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Un’antologia di Spoon River della politica industriale: il paragone tra gli ultimi decenni dell’economia
italiana e il celebre “cimitero” letterario rischia di diventare ancora
più calzante se ad aggiungersi alla grande massa di settori strategici,
centri produttivi di vitale importanza e campioni nazionali smantellati
da scelte politiche scriteriate (specie le privatizzazioni selvagge),
carenze nella definizione delle priorità strategiche e disastri dei
gestori privati dovesse aggiungersi l’Ilva. La corsa frenetica a
demolire l’economia
mista imperniata nell’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri) è
stata devastante. Lo ha fatto notare con durezza e nitida chiarezza il
direttore del “Quotidiano del Sud” Roberto Napoletano in un recente
editoriale: «La vecchia Stet dell’Iri ha ricostruito l’impero romano
regalando all’Italia il primato mondiale delle telecomunicazioni e i
segreti dell’industria del futuro globale. (…) La vecchia Italstat
dell’Iri regala all’Italia un player globale delle costruzioni e delle
grandi opere. Apre e chiude i cantieri, si percepisce il progetto paese
dello Stato imprenditore, le due Italie sono riunificate con
l’Autostrada del Sole costruita e inaugurata prima della scadenza
prevista». Entrambe finiranno poi per naufragare dopo la fine dell’epoca
d’oro dello Stato-imprenditore.
Destino analogo a quello dell’acciaio: «La vecchia Finsider dell’Iri
ha regalato all’Italia l’impianto che garantiva a tutti i paesi europei
l’indipendenza nella disponibilità di una materia cruciale (l’acciaio)
per lo sviluppo industriale. L’uscita dall’orbita pubblica
è stata fatale». Il susseguirsi di caos giudiziari, problematiche
amministrative e incertezze politiche, dai Riva a Arcelor Mittal, ha
fatto il resto. E ora l’Italia rischia di ritrovarsi di fronte a una
Caporetto industriale. La chiusura dell’Ilva, la perdita dell’1,5% del
Pil legato all’acciaio, la distruzione di 10.700 posti di lavoro
diretti e decine di migliaia indiretti per il contenzioso tra il
governo Conte II e Arcelor-Mittal, compratore in ritiro dello
stabilimento, per il problema dello “scudo penale” previsto dal piano
firmato da Luigi Di Maio e ipotizzato prima di lui da Carlo Calenda,
certificherebbe il fallimento della (non) strategia italiana
dell’acciaio. Iniziata quando Romano Prodi decise di mettere in
liquidazione Italsider e Finsider, nel corso del suo mandato da
direttore dell’Iri e presidente del Consiglio, perché…ce lo chiedeva l’Europa. Perché l’Ue chiedeva che l’Italia, svenandosi, pagasse il prezzo dell’entrata nell’euro
privandosi dei gioielli di famiglia. E iniziando una spirale
decrescente che ha fatto venire meno la compatta integrazione di filiera
e portato al degrado delle condizioni ambientali e lavorative in Ilva.
I lavoratori dell’Ilva di Taranto, per troppo tempo, hanno dovuto
scegliere tra due alternative: la trappola della povertà, ovvero
l’abbandono di un posto di lavoro
che tra standard ambientali insani e tumori dilaganti rappresentava
comunque una delle poche opportunità occupazionali dell’area, o
l’accettazione di una precarietà di condizioni disarmante e degradante.
Un governo desideroso di fare davvero politica
industriale dovrebbe in primo luogo vincolare la vendita dell’Ilva alla
risoluzione di questa asimmetria. Tante sono le questioni su cui ci
dovremmo interrogare: perché introdurre lo scudo penale per Arcelor
Mittal senza condizionarlo a una sorta di “golden power” pubblico,
ovvero monitorando strettamente il compratore imponendogli il rispetto
di un serio piano ambientale, la transizione operativa e la tutela di
standard definiti? Perché non proporre altro che un cambio repentino di
legislazione che Arcelor ha potuto cogliere come palla al balzo per
svincolarsi? Perché non aver fatto chiarezza sui contratti di affitto
dell’ex Ilva stipulati anche dai commissari straordinari? Perché il
Conte II
ha questa smania di smantellare ciò che, pur confusamente, il Conte I
aveva concluso senza proporre un piano di lungo periodo alternativo?
La verità è che manca la politica,
la vera visione strategica delle priorità del paese. Manca la volontà
di indirizzare lo sviluppo dello Stato nei settori strategici, di
tutelare l’occupazione e il futuro produttivo del paese. Lo vediamo in
questi giorni: Fca e Peugeot vanno verso la conclusione di un’alleanza
strategica in cui il governo italiano non ha saputo intervenire con il
potere di persuasione morale, pensando che i cambi di residenza fiscale
neghino la realtà, che impone di preservare il futuro del settore auto.
Lo vediamo sui gasdotti, sulle trivelle, sui porti, su Alitalia, sui
cantieri navali, sulle telecomunicazioni. Lo vediamo quando 10.700
persone rischiano il posto di lavoro
e un polo tanto importante di evaporare come neve al sole: non sarebbe
riduttivo pensare all’ipotesi di dimissioni del governo Conte in caso di
chiusura dell’Ilva. È il deserto della politica. Di un sistema paese che ha smesso di pensarsi tale. E di una politica che pensa alla supremazia dei mercati e non a come intervenire, laddove necessario, per tutelare lavoro
e produzione. Il padre della grande stagione dell’acciaio italiano,
Oscar Sinigaglia, partì ragionando da un assunto semplice: senza acciaio
non c’è industria. Sarebbe meglio che anche a Roma si iniziasse a
capire un pensiero tanto basilare quanto vitale per un comparto chiave
e, a cascata, per l’economia.
(Andrea Muratore, “Quel regalo di Prodi all’Europa che piegò l’industria dell’Italia, dietro il disastro Ilva il vuoto si una seria politica industriale”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale” del 10 novembre 2019).
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venerdì 15 novembre 2019
Ilva: quel regalo di Prodi all’Ue che piegò l’industria italiana
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