mercoledì 4 dicembre 2019

Clima. La situazione precipita.

Per l’aumento delle temperature tra pochi anni in Artide il mare sarà quasi completamente navigabile. Alla Cop 25, la Conferenza Onu sul clima che si tiene in questi gironi a Madrid, si corre ancora una volta il rischio di approvare ulteriori rimandi proprio mentre le accelerazioni dei fenomeni e il moltiplicarsi di eventi estremi, come dimostra quanto accaduto a Venezia, richiedono impegni e azioni di grande portata, da realizzare in tempi stretti.


Artide, la situazione precipita
 

Già alla fine della primavera di quest’anno le stazione meteo avevano fatto registrare il 12 giugno temperature fino a 22 gradi sopra la media stagionale e la fusione dei ghiacci superficiali era già al 40 per cento, quattro volte superiore alla media dello stesso periodo degli anni precedenti.
 I climatologi avevano previsto che questi fenomeni si sarebbero potuti verificare ma intorno al 2070.
E il National Geographic del settembre 2019 aggiunge: “E invece sta succedendo qui, e ora” .

Ciò non significa che gli scienziati si erano sbagliati, ma che questi eventi estremi hanno accelerato e si stanno verificando con cinquant’anni di anticipo e che i modelli finora utilizzati (anche in sede Onu) per le previsioni del clima devono essere rivisti completamente.
Nei testi contenuti nel numero della rivista dedicato all’Artide si ipotizza anche che entro la metà del secolo, se non prima, le estati artiche saranno abbastanza calde da causare la fusione di gran parte della banchisa che si è formata durante l’inverno. In una immagine proiettata all’anno 2036, si vede un mare quasi completamente navigabile e una terra molto più verde.
Ciò significa anche nuove zone di pesca e la possibilità di un migliore accesso a enormi giacimenti di gas, petrolio e altri minerali preziosi per le industrie. Nel settembre 2018, almeno 879 navi hanno solcato i mari artici, quasi il 60 per cento in più rispetto al 2012; di queste le petroliere e le gasiere sono state 57 ma il loro consumo  di carburante è stato la causa del 33 per cento delle emissioni di anidride carbonica nella zona. Tuttavia questo traffico tenderà ad aumentare perché il viaggio da est a ovest attraverso il Canale di Suez è lungo 21.000 chilometri mentre quello attraverso il mare artico è di 13.500 chilometri. Inoltre  già oggi è possibile effettuare prospezioni e aprire miniere, aumentando in notevole misura le disponibilità di combustibili fossili e di materie prime per le produzioni industriali, da tempo causa di una quota molto rilevanti delle emissioni di gas serra, responsabili del riscaldamento globale.

L’altro meccanismo che risulta essere in piena accelerazione riguarda il permafrost, cioè lo strato di terra perennemente ghiacciata finora coperta dai ghiacci e in questi ultimi anni lasciata sempre più esposta al riscaldamento globale a causa della progressiva sparizione dei ghiacciai. Gli studiosi stanno continuamente scoprendo dei paesaggi instabili, in cui il permafrost, che un tempo si scongelava al massimo di pochi centimetri all’anno, ora fonde all’improvviso fino a tre metri di spessore, nel giro di pochi giorni o settimane, creando zone umide, piccoli laghi o crateri in regioni come l’Alaska, la Groenlandia e la Siberia un tempo ghiacciate. Si stanno quindi liberando in modo accelerato i 1.600 miliardi di tonnellate di carbonio prima bloccate sottoterra.
Le emissioni riguardano in particolare il gas metano, che è compreso tra i gas serra, ma ha degli effetti molte volte più gravi di quelli causati dall’anidride carbonica.
Il testo qui utilizzato, inoltre, fa notare che i modelli finora usati per le previsioni climatiche ancora non comprendono questo fattore, rendendo ancora più gravi tutte le minacce fino ad oggi indicate nei rapporti scientifici ufficiali. Presenta anche un ragionamento della massima importanza per i decisori politici. Secondo il rapporto dell’IPCC dell’ottobre 2018, nel quale si sottolineava l’importanza di mantenere il riscaldamento globale sotto il grado e mezzo di aumento, questo obiettivo più ambizioso permetterebbe di esporre 420 milioni di persone in meno alle frequenti ondate di caldo e dimezzerebbe il numero di piante e di animali che subirebbero una perdita di habitat e forse potrebbe anche salvare fino a 2 milioni di chilometri quadrati di permafrost.
Ma per raggiungere questo obiettivo, secondo l’IPCC il mondo dovrebbe tagliare le emissioni di gas serra del 45 per cento entro il 2030 ed eliminarle del tutto entro il 2050.
Però non possiamo ormai dimenticare le rapide fusioni del permafrost sopra descritte, che secondo alcuni ricercatori richiederebbero di anticipare di almeno sei anni queste scadenze.  
I tempi a disposizione per azioni politiche concrete e adeguate si riduce sempre di più e sarà importante vedere tra qualche giorno se la COP 25 riuscirà tenere conto di queste indicazioni degli scienziati.
Infine, una informazione apparentemente di poca importanza che nasconde invece indicatori fondamentali. Alcuni ricercatori che studiano da tempo le colonie di castori in Alaska segnalano che stanno creando nuoce colonie in aree dove non esistevano negli anni Ottanta e stanno colonizzando l’Alaska settentrionale avanzando di circa otto chilometri all’anno. E questo uno dei segnali più chiari dello spostamento delle “linee del clima” sotto l’azione del riscaldamento globale, lo stesso che permette ormai di coltivare in Sicilia frutti tropicali, ma che aumenta rapidamente anche le aree della siccità in tanti paesi.

L’estinzione di massa progredisce
A partire dal 1750, almeno 571 specie di piante sono scomparse, ma dal 1.900 spariscono in media 8 specie vegetali ogni tre anni. Il primo dato indica il tasso di estinzione “naturale” o “di fondo” che nei secoli è sempre esistito, mentre il secondo dato che quantifica le tendenze più recenti è cinquecento volte più rapido e ha portato molti studiosi a parlare di “sesta estinzione di massa” causata quasi totalmente dalle tecnologie inventate dagli esseri umani.
L’innalzamento del livello dei mari
Con una perdita annuale del 13 per cento dei ghiacci artici, uno degli effetti principali è costituito dall’innalzamento del livello degli oceani. Un recente rapporto dell’IPCC ha approfondito molti aspetti di questo preoccupante fenomeno, determinato anche  dall’espansione termica delle masse acquee e dai primi distacchi di enormi iceberg in Antartide. Secondo questo rapporto, entro il 2100 i livelli si alzeranno oltre dieci volte più velocemente di quanto è avvenuto nel ventesimo secolo. Vale a dire 15 millimetri all’anno invece dei 3,6 di oggi e l’1,4 del secolo scorso: ciò significa che i mari dovrebbero sollevarsi di 84 centimetri nei prossimi ottanta anni. In realtà alcuni scienziati (come James Hansen, ex Nasa) prevedono innalzamenti molto più rilevanti compresi tra i sei e i nove metri, ma già ciò che si è verificato negli anni più recenti ha comportato la scomparsa di alcune isole in Oceania e in Tailandia. Inoltre dal 1993 il tasso di riscaldamento delle acque è più che raddoppiato e le ondate di calore sono due volte più frequenti, lunghe ed estese e nello scenario peggiore la loro frequenza potrebbe essere cinquanta volte maggiore da qui al 2100. Non si può dimenticare poi che gli oceani hanno assorbito tra il 20 e il 30 per cento del biossido di carbonio prodotto dall’uomo e che ciò ha causato una riduzione del 15 per cento del potenziale di pesca.
Infine, un recente studio relativo a 47 delta fluviali, ha rilevato che almeno 33 di essi sono a rischio a causa del minore apporto di sedimenti, causato dal moltiplicarsi di dighe, da cambiamenti nell’utilizzo dei suoli e da mutamenti del regime delle piogge, oltre che dalle riduzioni dell’apporto di acqua dei ghiacciai. In conclusione, uno studio pubblicato su Nature prevede che entro il 2050 almeno trecento milioni di persone che vivono sulle rive dei mari saranno sommerse dalle acque almeno una volta all’anno: finora le cifre sulle persone a rischio superavano di poco i cento milioni di persone e prevedevano tempi più lunghi. Il titolo dell’articolo del Corriere della Sera del 31 ottobre era tristemente profetico: “E il mare si mangerà Venezia e Mumbai” e il 13 novembre una “acqua alta” ancora definita “straordinaria” ha riempito giornali e schermi di immagini paurose.
I veleni nell’aria
Le polveri sottili presenti nell’aria del Nord dell’India hanno raggiunto livelli tali che nella capitale New Delhi sono stati distribuiti nelle scuole cinque milioni di maschere, oltre a deviare voli e bloccare a turno le auto.
Sono stati infatti sfiorati i 900 microgrammi per metro cubo, i valori peggiori degli ultimi tre anni, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica una soglia giornaliera massima di 25 microgrammi. La città è la più inquinata dell’Asia, ma nel paese sono 22 le città comprese nella lista delle 30 città più inquinate del mondo.  
Ma anche l’Italia fa registrare un primato non invidiabile. 
Ben 61.000 persone sono state uccise dallo smog in 17 anni, in base ai dati della Agenzia Europea dell’Ambiente.
Il nostro paese è al primo posto nell’Unione Europea per morti premature causate da biossido di azoto, ben 14.600 e da ozono, 3.000.
È invece seconda dopo la Germania per decessi, 58.600 in dieci anni, causati dal particolato fine.  
Torino è tra le città più inquinate dal biossido di azoto, mentre Padova è quella con la maggior concentrazione di Pm 2,5 e Pm 10.
 In totale oltre due milioni di italiani vivono in aree, soprattutto nella pianura padana, dove i limiti stabiliti per i tre inquinanti fondamentali sono violati sistematicamente.
Anche le città sono in una situazione analoga. Per i centri abitati c’è un limite annuale previsto per le polveri sottili: un massimo di 35 giorni con una media giornaliera di Pm10 maggiore di 50 microgrammi a metro cubo di aria. Ma secondo i dati di Legambiente, Milano sfora il limite con 56 giorni all’anno, e inoltre non esiste un piano per affrontare in modo organico questo problema.

Le carni alternative sono in fase sperimentale
Mentre si moltiplicano le possibilità di consumare carne biologica, cioè proveniente da bestiame allevato all’aperto e senza il ricorso a mangimi di produzione industriale, le grandi multinazionali dell’alimentazione hanno avviato diversi processi volti a realizzare quantità rilevanti di sostituti vegetali delle carni o di carne sintetica prodotta dall0industria biotecnologica.  
Attualmente, 
  • il 46 per cento della produzione agricola mondiale attuale è costituita da mangimi per animali
  • il 37 per cento viene consumata direttamente dagli esseri umani, 
  • il 6 per cento viene trasformata in biocarburanti, 
  • oltre il 10 per cento sfugge alle rilevazioni statistiche.
Non dobbiamo dimenticare che l’intero settore agricolo produce il 14 per cento delle emissioni dannose per l’ambiente.
In futuro, almeno secondo le fonti aziendali interessate, la carne convenzionale (cioè quella che si consuma attualmente) passerà dal 90 al 40 per cento, poiché entro il 2040 la carne artificiale dovrebbe rappresentare il 35 per cento del consumo e quella formata da sostituti vegetali dovrebbe raggiungere il 25 per cento del consumo.
Gli articoli che trattano questo argomento (cfr. Internazionale del primo novembre 2019) dovrebbero essere studiati accuratamente e le attività delle imprese citate dovrebbero essere monitorate con la massima attenzione, poiché la prospettiva delineata appare essere molto attendibile, anche perché l’intero settore attuale ha un peso non indifferente sulle emissioni dannose per l’ambiente.
Ovviamente la salute degli esseri viventi, sia degli animali che dei consumatori umani dovrà essere tutelata ad ogni costo, prima che le leggi del profitto a ogni costo facciano sorgere interi settori industriali difficili da smontare in un futuro non lontano.
Si deve immaginare una COP 25 profondamente diversa dalle precedenti?
Infine, alcune considerazioni sugli attuali rapporti internazionali e sulle scadenze sempre più vicine per una lotta utile contro il riscaldamento globale.

L’assenza degli Stati Uniti (ormai definitiva anche se sospesa per vincoli procedurali), pur compensata da una presenza forse informale ma molto attiva, dei centri di ricerca e dagli stati americani più coscienti dei rischi climatici, muta profondamente le dinamiche interne del Trattato di Parigi, aumenta gli oneri di tutti gli altri governi partecipanti e rende più difficile l’organizzazione di qualunque politica di intervento realmente significativa per i mutamenti necessari nei flussi di emissioni climalteranti. D’altra parte, le mobilitazioni a scala mondiale dei ragazzi delle scuole – certamente più attive nei giorni degli incontri tra le parti – non hanno ancora espresso obiettivi realistici alternativi da rivendicare o da imporre.
In altre parole, alla Cop 25 di Madrid che si tiene in questi gironi, si corre il rischio di approvare ulteriori rimandi proprio mentre le accelerazioni dei fenomeni e il moltiplicarsi di eventi estremi sembrano richiedere impegni e azioni di grande portata, da realizzare in tempi stretti.

Sono quindi giorni cruciali per gli infiniti e articolati movimenti dal basso che sono ben coscienti della gravità della situazione e delle prospettive a breve termine.
Eppure, perfino quanto è successo in questi giorni in una città ben nota in tutto il mondo come Venezia, non è stato collocato chiaramente all’interno dei meccanismi ormai in accelerazione del riscaldamento del pianeta e dell’innalzamento del livello dei mari.

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