lunedì 14 ottobre 2019

«Tra genocidio e compromesso scegliamo la nostra gente». La situazione in Rojava dopo l’accordo con Assad

Quattro punti per capire cosa è accaduto finora nei cantoni autonomi della Siria del nord-est: lo stato dell’avanzata turca; le manovre americane; gli spostamenti dell’esercito del regime siriano; le prospettive del progetto rivoluzionario del confederalismo democratico

COSA VUOLE OTTENERE ERDOGAN

Finora l’esercito turco ha bombardato con l’artiglieria e l’aviazione i 300 chilometri di confine tra Turchia e Rojava senza distinguere tra postazioni militari e insediamenti civili. Gli attacchi più duri hanno colpito l’area tra Ras Al Ain e Tell Abyad, una striscia di 100 chilometri da cui la popolazione civile è fuggita quasi per intero (130mila persone). Quest’area rappresenta lo spazio precedentemente interessato dagli accordi del security mechanism, iniziato nel mese di settembre con l’accordo tra Erdogan, Trump e l’amministrazione autonoma del Rojava. L’accordo prevedeva: pattugliamenti congiunti del confine tra turchi e statunitensi; smantellamento delle postazioni delle Syrian Democratic Forces (Sdf, riuniscono i combattenti curdi delle Ypg con le forze dei military council delle aree arabe) e loro sostituzione con milizie del Tell Abyad military council; creazione di un centro di coordinamento militare ad Ankara tra Turchia e Usa.
L’amministrazione del Rojava aveva sottoscritto l’accordo per evitare l’invasione turca su spinta degli americani, che si erano fatti garanti dello stesso. Domenica scorsa, invece, il presidente Donald Trump ha pubblicamente annunciato il via libera all’invasione turca, sancendo uno storico tradimento dei più preziosi alleati nella lotta contro l’Isis. Tradimento reso ancora più grave dall’implementazione congiunta del security mechanism che aveva indebolito le capacità di autodifesa delle forze curde. Non sono serviti a nulla gli appelli dei tanti che mettevano in guardia da possibili genocidi verso i curdi e le tante minoranze, come cristiani o yazidi, già vittime di massacri nell’interminabile conflitto siriano.  Dopo l’annuncio l’esercito statunitense ha immediatamente ritirato i suoi contingenti dalle aree del security mechanism che sono state assaltate dai turchi pochi giorni dopo.
A cinque giorni dall’inizio dell’offensiva, l’esercito turco è entrato via terra nelle città di Ras Al Ayn e Tell Abyad. In questo modo ha occupato i primi due angoli del rettangolo lungo 100 chilometri e profondo 30 che ha intenzione di prendere sotto il suo controllo. L’obiettivo è utilizzare quell’area per il progetto di sostituzione etnica delle popolazioni residenti (curdi, arabi, assiri, turcomanni, cristiani) con i profughi siriani. Secondo fonti turche l’85% dei profughi che verrebbero ricollocati in quella zona non sono originari del nord-est della Siria. Per chiudere il rettangolo, l’esercito di Erdogan ha bisogno di occupare le città di Ayn Eissa, bombardata oggi, e Tell Temer, città cristiana finora non interessata dagli attacchi per la presenza di una base americana nelle vicinanze.

COSA STANNO FACENDO GLI STATI UNITI

Nei giorni dell’attacco turco gli americani non hanno protetto la popolazione della Siria del nord-est dai crimini dell’esercito turco e dei gruppi jihadisti a esso collegato. In pochi giorni i jihadisti non hanno risparmiato esecuzioni sommarie di civili. I bombardamenti turchi sono arrivati anche in prossimità delle truppe statunitensi ancora presenti ad Ayn Eissa e Kobane. In una conferenza stampa che si è tenuta ieri, il comandante delle Sdf Mazloum Kobani ha informato pubblicamente che l’unica richiesta agli americani era l’istituzione di una no fly zone a protezione dei civili. Il comandante ha anche detto chiaramente che se questa non fosse stata dichiarata, la stessa richiesta sarebbe stata necessariamente rivolta ai russi con contemporaneo invito alle forze statunitensi ad abbandonare una volta per tutte il nord-est della Siria.
Questo pomeriggio i contingenti americani hanno iniziato il ritiro dalle aree di Manbji e Kobane a seguito di una conferenza stampa tenuta dal segretario della difesa Mark Esper. Il militare ha argomentato la decisione con l’esistenza di un rischio per l’esercito americano di trovarsi intrappolato nella linea di avanzamento di due eserciti. La seconda forza in campo, come è immediatamente apparso chiaro a tutti, era quella dell’esercito del regime siriano.

COSA STA FACENDO L’ESERCITO DEL REGIME SIRIANO

Infatti, da lì a poche ore le forze che rispondono agli ordini di Assad hanno attraversato i check point lasciati aperti dalle Sdf e attraverso l’area di Tell Rifat sono entrate a Menbji. «Se dobbiamo scegliere tra il genocidio della nostra gente e il compromesso, scegliamo la vita della nostra gente», ha scritto in serata il comandante curdo Mazloum Abdi, sottolineando comunque la mancanza di fiducia nei confronti dei russi e del regime siriano.
Una simile dinamica militare si è sviluppata a marzo 2018 quando l’esercito siriano è entrato a Tell Rifat r ha messo fine alla mattanza di Afrin, città curda assediata e poi occupata dall’esercito turco. In quell’occasione dopo l’ingresso delle truppe di Assad e la chiusura dello spazio aereo da parte della Russia, stesso attore che lo aveva precedentemente aperto, si sono fermati i combattimenti, definendo i confini di un territorio che ospita ancora 150mila sfollati ed è garantito all’esterno dal governo siriano e gestito all’interno dall’amministrazione autonoma del Rojava. Quest’ultima continua a prestare i servizi essenziali alla popolazione sfollata.
Al momento non si conoscono tutti i dettagli dell’accordo tra Sdf e Assad, ma il piccolo contingente miltare entrato a Manbji e quello che ha fatto contemporaneamente ingresso a Kobane sono andati subito a stazionare nelle aree di confine con la Turchia.

PROSPETTIVE PER IL CONFEDERALISMO DEMOCRATICO

Nei prossimi giorni si capiranno i termini dell’accordo tra il regime siriano e le autorità dei cantoni autonomi del Rojava. Il suo primo obiettivo è evitare il genocidio della popolazione locale. È da considerare che Kobane, città simbolo della lotta contro l’Isis, rischiava di rimanere completamente accerchiata dall’esercito turco, come già avvenne con le forze del gruppo Stato islamico alla fine del 2014.
Gli interrogativi, comunque, restano tanti. Alcuni nodi:
  • il futuro di chi ha lavorato nell’amministrazione autonoma del Rojava e combattuto nelle Sdf. Sarà da capire se queste persone saranno inglobate a livello amministrativo e militare o inizieranno campagne di arresto e coscrizione militare da parte del regime siriano;
  • chi avrà in carico l’amministrazione interna delle città presidiate dalle truppe del regime, se Damasco o le autorità del confederalismo democratico;
  • chi avrà l’incarico di controllare le aree di confine nel governatorato di Hasakeh e i valichi di confine con il Kurdistan iracheno;
  • fino a che punto il nuovo scenario condizionerà i rapporti di forza tra Assad e i cantoni autonomi e quanto questo avrà ricadute anche nelle città di Qamishlo e di Hasakeh rimaste divise tra le due amministrazioni e nelle regioni a maggioranza araba di Raqqa e Der Er Zhor;
  • in queste ultime aree sarà da vedere quali relazioni eventualmente si creeranno tra le forze del regime e le popolazioni locali. Nel 2011 furono le prime a sollevarsi contro Assad;
  • che tipo di alleanza militare ci sarà tra Sdf e truppe del regime siriano, se questa sarà solo difensiva per proteggere i confini o se insieme proveranno a riprendere i pezzi di territorio occupati dallo Stato turco.
In ogni caso il nuovo scenario rappresenta un duro colpo per la rivoluzione del Rojava e il progetto del confederalismo democratico. Anche perché l’avanzata turca sta lasciando campo aperto alla riorganizzazione dei miliziani del sedicente Stato islamico. Un elemento che non riguarda soltanto l’area dell’attuale conflitto, ma tutta l’umanità. Nessuno deve dimenticare che la lotta contro l’Isis era già stata vinta dai combattenti e dalle combattenti curde, che erano riusciti contemporaneamente a costruire un progetto sociale rivoluzionario.

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