Il
concetto fondamentale di questa trasformazione del lavoro e delle sue
forme è la conversione della figura del lavoratore per come l’abbiamo
conosciuta, dall’essere tale, ad essere collaboratore o per come sono
stati definiti in uno studio promosso da Federmeccanica nel 2016,
all’essere Lavoratori Imprenditivi.
Lo
studio stesso si intitola e non lascia margine d’interpretazioni,
“Lavoratori imprenditivi 4.0, il lavoro nell’epoca della quarta
rivoluzione industriale”, di cui riporto un passo estremamente
significativo: “La prevalenza non solo dai cosiddetti lavoratori
della conoscenza, ma anche da chi opera in team, in gruppo di lavoro
dove si sviluppano competenza diversificate.
Dove la dimensione manuale
si confonde e s’interseca con quella intellettuale.
E viceversa, al
punto che le due categorie classiche intellettuale e manuale perdono di
valore euristico.
Dobbiamo considerale i lavoratori, al plurale appunto.
[…]
L’autonomia, tipica dell’imprenditore, si sposa con l’essere alle
dipendenze, condizione tipica del lavoratore.
Ecco allora che abbiamo a
che fare con lavoratori imprenditivi, lavoratori che sviluppano
caratteristiche più del lavoro autonomo, grazie anche alle nuove
tecnologie introdotte dalla quarta rivoluzione industriale.”
Una conversione che passa attraverso molteplici e differenti aspetti che già sono in corso, trai quali vale la pena evidenziare:
Una diversa concezione del luogo di lavoro1,
dove dalla la fabbrica-formicaio (quella conosciuta fino ad oggi) si
contrappone e si sviluppa a quella della fabbrica-laboratorio in cui le “differenti componenti del lavoro, si mescolano e si sovrappongono nello stesso ambiente impollinandosi a vicenda di idee”2.
Il lavoro non deve più essere un posto ma un flusso, un’attività che
può essere realizzata in posti diversi. La trasformazione si vede in
molte fabbriche e uffici, che non hanno più spazi preassegnati per le
singole persone, ma solo ambienti liquidi all’interno dei quali i gruppi
si associano sulla base dell’agenda del giorno: quale prodotto deve
essere realizzato, quale progetto deve essere seguito, quale obiettivo
deve essere raggiunto.
Le relazioni gerarchiche sembrano scomparire, trasformandosi da “verticali” a “collaborazioni orizzontali”,
il tutto a spingere i lavoratori a percepirsi come imprenditori, cosa
che non sono perché non detengono i mezzi produttivi e in realtà non
partecipano al profitto perché di fatto continuano a percepire un
salario, dipendenti o “finte partite IVA” che siano.
Il lavoro e il salario sono sempre più indirizzati al risultato,
il salario va a diminuire e viene elargito come premio di risultato
(cosa che lo fa scambiare come ritorno di un investimento), trasferendo
buona parte del rischio dal vero imprenditore datore di lavoro ai finti
“collaboratori imprenditori lavoratori”.
Ma
qual è il concetto, o per meglio dire l’impianto ideologico complessivo
(rivoluzione neoliberale della società, per intendersi), che sottende
questi aspetti e in generale questa conversione da lavoratore a
collaboratore\lavoratore imprenditivo? Appunto, l’annullamento ideologico della fondamentale contraddizione tra
l’interesse imprenditoriale del datore di lavoro, legato alla
riproduzione del ciclo capitalistico allo scopo del profitto e
l’interesse del lavoratore che percepisce un salario o ha una “finta
partita IVA” attraverso la quale – di fatto anche se non lo pensa –
lavora per un dato soggetto.
Infatti, il messaggio che viene continuamente reiterato è che ognuno deve essere, imprenditore di sé stesso3, nel senso di investimento su sé stessi,
concetto che investe in pieno il lavoro ma che “esonda” dal mero
ambiente lavorativo all’esistenza singola e collettiva-sociale. Ci
troviamo in una fase in cui nel lavoro come nella società può esistere solo l’etica imprenditoriale, che è l’etica del nostro tempo.
Il
lavoro, come l’esistenza, devono essere completamente basati sulla
responsabilità individuale e sulle proprie performance, sul migliorarsi e
concepirsi come un costante investimento di sé – nel senso economico
del termine – che deve produrre risultati, cioè sulla competizione,
concepita come concorrenza di mercato, costante.
“L’individuo performante e competitivo cerca di massimizzare il proprio capitale umano in tutti i campi”4. Ma soprattutto cerca di lavorare su sé stesso per trasformarsi permanentemente, migliorarsi, rendersi sempre più efficiente. Imprenditivo, appunto.
A distinguere questo soggetto è proprio il processo di potenziamento di sé a cui è condotto, che lo porta a volere migliorare senza sosta i suoi risultati e le sue prestazioni.
“Il
grande principio della nuova etica del lavoro è l’idea che la
congiunzione delle aspirazioni individuali e degli obiettivi
dell’impresa, sia possibile solo se l’individuo (il lavoratore) stesso
diventa una piccola impresa”. […] “L’impresa va pensata come
un’entità composta da piccole imprese di sé: l’impresa nel senso
economico del termine è l’insieme delle imprese delle persone che la
compongono”5.
Il
“nuovo” lavoro, andando di pari passi con quello dell’istruzione e
della formazione, si deve fondare e si sta già fondando sui concetti
appena esposti che si riassumono e trovano la loro pratica nei paradigmi
dell’: impiegabilità che sostituisce l’occupazione e l’“apprendimento permanente”.
Infatti ci troviamo di fronte alla distruzione dello stato sociale per
come l’abbiamo conosciuto, alla sua riformulazione a favore di una
società che è composta solo da singoli in costante competizione fra
loro. Ma se non sei in grado di competere? Se da solo non sei in grado
di farcela, allora la società (Stato) interviene, non a risolvere i
problemi strutturali che determinano la condizione in cui si è (povertà,
crisi economica, ecc.), ma a reinserirti in un percorso perché tu possa
diventare nuovamente concorrenziale, perché la responsabilità della
condizione di povertà, di disoccupazione, è colpa esclusivamente del
singolo, che ha sbagliato l’investimento su te stesso. Detto in modo
molto semplice, questa è la logica che sta alla base della flessisicurezza, dell’occupabilità e del “workfare”6,
i paradigmi fondanti del nuovo stato sociale e del lavoro per come sono
concepiti dall’Unione europea e quindi recepiti dagli stati membri.
“Nel 2000 la strategia di Lisbona chiarisce che […]. Il paradigma della flessicurezza deve diventare uno dei cardini della politica sociale dell’Unione europea […] Nel
quadro delle politiche sociali il modello della flessicurezza, coniuga
le politiche del lavoro basate sul principio della flessibilità dei
contratti e dell’apprendimento permanente con le normative di gestione
della povertà […]. La piena occupazione a cui si fa
riferimento nei documenti europei è da intendersi nel senso di garantire
a tutti gli individui la piena occupabilità per tutto il corso della
loro vita […]”7.
Ma occupabilità non significa occupazione, bensì “compito
del welfare europeo è, dunque, mettere tutti gli individui in
condizione di avere le conoscenze e le qualifiche necessarie per essere
sempre competitivi nel mercato del lavoro”8 (investimenti di sé, imprese di sé stessi).
Questo
fanno i sindacati gialli, ti assistono nel fornirti le condizioni di
possibilità di reintegro nella competitività, non difendendo così il
diritto al lavoro, gli interessi dei lavoratori, la rappresentanza
democratica nei luoghi di lavoro, ma le regole del mercato!
Con Lisbona nel 2005 si assume definitivamente che:
“l’inclusione sociale esce dagli obiettivi prioritari. Gli stati membri
devono continuare a promuovere l’adozione dei contratti di lavoro
flessibili, adottare politiche del lavoro basate sull’apprendimento
permanente al fine di rendere i lavoratori adattabili (ndr: sfruttabili)
per tutto il corso della vita ai mutamenti del mercato” […] “Nel
1994, l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico) viene sollecitato da una Raccomandazione (1992) del Consiglio
delle Comunità Europee, ad affrontate i problemi legati alla
disoccupazione e all’esclusione sociale. Ne esce una “job strategy” che
individua come in tutti gli stati europei prevalgano politiche definite
“passive”, di allocazione delle risorse a sostegno della disoccupazione,
del lavoro e dell’inclusione sociale”9.
Questo
non può più rientrare nella nuova logica neoliberale e si fa in modo
che gli Stati spostino il loro intervento non a garantire uno stato
sociale, diritto del cittadino per costituzione, ma verso la pratica di attivazione del cittadino-lavoratore (attivazione nel senso dell’occupabilità). Il “workfare” sostituisce così il welfare (stato sociale).
Lo
Stato, in merito a disoccupazione, lavoro ed esclusione sociale, deve
fornire – in commistione con agenti privati di collocamento del lavoro e
non più solo pubblici – orientamento, collocamento e pagamento di
sussidi. Sussidi ben al di sotto dei livelli salariali per incentivare,
attivare, la costante ricerca del lavoro.
Nascono,
prolificano e sono oggi base fondamentale del ricollocamento del lavoro
in Europa – anche in Italia stanno diventando una realtà – i “Job
center”. I centri per l’impiego, che forniscono un sussidio minimo a
fronte di determinate condizioni per l’erogazione dello stesso:
dimostrazione di ricerca di lavoro costante, formazione costante, non
possibilità di rifiuto di un lavoro proposto (ma non è il reddito di
cittadinanza questo?)
Lo
scopo di tutto ciò è avere lavoratori costantemente precarizzati
(flessisicuri), riduzione del livello generale dei salari, lavoro
coatto, demansionamento, ecc. (questi principi trovano il loro
contesto legislativo nella “legge Fornero”, “Job Act”, nel neoarrivato
Reddito di cittadinanza, come nel resto d’Europa troviamo la “Loi
travaille” in Francia, ecc. La matrice di ciò sono, appunto, i concetti
di indirizzo UE che abbiamo visto e le riforme Hartz tedesche che hanno
recepito per primi tali concetti ma che a loro volta ne sono stati i
promotori per un modello comune europeo).
Senza questo contesto non ci può essere il lavoratore imprenditivo che realizza, sta e promuove la Fabbrica 4.0.
1
In riferimento ai concetti di luogo di lavoro, nuove relazioni
gerarchiche, salario a risultato, Cfr. “Nova Edu”, La fabbrica 4.0,
collana de Il sole 24 ore.
2 “Nova Edu”, La fabbrica 4.0, collana de Il sole 24 ore.
3
In riferimento ai concetti di imprenditore di sé stesso, investimento
su stessi, etica imprenditoriale, imprese di sé, potenziamento di sé,
Cfr. “La nuova ragione del mondo: critica alla razionalità
neoliberista”, P. Dartot – C. Laval, Derive Approdi, 2013.
4 La nuova ragione del mondo: critica alla razionalità neoliberista”, P. Dartot – C. Laval, Derive Approdi, 2013.
5 “Ibidem
6
In riferimento ai concetti di flessisicurezza, occupabilità,
“workfare”, cittadino-lavoratore Cfr. “Reddito di cittadinanza:
emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? Giuliana Commisso, Giordano
Sivini. Asterios editore, 2017.
7
“Reddito di cittadinanza: emancipazione dal lavoro o lavoro coatto?
Giuliana Commisso, Giordano Sivini. Asterios editore, 2017.
9 Ibidem
Prima parte: Industria 4.0. Rivoluzione tecnologica del lavoro o contro il lavoro?
Seconda parte: Industria 4.0. Il totalitarismo digitale
Prima parte: Industria 4.0. Rivoluzione tecnologica del lavoro o contro il lavoro?
Seconda parte: Industria 4.0. Il totalitarismo digitale
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