mercoledì 13 novembre 2019

Redistribuire: i soldi ci sono, basta andare a prenderli.

In una delle scene cult di Pulp Fiction, la nota coppia di gangster si ritrova davanti ad un increscioso problema: sui sedili posteriori della loro auto un ragazzo ha appena ricevuto un colpo di pistola alla testa, c’è sangue dappertutto e la macchina è zeppa di brandelli di materia grigia. I due malviventi devono assolutamente ripulire l’auto e liberarsi quanto prima di ciò che resta di quel corpo. Presi dal panico, si rivolgono ad un famigerato problem solveril signor Wolf, che si presenta sul luogo del misfatto e aiuta i due criminali ad uscire da quella situazione complicata.
 
 
Coniare Rivolta è un collettivo di economisti 


L’esplosione delle disuguaglianze che si sta verificando nei principali paesi avanzati ricorda molto questa scena di Tarantino. Ma la sempre maggiore concentrazione della ricchezza in poche mani rappresenta un increscioso problema solo per lavoratori e disoccupati, perché non siamo tutti sulla stessa barca e, quando le disuguaglianze si allargano, i lavoratori perdono reddito in favore di profitti e rendite.
Solo una parte della società, dunque, avrebbe davvero bisogno dell’intervento di un Mr. Wolf.


In Italia i lavoratori riescono ad appropriarsi oggi del 65% del prodotto sociale, mentre negli anni Settanta i salari si aggiudicavano circa il 75% della torta. Abbiamo così assistito ad una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti di 10 punti percentuali che si spiega solo in base ad un progressivo spostamento dei rapporti di forza in favore del capitale: indebolimento del sindacato, costante riduzione dello stato sociale, flessibilizzazione del mercato del lavoro con annessa proliferazione dei contratti precari e dei part-time involontari e, non ultimo, disoccupazione di massa hanno messo in ginocchio i lavoratori, consentendo al capitale di riprendersi quelle quote di reddito che una lunga e durissima stagione di lotte aveva assicurato ai salari.

Un ulteriore sguardo ai dati ci dà la misura della drammaticità del problema. Per il 2018 l’ISTAT ha stimato 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta, per un totale di 5 milioni di individui: ciò significa che quasi una persona su dieci, in Italia, vive in condizioni di povertà assoluta, fino ad arrivare ad una su cinque se si confina l’analisi al sud. Guardando alla ricchezza posseduta, attualmente il cosiddetto top 10% (ossia il dieci percento più ricco) della popolazione italiana possiede oltre sette volte la ricchezza posseduta dalla metà più povera della popolazione. La disuguaglianza risulta ancora più elevata se si fa riferimento al 5% più ricco degli italiani, che detiene quasi la metà della ricchezza nazionale, o addirittura osservando che l’1% più ricco detiene un quarto della ricchezza nazionale. Analizzando, infine, il trend degli ultimi 20 anni, si nota che la quota di ricchezza detenuta dal top 10% è passata dal 50% del 2000 all’attuale 56%, mentre quella della metà più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa, passando dal 13,1% di inizio millennio ad appena il 7,85% nel 2018. Insomma, la situazione non solo è grave, ma pare essere in costante peggioramento.
Davanti a questa macelleria sociale, un tarantiniano signor Wolf potrebbe essere rappresentato dallo Stato, che storicamente ha contribuito a determinare le fondamentali tendenze redistributive operando sulla leva fiscale e sull’intervento pubblico nell’economia. La politica economica godrebbe in teoria di tutti gli strumenti necessari a combattere la disuguaglianza e favorire l’equità sociale redistribuendo redditi e ricchezza.

La prima arma in mano allo Stato è, vista l’elevatissima correlazione tra disoccupazione e povertà, il perseguimento di una piena e buona occupazione. L’obiettivo del pieno impiego resta il principale canale di riduzione delle disuguaglianze. Uno Stato capace di assicurare un’occupazione a tutti, e di assicurarla a condizioni retributive e lavorative dignitose, favorirebbe da un lato l’accesso al reddito da parte di coloro che un lavoro non ce l’hanno, e dall’altro ripristinerebbe un certo equilibrio nei rapporti di forza tra lavoro e capitale, con conseguente inasprimento del conflitto distributivo e della ripresa di quella dinamica salariale ferma al palo da decenni. Infatti, con più occupazione viene spuntata l’arma principale usata dai capitalisti per disciplinare i lavoratori, il ricatto della disoccupazione. La paura di perdere il posto e, con quello, il reddito, costringe oggi milioni di lavoratori a chinare il capo davanti alla prepotenza del profitto, che impone le peggiori condizioni di lavoro senza incontrare opposizioni politiche o sociali di massa, come invece accadeva negli anni Settanta. La piena occupazione, dunque, non deve essere vista come un orizzonte politico e sociale in sé, ma come un presupposto per una nuova offensiva dei lavoratori, finalmente liberi di rialzare la testa e guidare una nuova e vigorosa ripresa della lotta di classe.

Tuttavia, far sì che tutti siano occupati, ed occupati dignitosamente, potrebbe non essere sufficiente a garantire un adeguato livello di uguaglianza, in virtù dell’enorme concentrazione della ricchezza a cui siamo arrivati. Ecco allora che lo Stato potrebbe utilizzare un altro espediente per redistribuire la ricchezza, andando a toccare il sistema della fiscalità. Fatta salva l’opportunità teorica di finanziare in deficit i programmi di spesa sociale, lo Stato potrebbe comunque fare politiche redistributive garantendo welfare e servizi alle fasce meno abbienti della popolazione attraverso il prelievo di risorse nei confronti dei soggetti più facoltosi. Negli ultimi trent’anni, tuttavia, abbiamo assistito al processo contrario, ossia ad un marcato spostamento del carico fiscale dai più ricchi ai più poveri. A questa tendenza, inoltre, si è associata una sempre più sofisticata capacità di evasione ed elusione fiscale da parte dei redditi da capitale, e in particolare dei grandi capitali, che possono “fuggire” all’estero con estrema facilità nel quadro europeo di piena libertà di movimento del denaro.

Alcune evidenze confermano queste tesi. Il numero di scaglioni, che contribuisce a determinare il grado di progressività delle imposte dirette, è passato dalle 32 aliquote del 1974 alle 5 attuali (e c’è pure chi sogna l’aliquota unica, la flat tax): è chiaro che un numero maggiore di aliquote consente di graduare meglio il carico fiscale sulla base del reddito, mentre un numero inferiore di scaglioni mette sullo stesso piano redditi molto diversi tra loro. Così, ieri era prevista un’aliquota del 72% per i redditi che superavano i 500 milioni di lire, mentre oggi chi supera i 75.000 euro paga un’aliquota del 43%, senza alcuna differenza tra redditi alti e altissimi. Il risultato è che oggi due terzi del gettito IRPEF provengono da contribuenti che guadagnano fino a 55.000 euro l’anno: sono i lavoratori che compongono la classe media, in buona sostanza, a garantire la parte più consistente delle entrate IRPEF dello Stato. E mentre il lavoro sostiene in pieno le spese dello Stato, i profitti pagano un’imposta sostitutiva (IRES) pari al 24% degli utili dichiarati, a prescindere dal livello degli utili, dunque fuori da qualsiasi progressività. È così che nel 2018 lo Stato ha incassato dall’IRES meno di 36 miliardi di euro, mentre i lavoratori dipendenti pubblici e privati, insieme, pagavano circa 154 miliardi di euro di IRPEF. La leva fiscale, quindi, è stata usata negli anni più recenti per contribuire attivamente a determinare quella violenta redistribuzione del reddito dai salari ai profitti: lavoratori e famiglie meno abbienti pagano sempre più imposte, mentre i capitali e i soggetti più ricchi ne pagano sempre meno.
Invertire questa tendenza sarebbe, in linea teorica, ben possibile. Per quanto riguarda la tassazione sui redditi, occorrerebbe informare a criteri di progressività il sistema tributario e riportare sotto il cappello di tale progressività tutti i redditi, principalmente quelli da capitale, che ad oggi ne restano esclusi. Si tratta, in sostanza, di far pagare a coloro i quali percepiscono un reddito più elevato delle imposte via via maggiori, applicando un sistema di aliquote più che proporzionale rispetto al reddito – l’esatto contrario di quanto fatto negli ultimi anni e di quanto proposto dai sostenitori della flat tax. In maniera analoga, parte delle risorse destinate a finanziare la spesa sociale – e quindi a ridurre indirettamente la disuguaglianza – potrebbe derivare da una tassazione sui grandi patrimoni, proprio alla luce di quell’1% più ricco degli italiani che detiene il 25% della ricchezza nazionale. Esistono poi altre forme di redistribuzione attuabili mettendo mano al vigente sistema di funzionamento del fisco: basti pensare ad una eventuale revisione delle aliquote IVA (ad esempio, all’abolizione di tale imposta sui beni di prima necessità, di cui si compongono in misura relativamente maggiore i consumi dei meno facoltosi), nonché alla possibilità di decontribuzioni ed agevolazioni fiscali per coloro che non superano determinate fasce di reddito.
Insomma, il nostro Mr. Wolf potrebbe agevolmente incidere sulla redistribuzione del reddito e della ricchezza e risolvere questa situazione complicata per disoccupati e lavoratori: nel pieno rispetto del dettato costituzionale (si veda l’Art. 53), sarebbe infatti possibile rimodulare il sistema tributario e renderlo maggiormente incline alle esigenze degli strati più disagiati della popolazione, contribuendo in questa maniera alla realizzazione di una distribuzione più equa.
È probabile, però, che l’ingresso sulla scena di uno Stato che risolve i problemi dei lavoratori a colpi di fisco e piena occupazione sia destinato a rimanere un pio desiderio per la classe dei lavoratori. Politiche di piena e buona occupazione sono quelle che più spaventano i capitalisti, ed è per questo che la classe dirigente italiana, dopo aver subito un arretramento con la stagione di lotte degli anni Settanta, ha costretto il Paese sui binari dell’integrazione europea. L’Italia è ora inserita in un contesto istituzionale che vieta per legge le politiche fiscali di spesa necessarie a promuovere la piena occupazione: nei vincoli europei – da Maastricht al Fiscal Compact – non vi è alcuno spazio per perseguire una crescita economica caratterizzata da migliori condizioni di lavoro. Il sistema europeo è fondato sul ricatto della disoccupazione di massa, usata come arma per imporre una crescente polarizzazione della ricchezza.
Inoltre, un sistema fiscale progressivo ed una tassazione più severa sui redditi da capitale non risultano certamente compatibili con i princìpi di libera circolazione delle merci e dei capitali su cui sono incardinati i trattati dell’Unione Europea. Se pure riuscissimo a mettere mano al sistema fiscale, infatti, i capitali sarebbero liberi di spostarsi in altri Paesi europei per fuggire alla tassazione, e la libertà di movimento delle merci gli consentirebbe di venire a vendere in Italia i beni che sarebbero prodotti altrove. Solo un pieno ritorno al controllo dei flussi di merci e capitali può permettere di ridiscutere radicalmente il sistema tributario nella direzione di una maggiore equità e progressività.
Regole e Trattati europei si palesano ancora una volta come delle catene appositamente concepite per tenere a bada le rivendicazioni degli ultimi, contribuendo in questo modo a generare quella disuguaglianza che rende i lavoratori più facilmente ricattabili e favorendo lo sfruttamento. Lo si capisce bene se si ammette che persino le opzioni riformiste, come quella di un nuovo sistema fiscale ispirato a principi di progressività, appaiono totalmente incompatibili con la gabbia dell’Unione Europea. In teoria, lo Stato ha tutto il potere di incidere sulla distribuzione del reddito e della ricchezza, influenzando così i rapporti di forza tra le classi sociali. In pratica, tale potere è esso stesso terreno di lotta, un ambito dello scontro sociale che, con il procedere dell’integrazione europea, diventa sempre più difficile contendere per i lavoratori.

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