Trump lascia a Erdogan via libera alla soluzione del "problema curdo" in Siria. Nell'indifferenza dell'Europa.
Con
uno scarno comunicato, la Casa Bianca ha fatto sapere che le unità
militari statunitensi presenti sul territorio siriano lasceranno a breve
l’area di confine con la Turchia, in conseguenza di un’operazione
militare turca programmata da tempo e finalizzata all’occupazione
dell’area settentrionale della Siria.
Rimossi gli
ostacoli politici al Dipartimento della Difesa e tecnico-operativi al
Pentagono, la strategia del disimpegno regionale di Trump prende forma e
sostanza, ponendo interrogativi inquietanti non solo sul futuro della
Siria quanto più in generale della credibilità degli Stati Uniti e –
conseguentemente – dell’Europa.
Lo scenario nel nord-est della Siria
Il
disimpegno delle forze militari statunitensi dalla Siria aprirà la
strada all’operazione militare turca finalizzata all’occupazione del
territorio oggi amministrato dai curdi delle Forze Democratiche Siriane
(SDF), già al fianco degli Stati Uniti nella lunga operazione militare
che ha portato alla sconfitta dello Stato Islamico in Siria.
L’SDF
aveva proclamato lo scorso 23 marzo la definitiva vittoria contro le
forze del califfato, costata sul piano delle perdite oltre 11.000
combattenti, accingendosi ad avviare una fase politica finalizzata al
riconoscimento della propria autonomia all’interno del nuovo equilibrio
politico siriano.
Costituite nell’ottobre del
2015, le milizie dell’SDF sono principalmente composte da combattenti
curdi delle Unità di Protezione Popolare (YPG), siriani assiri e altre
minoranze regionali, coagulatesi con il sostegno occidentale – e
statunitense in particolar modo – al fine di sconfiggere la minaccia
politica e militare dello Stato Islamico in Siria. Alla costituzione nel
dicembre del 2016 dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e
dell’Est, le milizie dell’SDF si sono ufficialmente proclamate come le
forze armate della neocostituita entità territoriale autonoma, andando
in tal modo a delineare un profilo di indipendenza che non ha lasciato
indifferente la Turchia.
Sin dalla loro
costituzione, le forze dell’SDF hanno ricevuto il pieno e concreto
sostegno degli Stati Uniti, della Francia, oltre a quello più sporadico e
marginale di altri paesi europei. Per impedire che le forze turche e le
milizie sostenute da Ankara nel complesso mosaico della guerra in Siria
potessero attaccare quelle dell’SDF, gli Stati Uniti schierarono le
proprie truppe presenti in Siria congiuntamente a quelle curde,
scoraggiando in tal modo qualsiasi azione ostile nei loro confronti.
Non
mancò mai il sostegno di Washington durante le impegnative operazioni
dell’SDF per la conquista di Kobane e di Raqqa, garantendo la
disponibilità di mezzi, equipaggiamenti e munizioni, nonché
addestramento e collaborazione da parte di alcune unità delle forze
speciali.
Nonostante il poderoso sforzo militare
compiuto dall’SDF nella guerra contro lo Stato Islamico, la Turchia ha
sempre accusato le forze dell’YPG di essere espressione del Partito dei
Lavoratori del Kurdistan (PKK), considerandole parte di tale rete, e
quindi espressione di un contesto che i turchi considerano alla stregua
di un’organizzazione terroristica.
Le forze
dell’YPG sono state designate ufficialmente dalla Turchia come
un’organizzazione terroristica nel 2018 e ben presto ingaggiate nel
distretto di Afrin, poi occupato militarmente, dando avvio ad un
conflitto interno a quello più ampio siriano. La Turchia ha cercato
senza successo di fomentare divisioni etniche e politiche all’interno
delle forze dell’SDF, accusando poi l’YPG di essere impegnato in
un’operazione di pulizia etnica nelle aree sottoposte al loro controllo,
finalizzato all’espulsione di tutte le componenti non curde o a queste
alleate. Le accuse, smentite dalle stesse Nazioni Unite, non sono
riuscite nell’intento di catalizzare l’opposizione della comunità
internazionale e delle forze regionali contro l’YPG, legittimate
peraltro dalla stessa presenza delle forze statunitensi sul terreno e
dalla palese collaborazione nella lotta allo Stato Islamico.
Nonostante
il pieno sostegno del Pentagono alle forze dell’SDF, il presidente
Donald Trump aveva annunciato a sorpresa la propria intenzione di
ritirare il contingente in Siria nel dicembre del 2018, destando l’ira
dell’allora segretario alla Difesa Jim Mattis, poi dimessosi
dall’incarico. Mattis, appoggiato da buona parte dell’apparato della
Difesa statunitense, aveva criticato fortemente la decisione del
presidente, considerandone giustamente il peso in termini di credibilità
per gli Stati Uniti nella regione in seno agli alleati, in una fase
molto difficile per gli stessi Stati Uniti nel conseguire i propri
obiettivi sul terreno.
Apparentemente
riconsiderata nel corso dei mesi successivi, la decisione è stata invece
confermata il 6 ottobre scorso, a seguito di colloqui telefonici
intercorsi poche ore prima tra il presidente statunitense Trump e quello
turco Erdogan.
Il comunicato della Casa Bianca
con cui viene annunciata la decisione, ridotto all’essenziale, annuncia
il disimpegno americano dalla regione e giustifica l’imminente
intervento turco ritenendolo una conseguenza del rifiuto da parte della
Francia e della Germania di prendere in custodia i molti terroristi
dell’ISIS provenienti dall’Europa e in particolar modo dai due paesi,
non lasciando alternative alla Turchia se non quella dell’intervento
militare.
Quali scenari in Siria?
Un
buon numero di esponenti repubblicani, tra cui i senatori Lindsey
Graham e Marco Rubio, notoriamente vicini al presidente, hanno
prontamente criticato la decisione di Trump di avallare l’invasione
militare turca delle aree sotto il controllo dell’SDF, definendola senza
mezzi termini un “disastro”.
Tutti coloro che
hanno espresso le proprie critiche concordano nel richiamare i principi
etici della politica estera e – non in subordine – la credibilità stessa
degli Stati Uniti, che ne esce in questa occasione fortemente diminuita
con il rischio di provocare reazioni a catena in molte altre delicate
questioni regionali.
Persino un “falco” come l’ex ambasciatrice all’ONU
Nikki Haley non ha esitato a criticare la decisione del presidente,
sostenendo come sia “sempre necessario sostenere gli alleati, se si
vuole poi essere sostenuti da questi”.
Non è
facile al tempo stesso formulare scenari precisi sui possibili sviluppi,
tuttavia, prima di tutto perché non è chiaro di quale portata sarà
l’operazione militare turca, e con quali obiettivi.
Buona
parte degli analisti che segue l’evoluzione delle dinamiche politiche e
di sicurezza della regione ritiene che gli obiettivi della Turchia
connessi all’imminente campagna militare siano essenzialmente tre:
eliminare la capacità militare di un’organizzazione ritenuta espressione
del PKK, impedire il consolidamento di qualsiasi forma di autonomia
sotto il controllo curdo e, non ultimo, rimpatriare alcune centinaia di
migliaia di profughi del conflitto siriano nelle aree che si intendono
liberare dal controllo curdo.
La strategia della
Turchia non presenta quindi alcun elemento di novità rispetto al
passato, limitandosi a perseguire obiettivi securitari pienamente in
linea con la propria concezione dell’interesse nazionale e della
sicurezza, che vede nei curdi una minaccia di grande portata per la
stabilità nazionale e regionale.
Parallelamente, l’operazione offre la
possibilità di risolvere – almeno in parte – il problema determinato
dalla presenza di un elevato numero di profughi siriani sul proprio
territorio, favorendone il ritorno in patria ed avviando in tal modo a
conclusione il lungo e doloroso periodo della guerra civile siriana e
dei molti errori di valutazione strategica commessi dalla Turchia.
Tanto
Trump quanto Erdogan, inoltre, vedono in questa forma di collaborazione
una finestra di opportunità per ricucire i rapporti bilaterali,
alterati proprio dal sostegno degli Stati Uniti alle formazioni dell’SDF
e poi incancrenitisi sulla questione della fornitura dei missili
anti-aerei russi S-400 alla Turchia.
L’appoggio all’operazione militare
turca in Siria, nella visione di Trump, potrebbe portare Ankara ad una
rapida revisione dei propri programmi militari con la Russia,
riconsolidandone il ruolo all’interno della NATO.
La marginale capacità
delle forze statunitensi in Siria, peraltro, non offre alcun possibile
obiettivo di interesse politico e militare per Trump, che ne ha quindi
sacrificato il ruolo senza alcun interesse tanto per la sorte dei curdi
quanto per l’immagine stessa degli Stati Uniti nella regione.
Quello
che accadrà sul terreno all’indomani dell’avvio dell’operazione
militare turca, invece, risulta allo stato attuale di più difficile
previsione, stante la carenza di informazioni circa la natura e la
portata dell’operazione.
Il principale timore,
soprattutto in Europa, è quello di un conflitto sanguinoso e capillare
all’interno della regione curda, con la possibilità non solo di
un’estensione sul piano territoriale siriano, ma anche e soprattutto
nelle adiacenti nazioni.
Il timore di un’operazione su larga scala delle
forze turche, nell’ambito di un’operazione concepita come risolutiva
del “problema curdo”, lascia presagire la possibilità di un conflitto
cruento ed esteso, il cui costo in termini civili e umanitari potrebbe
essere elevatissimo.
Si teme concretamente,
inoltre, che l’operazione militare possa favorire un riconsolidamento
delle forze dello Stato Islamico, sconfitte militarmente ma non
annullate sul piano sociale, e che potrebbero cogliere l’occasione di un
nuovo scontro nella regione per ricostituire la propria capacità
militare e di controllo territoriale.
L’ipocrisia europea e regionale
La
decisione del presidente Trump di abbandonare al proprio destino le
forze curde della Siria nord-orientale ha destato critiche diffuse tanto
negli Stati Uniti quanto in Europa, facendo emergere tuttavia ancora
una volta la profonda ipocrisia della comunità internazionale dinanzi
alla causa del popolo curdo.
Spinti a combattere
per conto degli occidentali nella feroce guerra contro l’ISIS, esaltati
per aver lottato tenacemente contro le peggiori formazioni jihadiste
della storia e lodati per aver difeso le comunità cristiane della
regione, i curdi dell’SDF transitano rapidamente nell’oblio della
narrativa occidentale all’insorgere della prima difficoltà.
Dopo
essere stati sostenuti militarmente dalla Francia e da numerosi altri
paesi europei, nessuno in seno all’Unione Europea sembra essere disposto
ad intraprendere alcuna azione concreta a sostegno dei curdi siriani,
né attraverso un’azione diplomatica, né tantomeno di protezione
militare.
Le critiche mosse da più parti in Europa
al presidente Trump sulla credibilità del paese e sulla necessità di
difendere l’etica della politica estera attraverso il sostegno dei
propri alleati, colpisce in tal modo con la medesima intensità anche la
credibilità e la reputazione europea.
L’assenza di
qualsiasi iniziativa concreta da parte dell’Europa a sostegno dei curdi
siriani produrrà nella regione il medesimo impatto della decisione
statunitense di ritirare le proprie truppe dal paese, condividendo in
tal modo il peso di una pesante responsabilità.
Non
minore l’ipocrisia sul piano regionale, dove il “fattore curdo”
costituisce un problema comune tanto alla Turchia quanto alla Siria,
all’Iraq e all’Iran, dove qualsiasi ipotesi di autonomia regionale dei
curdi e di consolidamento del proprio ruolo militare viene percepito
come una minaccia e osteggiato apertamente.
A
margine delle dichiarazioni meramente di circostanza, quindi, nessun
paese della regione nutre alcun interesse concreto in funzione
dell’autonomia curda, non ponendo in tal modo alcuna resistenza al
progetto militare turco e rimandando al futuro la riflessione sulle sue
possibili conseguenze.
Ciò che potrà accadere nel
corso delle prossime settimane, tuttavia, rischia di pesare a lungo
nella storia e nella memoria della regione, e almeno l’Europa dovrebbe
comprenderne il rischio e una volta tanto mostrare coraggio.
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