogenesi.

Un sistema di tutela della salute a carattere professionale e basato sul medico, una volta cresciuto al di là dei limiti critici, diventa patogeno  per tre motivi: produce inevitabilmente un danno clinico che sopravanza i suoi potenziali benefici; non può non favorire, pur se le oscura, le condizioni politiche che rendono malsana la società; tende a modificare e a espropriare il potere dell’individuo di guarire se stesso e di modellare il proprio ambiente. I sistemi sanitari contemporanei hanno superato questi limiti di tollerabilità.

Il perché dell’oscuramento verrà esplicitato oltre nel libro e ci torneremo per il suo significato politico. Perciò, scrive Illich, “viene rapidamente maturando il problema politico di stabilire un limite alla cura professionale della salute. A chi spetta farlo? Gli appartenenti al sistema, la classe medica, secondo quanto afferma, non sono in grado di farlo. Spetterebbe ai politici, che hanno provato però sbagliando mira ed equivocando sul cosa sarebbe necessario fare. Le loro misure, analizzate in un successivo capitolo, sono fallite perché concepite nel quadro di un fallace feedback tecnico.

Salute e arte. Jan Josef Horemans. Il Paziente

La mia tesi è che il profano e non il medico ha la potenziale prospettiva e il potere effettivo per arrestare l’imperversante epidemia iatrogena. Al lettore profano questo libro offre un quadro concettuale in cui mettere a raffronto il rovescio del progresso con i suoi benefici più propagandati.

E questo è l’obiettivo del libro, che è scritto per il profano della medicina e non per la classe medica, come l’argomento potrebbe far pensare, anche se non mancarono medici che lo lessero condividendolo, e continuano a leggerlo e citarlo anche in questa fase pandemica.[3]

Il profano di medicina, per il quale questo libro è stato scritto, dovrà procurarsi lui stesso la competenza necessaria per valutare gli effetti della medicina sulla salute. Fra tutti gli specialisti del nostro tempo, i medici sono infatti quelli addestrati al più alto livello di incompetenza specifica per questa ricerca indilazionabile.

È sulla base di questa sollecitazione, che condivido, che mi sto impegnando in questa rilettura. Del resto il diritto sulla gestione del proprio corpo fu messo in prima linea proprio allora dalle donne, come Illich ricorda. L’affermazione di incompetenza sopra citata è forte, ma ho messo in corsivo il campo specifico dell’incompetenza a cui Illich si riferisce, per avvertire di non estrapolare il campo di applicazione delle sue parole. Comunque Illich non è tenero verso la classe medica in generale, come non lo è con la classe dei cosiddetti “esperti”[4]. Egli però ha avuto fra i medici anche amici ed estimatori. 

È chiaro che chi condivide il credo moderno delle “grandi opere”, del superamento dei limiti in ogni campo, e riverisce gli “esperti”, non si ritroverà in questa impostazione di fondo illichiana. Una precisazione è però necessaria, ad evitare malintesi. Illich è ritenuto il promotore del “piccolo è bello”, però per lui è “bello” ciò che è “proporzionato”, che possiede la “giusta misura”, che è specifica della finalità di ogni progetto e di ogni istituzione[5]. Illich non nega la medicina in quanto tale ma è avverso alla medicina che ha esorbitato dalle sue finalità, quella iatrogena appunto, quale è oggi la medicina occidentale.  Altrove nel libro scrive ad es.:

“Il fatto che l’ultraespansione medica abbia un potere distruttivo non significa, ovviamente, che la vigilanza sulle condizioni igieniche, la vaccinazione e il controllo dei portatori d’infezione, una ben distribuita educazione sanitaria … un largo e equo accesso alle cure mediche di base … non possano tutti rientrare in una cultura veramente moderna che promuova l’autonomia e la capacità di badare a se stessi”. (p.236)

Il libro però ha un secondo scopo non meno importante, quello di usare l’analisi della medicina per dimostrare quella che lui chiama la controproduttività delle grandi istituzioni, concetto che qualche studioso ritiene essere uno dei lasciti più preziosi per la comprensione degli attuali squilibri. Ogni istituzione (la scuola, la sanità…) ha un suo specifico limite oltrepassato il quale invece di produrre i benefici attesi, li contrasta e osteggia. E scrive: “Il presente studio della medicina patogena è stato intrapreso allo scopo di illustrare nel campo della assistenza sanitaria i vari aspetti di controproduttività che si possono riscontrare in tutti i principali settori della società industriale  giunta al suo stadio attuale”.

Nel libro infatti egli dedica un intero capitolo alla controproduttività, il VI, concetto che aveva già affrontato nel suo libro forse ancor oggi più letto, La Convivialità. Sempre nell’introduzione anticipa un altro tema, che apparirà varie volte nel libro, quello del contesto ambientale e sociale in cui la salute può prosperare:

“’Salute’, dopo tutto, è semplicemente una parola del linguaggio quotidiano la quale designa l’intensità con cui gli individui riescono a tener testa ai loro stati interni e alle condizioni ambientali. Nell’homo sapiens, “sano” è un aggettivo che qualifica azioni etiche e politiche. Almeno in parte, la salute di un popolo dipende dal modo in cui le azioni politiche condizionano l’ambiente e creano quelle circostanze che favoriscono in tutti, e specie nei più deboli, la fiducia in se stessi, l’autonomia e la dignità. Di conseguenza, la salute tocca i suoi livelli ottimali là dove l’ambiente genera capacità personale di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile”.

Sfiora anche un tema, che farà trasalire molti, quando osserva che “l’istruzione che addestra sempre più gente a livelli di competenza tecnica sempre più elevati e a forme specializzate di incompetenza generale“. Un tema, questo, ostico in un’epoca che privilegia l’ultraspecializzazione e onora il darwinismo sociale e sul quale ho avuto modo di riflettere assai nelle mie frequentazioni dei mondi indigeni latinoamericani, oltre che a ricordare significative esperienze professionali. Su questo tornerò più a lungo, per l’importanza che gli annetto, quando lo reincontrerò più avanti nel libro. Intanto, per dare uno spunto di attualità di esso relativo alla pandemia del Covid-19, cito in nota un articolo significativo, utile da leggere in tempi di pandemia e nel contenuto del quale mi ritrovo.

Per concludere questa sintesi della già concentrata Introduzione al libro, anticipo i temi delle prossime note destinate ai tre tipi di iatrogenesi che Illich esplora con dovizia di argomenti: la iatrogenesi clinica, quella sociale e infine quella culturale. Quest’ultima è quella che affrontando i temi del dolore, della menomazione e della morte è la più problematica e scioccante nel momento attuale. Il libro conclude approfondendo il significato della controproduttività della medicina super-specializzata, sulle contromisure politiche (ad oggi fallite) e sul recupero della salute.

La parte finale di questi appunti non riguarderà direttamente il testo del libro ma una serie di riflessioni che esso ha provocato rispetto alla pandemia, e per le quali sono grato all’autore per avermi aperto altre finestre su questo tragico evento.

Concludo ricordando un grave problema di salute che afflisse l’ultima parte della vita di Ivan, da lui affrontato con coraggio e estrema coerenza fra la sua pratica di vita e il suo pensiero. Negli ultimi anni di vita un tumore deformante cominciò a crescere sulla guancia destra fino a raggiungere le dimensioni di una mezza noce di cocco, tumore che lo tormentò con fortissimi dolori fino alla morte (2002). Ancor oggi si scrive, appoggiandosi su alcune sue frasi sull’accettazione del dolore, che a causa di sue ipotetiche credenze mutuate da altre culture, avesse rifiutato di curarsi. La verità  è che i medici ai quali si era rivolto lo avevano informato che il tumore si sarebbe potuto asportare chirurgicamente ma con grave rischio di menomare le capacità cerebrali, rischio che decise di non correre anche se a prezzo altissimo. Quello che è vero è che mutuò da altre culture, che conosceva per lunghe frequentazioni, modi per limitare le fasi acute del dolore. Però la versione “eroica” ma insensata del rifiuto di consultare i medici resta tutt’ora accreditata da alcuni biografi.

(continua)


[1] Qui, anche quando non lo espliciterò, la parola medicina è sempre riferita alla medicina occidentale moderna. Per chi desiderasse avere una breve panoramica su alcune storiche pratiche mediche non occidentali tuttora vive, indico come una delle possibile lettura il libro Percorsi di guarigione. La cura nelle diverse tradizioni del mondo (a cura di A. Chieregatti). Collana Interculture di Mutus Liber, Riola (BO), 2014.

[2] Illich I., Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, Milano, 1976, Il libro è stato riedito con lo stesso titolo da Red Edizioni nel 2013.

[3] Fra quelle lette cito per acutezza e per il legame con l’attuale situazione, quella dello scrittore Raffaele Alberto Ventura, La società iatrogena, not.neroeditions.com › la-societa-iatrogena.

[4] Illich scrisse con esperti di vari settori un libro collettaneo, poco conosciuto, dal titolo Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti (Erickson, Gardolo (TN), 2008.

[5] Illich riconosce di dovere molto su questo argomento a Leopold Khor, in gioventù suo collega di insegnamento universitario a Portorico, il quale ha scritto pagine profonde sull’analisi dimensionale, in Urbanistica come in Politica e in altri campi. Lo slogan “Piccolo è bello” ha avuto successo in seguito alla pubblicazione del libro “Piccolo è bello” scritto da E.F. Schumacher, un  allievo di Kohr (1973)

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