martedì 8 ottobre 2019

Siria e Curdi. Rischio carneficina.


Trump lascia a Erdogan via libera alla soluzione del "problema curdo" in Siria. Nell'indifferenza dell'Europa.

 
Nicola Pedde Direttore Institute of Global Studies

Con uno scarno comunicato, la Casa Bianca ha fatto sapere che le unità militari statunitensi presenti sul territorio siriano lasceranno a breve l’area di confine con la Turchia, in conseguenza di un’operazione militare turca programmata da tempo e finalizzata all’occupazione dell’area settentrionale della Siria.

FILE -- In this Oct. 17, 2016 file photo, a Kurdish Peshmerga convoy drives towards a frontline in Khazer,...Rimossi gli ostacoli politici al Dipartimento della Difesa e tecnico-operativi al Pentagono, la strategia del disimpegno regionale di Trump prende forma e sostanza, ponendo interrogativi inquietanti non solo sul futuro della Siria quanto più in generale della credibilità degli Stati Uniti e – conseguentemente – dell’Europa.



Lo scenario nel nord-est della Siria
Il disimpegno delle forze militari statunitensi dalla Siria aprirà la strada all’operazione militare turca finalizzata all’occupazione del territorio oggi amministrato dai curdi delle Forze Democratiche Siriane (SDF), già al fianco degli Stati Uniti nella lunga operazione militare che ha portato alla sconfitta dello Stato Islamico in Siria.
L’SDF aveva proclamato lo scorso 23 marzo la definitiva vittoria contro le forze del califfato, costata sul piano delle perdite oltre 11.000 combattenti, accingendosi ad avviare una fase politica finalizzata al riconoscimento della propria autonomia all’interno del nuovo equilibrio politico siriano.
Costituite nell’ottobre del 2015, le milizie dell’SDF sono principalmente composte da combattenti curdi delle Unità di Protezione Popolare (YPG), siriani assiri e altre minoranze regionali, coagulatesi con il sostegno occidentale – e statunitense in particolar modo – al fine di sconfiggere la minaccia politica e militare dello Stato Islamico in Siria. Alla costituzione nel dicembre del 2016 dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est, le milizie dell’SDF si sono ufficialmente proclamate come le forze armate della neocostituita entità territoriale autonoma, andando in tal modo a delineare un profilo di indipendenza che non ha lasciato indifferente la Turchia.

Sin dalla loro costituzione, le forze dell’SDF hanno ricevuto il pieno e concreto sostegno degli Stati Uniti, della Francia, oltre a quello più sporadico e marginale di altri paesi europei. Per impedire che le forze turche e le milizie sostenute da Ankara nel complesso mosaico della guerra in Siria potessero attaccare quelle dell’SDF, gli Stati Uniti schierarono le proprie truppe presenti in Siria congiuntamente a quelle curde, scoraggiando in tal modo qualsiasi azione ostile nei loro confronti.
Non mancò mai il sostegno di Washington durante le impegnative operazioni dell’SDF per la conquista di Kobane e di Raqqa, garantendo la disponibilità di mezzi, equipaggiamenti e munizioni, nonché addestramento e collaborazione da parte di alcune unità delle forze speciali.
Nonostante il poderoso sforzo militare compiuto dall’SDF nella guerra contro lo Stato Islamico, la Turchia ha sempre accusato le forze dell’YPG di essere espressione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), considerandole parte di tale rete, e quindi espressione di un contesto che i turchi considerano alla stregua di un’organizzazione terroristica.
Le forze dell’YPG sono state designate ufficialmente dalla Turchia come un’organizzazione terroristica nel 2018 e ben presto ingaggiate nel distretto di Afrin, poi occupato militarmente, dando avvio ad un conflitto interno a quello più ampio siriano. La Turchia ha cercato senza successo di fomentare divisioni etniche e politiche all’interno delle forze dell’SDF, accusando poi l’YPG di essere impegnato in un’operazione di pulizia etnica nelle aree sottoposte al loro controllo, finalizzato all’espulsione di tutte le componenti non curde o a queste alleate. Le accuse, smentite dalle stesse Nazioni Unite, non sono riuscite nell’intento di catalizzare l’opposizione della comunità internazionale e delle forze regionali contro l’YPG, legittimate peraltro dalla stessa presenza delle forze statunitensi sul terreno e dalla palese collaborazione nella lotta allo Stato Islamico.
Nonostante il pieno sostegno del Pentagono alle forze dell’SDF, il presidente Donald Trump aveva annunciato a sorpresa la propria intenzione di ritirare il contingente in Siria nel dicembre del 2018, destando l’ira dell’allora segretario alla Difesa Jim Mattis, poi dimessosi dall’incarico. Mattis, appoggiato da buona parte dell’apparato della Difesa statunitense, aveva criticato fortemente la decisione del presidente, considerandone giustamente il peso in termini di credibilità per gli Stati Uniti nella regione in seno agli alleati, in una fase molto difficile per gli stessi Stati Uniti nel conseguire i propri obiettivi sul terreno.
Apparentemente riconsiderata nel corso dei mesi successivi, la decisione è stata invece confermata il 6 ottobre scorso, a seguito di colloqui telefonici intercorsi poche ore prima tra il presidente statunitense Trump e quello turco Erdogan.
Il comunicato della Casa Bianca con cui viene annunciata la decisione, ridotto all’essenziale, annuncia il disimpegno americano dalla regione e giustifica l’imminente intervento turco ritenendolo una conseguenza del rifiuto da parte della Francia e della Germania di prendere in custodia i molti terroristi dell’ISIS provenienti dall’Europa e in particolar modo dai due paesi, non lasciando alternative alla Turchia se non quella dell’intervento militare.

Quali scenari in Siria?
Un buon numero di esponenti repubblicani, tra cui i senatori Lindsey Graham e Marco Rubio, notoriamente vicini al presidente, hanno prontamente criticato la decisione di Trump di avallare l’invasione militare turca delle aree sotto il controllo dell’SDF, definendola senza mezzi termini un “disastro”.
Tutti coloro che hanno espresso le proprie critiche concordano nel richiamare i principi etici della politica estera e – non in subordine – la credibilità stessa degli Stati Uniti, che ne esce in questa occasione fortemente diminuita con il rischio di provocare reazioni a catena in molte altre delicate questioni regionali. 
Persino un “falco” come l’ex ambasciatrice all’ONU Nikki Haley non ha esitato a criticare la decisione del presidente, sostenendo come sia “sempre necessario sostenere gli alleati, se si vuole poi essere sostenuti da questi”.
Non è facile al tempo stesso formulare scenari precisi sui possibili sviluppi, tuttavia, prima di tutto perché non è chiaro di quale portata sarà l’operazione militare turca, e con quali obiettivi.
Buona parte degli analisti che segue l’evoluzione delle dinamiche politiche e di sicurezza della regione ritiene che gli obiettivi della Turchia connessi all’imminente campagna militare siano essenzialmente tre: eliminare la capacità militare di un’organizzazione ritenuta espressione del PKK, impedire il consolidamento di qualsiasi forma di autonomia sotto il controllo curdo e, non ultimo, rimpatriare alcune centinaia di migliaia di profughi del conflitto siriano nelle aree che si intendono liberare dal controllo curdo.
La strategia della Turchia non presenta quindi alcun elemento di novità rispetto al passato, limitandosi a perseguire obiettivi securitari pienamente in linea con la propria concezione dell’interesse nazionale e della sicurezza, che vede nei curdi una minaccia di grande portata per la stabilità nazionale e regionale. 
Parallelamente, l’operazione offre la possibilità di risolvere – almeno in parte – il problema determinato dalla presenza di un elevato numero di profughi siriani sul proprio territorio, favorendone il ritorno in patria ed avviando in tal modo a conclusione il lungo e doloroso periodo della guerra civile siriana e dei molti errori di valutazione strategica commessi dalla Turchia.
Tanto Trump quanto Erdogan, inoltre, vedono in questa forma di collaborazione una finestra di opportunità per ricucire i rapporti bilaterali, alterati proprio dal sostegno degli Stati Uniti alle formazioni dell’SDF e poi incancrenitisi sulla questione della fornitura dei missili anti-aerei russi S-400 alla Turchia. 

L’appoggio all’operazione militare turca in Siria, nella visione di Trump, potrebbe portare Ankara ad una rapida revisione dei propri programmi militari con la Russia, riconsolidandone il ruolo all’interno della NATO. 
La marginale capacità delle forze statunitensi in Siria, peraltro, non offre alcun possibile obiettivo di interesse politico e militare per Trump, che ne ha quindi sacrificato il ruolo senza alcun interesse tanto per la sorte dei curdi quanto per l’immagine stessa degli Stati Uniti nella regione.
Quello che accadrà sul terreno all’indomani dell’avvio dell’operazione militare turca, invece, risulta allo stato attuale di più difficile previsione, stante la carenza di informazioni circa la natura e la portata dell’operazione.
Il principale timore, soprattutto in Europa, è quello di un conflitto sanguinoso e capillare all’interno della regione curda, con la possibilità non solo di un’estensione sul piano territoriale siriano, ma anche e soprattutto nelle adiacenti nazioni. 

Il timore di un’operazione su larga scala delle forze turche, nell’ambito di un’operazione concepita come risolutiva del “problema curdo”, lascia presagire la possibilità di un conflitto cruento ed esteso, il cui costo in termini civili e umanitari potrebbe essere elevatissimo.
Si teme concretamente, inoltre, che l’operazione militare possa favorire un riconsolidamento delle forze dello Stato Islamico, sconfitte militarmente ma non annullate sul piano sociale, e che potrebbero cogliere l’occasione di un nuovo scontro nella regione per ricostituire la propria capacità militare e di controllo territoriale.

L’ipocrisia europea e regionale
La decisione del presidente Trump di abbandonare al proprio destino le forze curde della Siria nord-orientale ha destato critiche diffuse tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, facendo emergere tuttavia ancora una volta la profonda ipocrisia della comunità internazionale dinanzi alla causa del popolo curdo.
Spinti a combattere per conto degli occidentali nella feroce guerra contro l’ISIS, esaltati per aver lottato tenacemente contro le peggiori formazioni jihadiste della storia e lodati per aver difeso le comunità cristiane della regione, i curdi dell’SDF transitano rapidamente nell’oblio della narrativa occidentale all’insorgere della prima difficoltà.
Dopo essere stati sostenuti militarmente dalla Francia e da numerosi altri paesi europei, nessuno in seno all’Unione Europea sembra essere disposto ad intraprendere alcuna azione concreta a sostegno dei curdi siriani, né attraverso un’azione diplomatica, né tantomeno di protezione militare.
Le critiche mosse da più parti in Europa al presidente Trump sulla credibilità del paese e sulla necessità di difendere l’etica della politica estera attraverso il sostegno dei propri alleati, colpisce in tal modo con la medesima intensità anche la credibilità e la reputazione europea.
L’assenza di qualsiasi iniziativa concreta da parte dell’Europa a sostegno dei curdi siriani produrrà nella regione il medesimo impatto della decisione statunitense di ritirare le proprie truppe dal paese, condividendo in tal modo il peso di una pesante responsabilità.
Non minore l’ipocrisia sul piano regionale, dove il “fattore curdo” costituisce un problema comune tanto alla Turchia quanto alla Siria, all’Iraq e all’Iran, dove qualsiasi ipotesi di autonomia regionale dei curdi e di consolidamento del proprio ruolo militare viene percepito come una minaccia e osteggiato apertamente.
A margine delle dichiarazioni meramente di circostanza, quindi, nessun paese della regione nutre alcun interesse concreto in funzione dell’autonomia curda, non ponendo in tal modo alcuna resistenza al progetto militare turco e rimandando al futuro la riflessione sulle sue possibili conseguenze.
Ciò che potrà accadere nel corso delle prossime settimane, tuttavia, rischia di pesare a lungo nella storia e nella memoria della regione, e almeno l’Europa dovrebbe comprenderne il rischio e una volta tanto mostrare coraggio.

Nessun commento:

Posta un commento