domenica 13 ottobre 2019

Fuga dal realismo capitalista

Mark Fisher è stato più volte accusato di nichilismo distopico. Al contrario, il motore della metodologia innovativa, aperta all’analisi di linguaggi estetici come la musica elettronica, il punk e l’hip hop, il cinema di consumo e quello d’avanguardia, è il future shock: «Quel senso di eccitamento per il futuro, per l’inaspettato, per il potenziale dirompente di quanto ancora non è».


jacobinitalia.it Daniele Garritano
La categoria di «impotenza riflessiva» è stata coniata da Mark Fisher nel saggio Realismo capitalista. Uscito nel 2009, nel momento in cui il crack dei mercati finanziari trascinava il mondo occidentale in una spirale di ansia, disoccupazione e impoverimento di senso del futuro e poi diventato nel corso di dieci anni un testo di riferimento per la comprensione degli effetti socio-culturali e psico-cognitivi del capitalismo postfordista, Realismo capitalista pone la questione del rapporto tra immaginazione e principio di realtà nella «logica culturale del tardo capitalismo».
Il riferimento al testo di Fredric Jameson sul postmodernismo, che risale nella prima stesura al 1984, richiama un’insieme di intenzioni assunte coscientemente nell’impianto teorico di Fisher: la coscienza di riprendere una discussione teorica sull’esaurimento del processo di modernizzazione e sulle sue conseguenze nella vita quotidiana delle società occidentali, l’interesse sintomatologico per i consumi culturali mainstream (film, musica, pubblicità) come indicatori di modi di vivere e strutture di pensiero, l’interrogazione sul sistema delle macchine e su quella che Jameson definiva la «produzione di persone […] capaci di adattarsi ad un preciso e peculiare mondo socioeconomico».
Rispetto alla lettura jamesoniana del postmodernismo, il teorico inglese accoglie la questione del «fallimento del futuro», il ruolo dell’utopia come categoria necessaria del pensiero politico, e soprattutto la necessità di interpretare la «logica culturale» del capitalismo sul piano dello stile e dei modi di vivere per decifrarne il senso comune.

Il richiamo all’autorità di Postmodernism di Jameson si basa anche su motivi generazionali: al momento dell’uscita del saggio a partire da cui si svilupperà il progetto jamesoniano (1984), Fisher aveva appena sedici anni e il socialismo sovietico – che si definiva «reale» – si apprestava a vivere il suo ultimo lustro di storia. In Gran Bretagna il senso di solidarietà sociale era scosso dagli scioperi dei minatori, che persero il lavoro in nome della nuova dottrina, realista e neoliberale, che si apprestava ad egemonizzare il campo politico della fine del secolo. Gli anni Ottanta rappresentano il terreno della lotta in cui l’idea di «realismo capitalista» si è imposta; ma anche il punto di svolta per il capitalismo, che realizzava di poter colonizzare e incorporare non soltanto i luoghi di lavoro, ma le strutture del pensiero. In questo senso, Fisher colloca la sua ricerca in una posizione complementare rispetto a quella di Jameson: il realismo capitalista ha molti aspetti in comune con la cultura postmoderna, da cui per altro deriva; ma la sua novità consiste nell’aver messo definitivamente in soffitta gli afflati utopistici del modernismo, che torna utile soltanto come oggetto commerciale, in forme estetiche congelate e senza vita. Infine, ciò che caratterizza maggiormente il realismo capitalista rispetto al postmoderno è l’essere diventato un paradigma unico, senza limiti esterni: al culto della molteplicità e della differenza tipico del postmoderno, si oppone nel realismo capitalista la colonizzazione e l’incorporazione di tutto l’orizzonte del pensabile.
Per come lo concepisco, il realismo capitalista non può restare confinato alle arti o ai meccanismi semipropagandistici della pubblicità. È più un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione.
In quanto scienziato sociale, Fisher mette a fuoco gli orizzonti d’attesa dell’immaginario neoliberale, analizza pratiche trasformative che coinvolgono corpi e affetti, relazioni, consumi e piani di vita della società contemporanea. Lo fa a partire dalla celebre formula di Margareth Tatcher: there is no alternative (T.I.N.A. in acronimo), l’espressione più asciutta del dogma neoliberista che ha egemonizzato il campo culturale non solo in termini politici ed economici, ma anche nella trama più fitta della vita quotidiana e del senso comune. Fisher definisce il potere di questo slogan come una «profezia che si autoavvera», ricorrendo perciò alla nota definizione di Robert K. Merton, a sua volta ispirata al teorema di Thomas: «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Più che una rappresentazione della realtà, il realismo capitalista si presenta come un modo di rappresentare la realtà, e ovviamente di costruirla, a partire dall’assenza di altri paradigmi possibili.
Nella parte centrale del libro, Fisher segue le sorti di questo paradigma attraverso un’analisi della burocrazia neoliberale, definita «stalinismo di mercato» per l’imposizione della mercatizzazione al servizio pubblico e la conseguente produzione di statistiche e griglie di valutazione che ne gestiscono la governance (mission, target setting, league tables, performance reviews). L’università, la scuola, il sistema sanitario nazionale, la polizia sono gestite da procedure burocratiche assimilabili agli «apparati ideologici di stato» (ovvero, nella formulazione di Althusser, gli organi che si occupano di riprodurre un’ideologia, una struttura del pensiero). «Il capitalismo occupa semplicemente tutto l’orizzonte del pensabile». Ciò avviene a scapito di chi resta escluso, marginalizzato o schiacciato dalle necessità di sistema; ma anche di chi, per rimanere al suo interno, subisce gli effetti di un pesante impoverimento esistenziale. Nel contesto generale di questa trasformazione, che ha avuto luogo nel corso degli ultimi trent’anni, l’analisi di Fisher introduce la categoria di «impotenza riflessiva».
Senza tematizzarlo esplicitamente, Fisher sembra indicare nella figura del prosumer – il produttore-consumatore immaginato da Alvin Toffler come evoluzione dell’homo oeconomicus – il protagonista di una rivoluzione che promette orizzonti di emancipazione edonista, ma realizza di fatto «la programmazione e la modellazione preventiva, da parte della cultura capitalista, dei desideri, delle aspirazioni, delle speranze» (precorporazione). Per dirla con le parole di Valerio Mattioli, «a profilarsi stancamente è il macchinoso upgrade del mondo che conosciamo già, accelerato e razionalizzato affinché il processo risulti il più possibile fluido, senza increspature, efficiente, spietato». All’interno di questa evoluzione della ragione strumentale in chiave digitale, la vita quotidiana somiglia sempre di più a una guerra di tutti contro tutti: il lessico della competenza si articola regolarmente sulla sintassi della competizione, un processo complesso come la costruzione sociale della realtà è minato alla base dal presupposto – anch’esso tatcheriano – che l’unica realtà che conta è quella individuale: «la società non esiste: esistono individui, uomini, donne e famiglie» – una riduzione della complessità e delle possibilità inscritte nella costruzione di significati che, se accettata, apre le porte del senso comune al realismo capitalista.
Secondo le analisi di Franco Bifo Berardi in Futurabilità, il senso comune attualmente dominante – basato su principi neoliberali come calcolabilità, competitività, connessione permanente, controllo ecc. – tende a escludere il senso del possibile, cioè la capacità di vedere possibilità inscritte nel presente, di riconoscere le zone di ambiguità che sfuggono alle dicotomie del realismo capitalista. In contrasto con l’apertura al possibile che era stata la cifra utopica della modernità, il clima culturale dominato dall’attuale teologia economica è fondato sul presupposto che «non c’è alternativa»: esistono soltanto necessità e senso dell’inevitabile. La funzione esplorativa dell’immaginazione è ingabbiata da griglie che la riconducono alla sfera del consumo attraverso l’iperstimolazione dell’attenzione; oppure da valori vettoriali come l’efficienza e la competizione che, rafforzati dopo lo scoppio della crisi dall’imperativo economico dell’austerità, hanno compromesso il terreno della solidarietà sociale e la fiducia nel futuro. Questa teologia dell’inevitabile è strettamente connessa con il problema del debito: ci si accorge all’improvviso che lo stile di vita occidentale del ventesimo secolo, improntato su espansione e crescita, non è più praticabile. «The lifestyle you ordered is currently out of stock», recita un murale di Banksy nel centro di Londra dal 2011. L’accesso a beni sociali primari come educazione, sanità e tempo libero è stato ridotto dalla deregulation dei servizi pubblici e dall’inasprirsi delle condizioni di lavoro. D’altra parte, l’accesso alla sfera del consumo è sempre più separato da ciò che Bifo definisce «rapporto con la comunità», in un clima di impoverimento generale della vita sociale. Anche dal punto di vista psicologico cresce l’incidenza di disturbi emozionali, della discronia (intesa alla Minkowski in senso esperienziale, come una «patologia del tempo vissuto»), di una «condizione di anestesia, generata da una continua tensione incline a convertirsi in depressione», spinti dall’iperstimolazione della biosfera connettiva che richiede sempre più attenzione e non prevede un tempo per l’elaborazione. In questo senso, quando parla dell’«età dell’impotenza» per definire il momento attuale, Bifo intravede tutta la difficoltà di elaborare un’immagine del futuro che metta in discussione i parametri della teologia economica. Scrive: «dobbiamo trasformare l’impotenza in una linea di fuga dall’universo della competizione», intendendo che da una certa idea di impotenza si possono trarre le energie per riattivare i circuiti dell’empatia e della solidarietà sociale. Tutto dipende dalla percezione che i soggetti hanno della loro stessa impotenza: può essere paralizzante («siamo costretti a pensare che non è più possibile alleviare la sofferenza con dei progetti politici, ma solo con gli psicofarmaci»); ma può essere anche una riserva di possibilità inespresse, un’impotenza mobilitante. Dalla differenza qualitativa fra queste due percezioni dipende la nostra grammatica del futuro: il modo in cui lo immaginiamo e l’energia con cui ci proiettiamo verso il suo orizzonte.
Queste analisi ci dicono che il potere lavora molto sull’attività mentale, sui modi in cui ci rappresentiamo la realtà, sulle automazioni fra pensiero e linguaggio. Il tramonto del senso del possibile, in favore del senso dell’inevitabile e del «T.I.N.A.» tatcheriano, è indissociabile dall’ostilità verso la società in quanto luogo di produzione di significati e dall’inasprimento delle condizioni di vita nelle democrazie occidentali. In un articolo intitolato «Come la rivoluzione digitale sia riuscita a distrarci da tutto, anche dal nostro sfruttamento», Francesca Coin ha notato lo «stretto legame che sussiste sin da principio tra la finanza e il digitale», in un contesto in cui l’«economia dell’attenzione» è diventata il settore strategico per il capitalismo comunicativo. Nella posizione di collante fra questi fenomeni, Coin descrive da un lato l’esplosione del doping manageriale nella Silicon Valley (la dipendenza da psicofarmaci, smart drugs, anfetamine e oppiacei per sostenere i ritmi di lavoro), e dall’altro la crescita esponenziale dei «tossici digitali»: sempre più persone affrontano l’ansia e la frustrazione, la solitudine e la depressione, cercando riparo fra le bolle ovattate delle piattaforme social, che si nutrono a loro volta della nostra attenzione trasformandola in profitto.
Il meccanismo di cattura dentro il quale siamo ci porta continuamente a rivolgerci alla rete per cercare risposte precludendo così la nostra autonomia: se l’esistenza di una società prende forma dalla capacità di tessere concatenamenti linguistici, verbali, emotivi, emozionali, tra un organismo e l’altro, inventando mappe cognitive sulla base delle quali orientare la condotta collettiva è come se queste mappe fossero oggi preda del capitalismo digitale, che le sequestra dentro un immaginario on demand mentre ci confina a lavorare sempre più nello scantinato di casa.
L’impressione è che le quotazioni dell’impotenza paralizzante siano molto alte, mentre quelle dell’impotenza mobilitante in ribasso. In sottofondo, si avverte il legame fra la competizione neoliberale, la percezione di inadeguatezza e un tipo di depressione che ha origine in «un contesto sociale problematico nel quale l’individuo si trova dalla parte sbagliata del potere sociale».
Mark Fisher ha osservato il sistema scolastico britannico dall’interno, essendo stato insegnante nel settore della formazione post-scolastica (further education college) che raccorda l’istruzione secondaria al mondo del lavoro. L’affermazione dell’efficienza in quanto valore imperativo, a cui accordare l’intera organizzazione di un sistema ispirato a modelli manageriali, ha prodotto una distorsione del ruolo degli insegnanti: «chiamati a mediare tra la soggettività post-alfabetizzata del consumatore tardo capitalista e le richieste del regime disciplinare», «intrappolati tra il ruolo di facilitatori-intrattenitori e quello di disciplinatori autoritari […] nello stesso esatto momento in cui le strutture disciplinari sono andate in crisi». Procedure di razionalizzazione, griglie di valutazione, competitività e premi per gli obiettivi rappresentano il circuito ideologico con cui la scuola traduce il realismo capitalista in pratiche educative e modi di pensare. Da parte loro gli studenti, «stretti tra il vecchio ruolo di soggetti dell’istituzione disciplinare e il nuovo status di consumatori di servizi», si abituano a pensare alla loro stessa formazione in termini di competenze al servizio del mercato. Così la relazione educativa, controllata da dispositivi di governance su base statistica e tecnico-aziendale, riproduce una struttura di pensiero in cui tutto è sacrificato alle esigenze del mercato: poiché questo scenario, semplicemente, non presenta un’alternativa. È così che – nota Fisher in un’intervista del 2012 – «l’educazione è stata indotta a naturalizzare e intensificare la competizione capitalista».
Per ricostruire il contesto teorico in cui si muove Fisher, è molto utile riferirsi all’analisi delle società di controllo offerta da Gilles Deleuze nel saggio Post-scriptum sur les sociétés de contrôle del 1990. Il filosofo parigino distingue le «società disciplinari» (famiglia, scuola, caserma, fabbrica, ospedale, prigione) situate da Foucault tra il diciottesimo e l’inizio del secolo e le «società di controllo», che le hanno sostituite a partire dal secondo dopoguerra. Se le prime si basano sull’internamento in spazi chiusi e su un ordine temporale discontinuo e progressivo («dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica»), le seconde hanno accentuato i tratti di uno spazio dematerializzato e di un tempo simultaneo. In effetti, più che di sostituzione si tratta di una trasformazione che è a sua volta l’effetto di una crisi delle istituzioni. L’internamento disciplinare, i cui presupposti avevano funzionato per oltre due secoli, si trasforma in controllo molecolare quando le istituzioni disciplinari entrano in crisi e, in un certo senso, diventano obsolete (cioè meno efficienti). A proposito della pubblica istruzione, Deleuze scrive che «in effetti, così come l’impresa sostituisce la fabbrica, la formazione permanente tende a sostituire la scuola, e il continuo controllo a sostituire l’esame. È il mezzo più sicuro per consegnare la scuola all’impresa». Commentando le pagine deleuziane, Fisher definisce la società di controllo come una «forma ‘indefinita’ del potere», che produce una forma di dipendenza nella figura borroughsiana del control addict: colui/colei che dipende dal controllo.
Concretamente, gli effetti di questa trasformazione si possono riscontrare nell’analisi delle patologie psichiche che Fisher associa alla definizione di «impotenza riflessiva», un effetto del realismo capitalista penetrato nel sistema educativo britannico a forza di «riforme» neoliberali ispirate all’efficienza, per preparare l’ingresso degli studenti nel mondo del lavoro. Si tratta di disturbi mentali, a volte conclamati ma molto più spesso latenti, che ricadono nell’ambito del deficit di attenzione, della difficoltà di apprendimento, in alcuni casi della depressione. Per esempio, parlando di «edonia depressa» Fisher descrive la ricerca compulsiva di piacere nella forma di «soffice narcosi», che in assenza di regime disciplinare rappresenta una meta confortevole nello spazio amniotico fra le procedure di controllo. Altre manifestazioni di questo disagio sono l’«inerzia edonistica (o anedonica)» e l’«interpassività»: prevale un sentimento di paralisi e isolamento, la ricerca intrattenimento on demand che di solito si consuma davanti a uno schermo, «un’incapacità di concentrarsi e focalizzare alcunché»: «se la cifra della disciplina è il lavoratore-prigioniero, quella del controllo è il debitore-tossico». Più che alla descrizione fenomenologica del disagio psichico nel sistema scolastico, la diagnosi di Fisher guarda alla sua comprensione sintomatica, come marker specifico delle generazioni nate negli ultimi trent’anni e come indicatore di un processo più ampio che riguarda il senso comune nel suo complesso, a cui Fisher dà il nome di «realismo capitalista».
Ecco come la categoria di «impotenza riflessiva» viene introdotta nel saggio:
Gli studenti cioè sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività, non è l’osservazione passiva di uno stato di cose già in atto: è una profezia che si autoavvera.
Se l’obiettivo del «realismo capitalista», in quanto senso comune, riguarda in primis la definizione stessa della realtà e dei suoi orizzonti d’attesa (ciò che è possibile aspettarsi e legittimamente sperare per il futuro), allora la ricerca di Fisher dimostra che l’«impotenza riflessiva» è un atteggiamento che si manifesta in molti soggetti in formazione come un senso di rassegnazione al proprio destino, come l’incapacità di immaginare un futuro diverso dal presente, come una «profezia che si autoavvera». Definire una situazione come reale significa ammettere nella realtà le conseguenze di questa definizione: credere nell’assenza di alternative al modello egemone produce nella realtà una società che non è artefice di sé, una società consapevole della sua passività, una società che ama la sua passività. È per questo motivo che la sua analisi non termina con l’accertamento della morte della società, ma con un’interrogazione sulle possibilità di aprire nuovi conflitti per la definizione del reale. «La crisi è un’opportunità: ma va trattata come una straordinaria sfida speculativa, come lo stimolo per un rinnovamento che non sia un ritorno».
Al pensiero di Fisher è stata più volte mossa una critica: che sia animato da una forma di nichilismo distopico. Al contrario, il motore di questa metodologia innovativa, aperta all’analisi di linguaggi estetici come la musica elettronica, il punk e l’hip hop, il cinema di consumo e quello d’avanguardia, è piuttosto il future shock: «quel senso di eccitamento per il futuro, per l’inaspettato, per il potenziale dirompente di quanto ancora non è». L’importanza di Fisher in quanto scienziato sociale è da ricondurre completamente alla questione del futuro, dell’apertura a modi imprevisti di immaginare il mondo, compreso il suo passato, costruendo tempi e spazi di incontro per incrinare il dominio culturale del postmoderno, completamente funzionale all’immaginario capitalista. «Secondo Eliot, l’esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione smette di essere contestata e modificata, smette di avere senso. Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura». Potremmo aggiungere, riprendendo una considerazione di Fulvio Carmagnola, che anche il reale, quando smette di essere contestato, smette di avere senso: «il reale, ciò che si presenta davanti agli occhi, ciò che viviamo quotidianamente, si svela intrinsecamente ambiguo, e come tale proprio la posta in gioco, ovvero l’oggetto di una contesa sui significati».
Il vero obiettivo della ricerca di Fisher consiste nel recuperare la capacità di costruire trame, di mobilitare soggetti politici e articolare una produzione di significati nuovi, radicati sul piano sociale. Questo filone di ricerche interdisciplinari traccia una prospettiva emancipatoria attraverso una critica dell’ideologia capitalista che attraversa questioni cruciali per la vita sociale: il lavoro, gli affetti, la salute mentale, le dipendenze, il rapporto con le istituzioni mediato dalla burocrazia, la catastrofe ambientale. La posta in gioco di questo approccio consiste nel provocare forme di straniamento cognitivo che producano una ripoliticizzazione del quotidiano, per la quale è necessario «un agente politico che trasformi il dato-per-scontato in una messa-in-palio». L’emancipazione del senso comune passa perciò dal recuperare un’apertura al possibile negli orizzonti della vita quotidiana, ponendo domande a cui oggi – a distanza di dieci anni dall’uscita di Realismo capitalista e a due dalla morte del suo autore – chi fa ricerca sociale deve sforzarsi di rispondere:
Senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?
*Daniele Garritano, PhD in estetica e letterature comparate, si occupa di sociologia dei processi culturali. Ha lavorato fra Italia e Francia, studiando l’influenza dell’opera di Proust sulle filosofie del Novecento. Ha curato l’edizione italiana di H. Cixous e J. Derrida, Letture della differenza sessuale (Artstudio Paparo 2016), nonché la traduzione italiana di J. Butler, E. Laclau e S. Žižek, Dialoghi sulla sinistra (Laterza, 2010). Ha scritto Il senso del segreto (Mimesis, 2017). Questo articolo è tratto dalla relazione che ha tenuto al convegno Emancipatory Social Science Today svoltosi aParma il 26 e 27 settembre scorsi.

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