martedì 8 ottobre 2019

Donne & Lavoro. "Non dovevi diventare mamma per la seconda volta, ora a lavoro ti faranno morire".

Le parole di un consulente del lavoro a Chiara, dipendente di un'azienda milanese demansionata ed emarginata sul lavoro dopo la seconda maternità.

“Non dovevi fare un altro figlio, ora al lavoro ti faranno morire. Ti conviene andartene”. Sono state queste le parole rivolte da un consulente a Chiara, dipendente di un’azienda milanese a cui è stata imputata la “colpa” di una seconda maternità. A raccontare la vicenda è il Corriere della Sera.
Con il primo figlio nessun problema, tutto era andato secondo le leggi. Ma la seconda gravidanza, circa un anno fa, arriva in un clima totalmente diverso [...] C’è stato un cambio generazionale al vertice dell’azienda familiare e il nuovo “capo” appare subito contrariato quando viene a sapere che Chiara è incinta.
All’inizio alla donna viene fatto notare un “ritardo nella comunicazione” della gravidanza e quando lei prova a far notare che, in realtà, l’annuncio era pervenuto nei termini stabiliti, il datore di lavoro insiste:
“Dovevi dirmelo già quando tu e il tuo compagno avete deciso di avere un altro bambino”. E quando la ragazza spiega che nei primi tre mesi possono succedere tante cose lui va oltre l’immaginabile: “Perché se l’avessi perso non me lo avresti detto?”.
Da lì partono contestazioni su contestazioni e, quando Chiara va in maternità, viene a sapere che la persona chiamata a sostituirla è stata assunta a tempo indeterminato.
Dopo il primo approccio del consulente dell’azienda che le propone dimissioni incentivate accompagnate da quella frase (“Ti faranno morire”), al rientro non viene ricevuta dai suoi dirigenti ma da un altro consulente che le comunica la decisione di “riposizionarla”. Svolgerà altri compiti mai affrontati prima. Lei non obietta nulla e a quel punto si sente dire, senza più giri di parole, che l’azienda non la vuole più e che se non avesse accettato l’incentivo subito sarebbe stata comunque licenziata al compimento di un anno del figlio. Anzi, meglio non presentarsi fino a quel giorno.
Di fronte a quel trattamento, la donna non ci sta. Continua ad andare a lavoro, ma il trattamento che riceve è sempre peggiore. Perfino il rapporto con i colleghi diventa difficile: iniziano a farle osservazioni su presunti errori e ad escluderla.
Da responsabile di reparto si ritrova a fare fotocopie, rispondere al citofono (“ma non al telefono”), triturare documenti e archiviare fascicoli cartacei. Dal suo computer non ha accesso alla posta elettronica, né ad altri indirizzi aziendali, non viene coinvolta nelle riunioni e, soprattutto, viene ignorata da tutti. Persino quando viene cambiato il cancello elettrico all’ingresso dell’azienda a lei non viene consegnato il telecomando.
Chiara, decisa a non rinunciare al suo lavoro, si è rivolta alla Cgil e ora sta portando avanti la sua battaglia.

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