venerdì 15 novembre 2019

La grande distribuzione è in crisi: il sogno si sta trasformando poco a poco in un incubo.

Correva l’anno 1998 quando il primo governo Prodi (notoriamente di sinistra) varò la riforma della disciplina relativa al commercio. 
Fu grazie a questa riforma che alle regioni fu dato il potere di favorire una rete distributiva per l’insediamento di attività commerciali.

 
Fabio Balocco Scrittore in campo ambientale e sociale

Fabio Balocco Notate bene: la legge si fondava solo ed esclusivamente sul principio della libertà di iniziativa economica privata, ai sensi dell’articolo 41 della Costituzione.
Dimenticando completamente altri due articoli fondamentali: l’art. 9 sulla tutela del paesaggio e magari anche l’art. 42 relativo alla funzione sociale della proprietà privata.

Del resto, il governo Prodi era il trionfo del liberismo.
E ad esso seguì un altrettanto liberista governo D’Alema con la privatizzazione dei servizi pubblici, ma questa è un’altra storia.
Torniamo alla Gdo, ossia alla Grande distribuzione organizzata, che ebbe un deciso effetto propulsivo grazie a quel governo sedicente di sinistra e all’applicazione che dettero le regioni alla norma.
Fu un proliferare di nuove autorizzazioni. Questo significò tra l’altro l’agonia della piccola distribuzione e la selezione e lo strozzamento dei produttori nei generi alimentari. 
Ma anche questo meriterebbe un discorso a parte.

Limitiamoci al dilagare della Gdo, perché adesso la Gdo è invece in crisi: eh sì, dopo la grande abbuffata, l’espandersi a macchia d’olio favorito da una legge mirante solo a togliere lacci e lacciuoli al commercio, ecco che il sogno si sta trasformando a poco a poco in incubo.
I segnali ci sono da tempo. Per limitarci al Piemonte, un’indagine, mai contestata, su scala regionale del 2014 con applicazione di un algoritmo già utilizzato in Francia per verificare la congruità del numero di strutture della Gdo rispetto alle esigenze reali del territorio, restituiva numeri abbastanza impressionanti: “su 106 ipermercati esistenti in Piemonte ce ne sono 43 di troppo. Poco meno della metà, insomma, sarebbero in sovrappiù rispetto alla potenzialità di spesa dei piemontesi.”
Del resto, non ci vuole un genio, ma basta un’intelligenza media per comprendere che non solo non si può andare avanti all’infinito con la Gdo – quando poi tra l’altro la popolazione neppure cresce di numero e in più avanza la povertà – ma che le strutture già esistenti sono del tutto sovrabbondanti rispetto alla richiesta.
Eppure ecco che sempre nella mia regione, il Piemonte, aprirà i battenti il Caselle Open Mall: gli open mall, i più devastanti territorialmente perché si estendono in larghezza anziché in altezza, creando la sensazione di piccoli borghi che altro non sono se non enormi non-luoghi.

Caselle non sarà che un’ulteriore metastasi di quel male che ha già prodotto l’outlet di Serravalle Scrivia (che aprì giusto un anno dopo la bersanizzazione del mercato), Mondovicino a Mondovì, gli outlet di Vicolungo e Torino.
Quanto dureranno, quanto dureranno i super, gli iper? Chissà.

I segnali della crisi sono già palpabili, anche in grande: basti vedere cosa sta accadendo proprio ora con il colosso mondiale Auchan, acquisito da Conad, la quale “razionalizzerà” con la fusione: il che, tradotto, significherà un po’ di gente a casa a infoltire l’esercito dei nuovi poveri, e strutture chiuse.
E qui faccio un balzo indietro a quell’art. 9 della Costituzione che il sinistro governo Prodi non si filava nemmeno nelle premesse.
Il dilagare di centri commerciali è andato a discapito quasi sempre di terreni agricoli, e quindi di paesaggio naturale.
Anche perché la legge non conteneva nessun vincolo per la realizzazione di nuove strutture, del tipo aree industriali dismesse, che pure esistono ormai in abbondanza.
Nessuno studio ci dirà mai quanta superficie di suolo è stata cementificata per costruire le strutture della Gdo.E adesso quante aree industriali verranno abbandonate? Chi lo sa. Io ho pur sempre una magra consolazione. Anni fa scrissi con altri “Verde clandestino”, sul verde che occupa gli interstizi dei muri, le crepe sui marciapiedi e le fabbriche abbandonate.
Dove c’erano gli scaffali, cresceranno i boschi.
Lo si chiama “futuro distopico”? Non sono d’accordo.

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