La pressione che il genere umano ormai esercita sulla Terra è
straordinaria, e a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo è divenuta
non più sostenibile.
jacobinitalia.it Salvatore Cannavò
Se tra gli anni Ottanta e i Novanta si è iniziata ad adottare l’espressione Antropocene, per definire questa particolare fase dell’era geologica dell’Olocene, mentre lo studioso Jason Moore, che intervistiamo in questo numero di (Jacobin Italia che trovate dal 19 settembre in libreria), ha iniziato a utilizzare il termine Capitalocene, per segnalare l’influsso micidiale che il capitalismo sta esercitando sull’ecosistema vivente.
Già nel 2015 il Programma Internazionale Geosfera-Biosfera ha riconosciuto che alcuni parametri per stabilire condizioni accettabili di vita sul pianeta, erano stati superati. In particolare il cambiamento climatico; l’integrità della biosfera, con un’ondata di estinzione delle specie, più rapida e ampia della precedente, verificatasi sessantacinque milioni di anni fa, cioè all’epoca della sparizione dei dinosauri; l’alterazione del ciclo di azoto, ma anche il cambiamento dell’utilizzo dei suoli con i processi aggressivi di deforestazione (avete presente l’Amazzonia?), estensione delle terre coltivate, siccità prolungate, il fenomeno del land-grabbing e così via. In tutti questi anni solo su un tema si sono registrati dei progressi, la riduzione del buco dell’ozono grazie al protocollo di Montreal del 1989. Un punto che, vale la pena di sottolinearlo, dimostra che se si assumono scelte nette e decise in una determinata direzione, i risultati si possono ottenere: un elemento che le mobilitazioni giovanili di questi anni devono assolutamente tenere a mente per dare credibilità e ottimismo alle loro lotte.
Il problema è che una serie di punti di non ritorno sembrano essere stati toccati come nel caso delle specie scomparse o del livello degli oceani salito di 14 centimetri nel corso del XX secolo (e probabilmente di oltre un metro nel corso del XXI secolo).
Solo da pochi decenni ha iniziato a essere dibattuto il concetto di Antropocene, «per indicare l’attuale intervallo di tempo sulla Terra in cui molti processi chiave sono dominati dall’influenza umana. La parola è entrata rapidamente nella letteratura scientifica come vivida espressione del grado di cambiamento ambientale sulla Terra causato dall’uomo ed è attualmente in discussione come potenziale unità formale della scala temporale geologica»
Ma il termine potrebbe non essere già più adeguato, o meglio andrebbe comunque integrato, da quello che Jason Moore definisce Capitalocene, una fase segnata dal cambiamento climatico «capitalogenico» in cui è «Wall Street a imporre una determinata organizzazione della natura» che il capitale finanziario non trova più «a buon mercato». Del resto, come spiegano i dati pubblicati nel numero, le emissioni globali di gas serra provengono fondamentalmente dai comparti dell’Energia, dell’Industria, dei Trasporti e dell’Edilizia, le Grandi navi inquinano più delle automobili e così via.
La connessione tra crisi ecologica e crisi sociale è già evidente nelle lotte dei popoli indigeni dell’Amazzonia come nella consapevolezza delle eco-femministe che hanno colto da tempo l’impatto negativo sulla vita delle donne, nei paesi più poveri, dove sono al cuore della produzione alimentare, ma non solo, delle catastrofi ecologiche. Essendo ancora largamente confinate al lavoro di cura e di riproduzione, gli effetti della siccità, della penuria, della distruzione o dell’inquinamento massivo si ripercuotono maggiormente sulle loro vite.
Ma la crisi ecologica ha un risvolto fortemente economico legato all’attuale fase specifica della vita del capitalismo. Il quale, è bene ricordarlo, vive da tempo in una costante crisi di sovraccumulazione e di mancata realizzazione dei margini di profitto. La corsa all’aumento della produttività del lavoro sembra rappresentare l’unica strada che il capitale conosce per compensare le proprie debolezze in termini di realizzazione del valore. Ecco perché davanti a sé ha alcune scelte obbligate: aumentare il tasso di sfruttamento del lavoro (si lavora sempre di più senza aumenti di salario), aumentare la massa complessiva delle merci prodotte (in modo da compensare la riduzione di valore della singola merce che l’aumento di produttività comporta), sfruttare gratuitamente, per quanto è possibile, i mezzi di produzione messi a disposizione dalla natura (in particolare la terra), ridurre al massimo i costi di riproduzione della forza lavoro e quindi non remunerando il lavoro di cura e di riproduzione (non a caso molte donne se ne sono accorte e hanno iniziato a mobilitarsi anche per questo).
Il capitalismo ha bisogno incessantemente di ampliare i territori del suo sfruttamento e la natura ne costituisce un terreno privilegiato. Ai fini di mantenere i tassi di profitto tutto è recuperabile e utilizzabile, anche i rifiuti. Per questo, come ha evidenziato Daniel Tanuro, si è affermato un «capitalismo verde» in grado di trovare margini di profitti anche nei processi ecologici, ad esempio quelli tecnologici o quelli delle energie rinnovabili.
Il problema fondamentale, però, è che si contrappongono due realtà inconciliabili. Il capitalismo, per sua stessa natura, non può prevedere limiti, mentre la natura è invece finita. Il capitale, nella ricerca continua di margini di profitto, deve alimentare costantemente il suo processo di espansione e di crescita economica, l’unica che può garantire i ritorni attesi degli investimenti. È una legge intrinseca che provoca notevoli contraddizioni – disoccupazione crescente, scontri inter-capitalistici, guerre – tali da provocare quella «distruzione creatrice» di cui il capitale ha periodicamente bisogno per rigenerare se stesso. Ma la natura non può tollerare una produzione che tende all’infinito. Le risorse sono limitate e anche se vengono rigenerate dalle scoperte scientifiche o dalle nuove tecnologie, il processo è tendenzialmente contraddittorio e dunque esplosivo: se in passato il concetto di «crisi» di cui il capitalismo è imbevuto si è tradotto in guerre epocali, stavolta può rivolgersi nella piena distruzione del Pianeta.
Anche per questo motivo va fatta grande attenzione alle proposte di uscita dalla crisi ambientale. Il ricorso insistito alle nuove tecnologie, alle energie rinnovabili, al cosiddetto «capitalismo verde», può sembrare risolutivo solo in apparenza perché se non si mette in discussione la contraddizione tra la crescita illimitata e la finitezza delle risorse, si ripropongono da capo i termini del problema.
Non è questione di proclamare una astratta teoria della decrescita, quanto di rimettere in discussione il modo in cui si produce, cosa si produce, i meccanismi di consumo – altamente dipendenti dal processo di realizzazione del valore – un sistema che sembra senza vie d’uscita accettabili dall’umanità nel suo complesso.
Se c’è un elemento che accomuna le grandi mobilitazioni in corso è proprio questa intuizione balenata nelle coscienze dei più giovani e delle più giovani. La percezione netta dell’inconciliabilità tra il proprio bisogno di futuro e il futuro che il sistema attuale è in grado di offrire. Il movimento Fridays For Future sembra riecheggiare il Walter Benjamin delle Tesi sul concetto di storia che non a caso il filosofo e storico Michael Löwy, indica come «precursore dell’ecosocialismo»: «Marx – scrive Benjamin – dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia del mondo. Forse le cose sono diverse. Forse le rivoluzioni sono l’atto con cui l’umanità che viaggia in un treno lanciato tira il freno di emergenza». L’immagine suggerisce, annota Löwy, «che se l’umanità permette al treno di seguire il suo percorso – già tracciato dalla struttura in acciaio ferroviario – e che nulla ferma la sua progressione, noi precipiteremo direttamente nel disastro, o in un abisso».
La gioventù che si riconosce in Greta ha visto nella giovane ragazza svedese la nuova Cassandra che avverte del «pericolo d’incendio» (ancora Benjamin) e che rivendica il diritto di spegnerlo.
Il dibattito interno al movimento è appena iniziato e le varie inclinazioni, come mostriamo nell’articolo introduttivo del numero della rivista, sono solo all’inizio del loro confronto. Esiste certamente una dinamica di convivenza con il sistema attuale e che cercherà di affidarsi ai vari piani «green» che da un po’ di tempo vengono promessi da soggetti improbabili come la Commissione europea o, magari, il Fondo monetario. Anche il nuovo governo Conte si è assegnato un compito ecologico promettendo un «Green New Deal» sulla scia di quanto stanno facendo da tempo soggetti molto più credibili come i Democratic socialist of America negli Stati uniti. Queste promesse rischiano di creare molte delusioni, pari solo alle illusioni che potranno generare. Ma rappresentano, allo stesso tempo, anche dei varchi in cui la mobilitazione generale può incunearsi. Sono prove viventi del fatto che la domanda di un «freno di emergenza» è corretta e va mantenuta fino in fondo. Sapendo, allo stesso tempo, che una visione più radicale si impone e che quello che nel linguaggio anglosassone viene definito «ecosocialismo» è una necessità non rinviabile.
La questione ecologica, del resto, viene sbandierata come priorità dalla stessa Commissione europea che punta a investire decine di miliardi in programmi in larga parte funzionali alla strategia della Germania – che proprio nel mese di settembre ha intenzione di presentare il suo piano «green» – e certamente interni alla strategia del «capitalismo verde». È la stessa Commissione che contemporaneamente vara un commissario all’immigrazione definendolo a «difesa del nostro stile europeo di vita» o comunque quella che da decenni ribadisce politiche economiche monetariste e rigoriste.
Nondimeno queste strategie rappresentano il segno di un mutamento in corso, in parte un modo per blandire il consenso, oltre che una necessità intrinseca di strutturare tutte le potenzialità per l’accumulazione. Ma proprio perché assistiamo a una ubriacatura «green» occorre avere idee chiare e capacità di affermare posizioni credibili e avanzate, obiettivi raggiungibili ma in grado di mettere quanta più sabbia possibile nell’ingranaggio.
Occorre un orizzonte largo in cui c’è la costituzione, anche legislativa, in «beni comuni» delle risorse naturali; la socializzazione del settore energetico per condurre sul serio una politica di uscita dall’energia fossile o evitare pericolosi ritorni del nucleare e puntare con decisione alle energie rinnovabili; la commistione tra politiche ecologiche e politiche sociali; un settore agroalimentare da sottrarre all’industrializzazione e alla grande distribuzione; una revisione del settore produttivo attraverso scelte democratiche e collettivamente definite; la modifica dei rapporti tra città e campagne; la difesa dei bisogni espressi dalle donne; la fine della gestione delle città come terreno per realizzare profitti (gentrificazione e urbanizzazione massiva). E poi delineare un programma più immediato, ambito su cui il movimento ecologista, o quello contro le Grandi opere – che vanno di pari passo come ha efficacemente illustrato Wu Ming 1 – o, ancora, quello per un’agricoltura sostenibile, hanno le idee abbastanza chiare . Un «Green New Deal» credibile (dal «New Deal» di Roosevelt) non è una serie di piccoli incentivi verdi, come li abbiamo conosciuti negli ultimi decenni, ma un progetto di investimenti pubblici che modifichi in profondità la nostra società. L’emergenza è tale da richiedere uno sforzo massiccio da parte dell’intera società, una drastica conversione del nostro intero sistema economico. Un’occasione storica per ripensare in profondità le politiche energivore e antisociali del neoliberismo sul lavoro, sulla casa, sulla mobilità e un passaggio per rimettere in discussione il capitalismo stesso: giustizia ambientale e giustizia sociale possono e devono andare di pari passo.
Ma gli obiettivi indicati e il bisogno di raggiungere condizioni ecosostenibili per tutto il Pianeta si scontrano con la sproporzione delle forze in campo, con le difficoltà accumulate da sconfitte storiche, con la necessità di agire in modo coordinato e democratico su scala internazionale. Il movimento Fridays For Future ha indicato una strada, la mobilitazione e la partecipazione a livello planetario e su quella occorre proseguire. Aver fissato la soglia di pericolosità del riscaldamento climatico a 1,5° è un punto di riferimento importante per marciare con determinazione sapendo però che le forze che spingeranno per preservare l’attuale modello produttivo e di consumo non molleranno facilmente. Ad esempio alimentando divisioni e contrapposizioni sbagliate, come quelle dei lavoratori del settore produttivo e i giovani in piazza, o tra le rivendicazioni delle donne e dei migranti e quelli dei lavoratori in generale.
La lotta per un clima giusto, per un pianeta ecosostenibile richiede una grande alleanza, la più ampia possibile. Non richiede la costituzione di «partiti verdi», per quanto le scadenze elettorali possano dare forza alle nostre istanze e per quanto sia assolutamente urgente che le rivendicazioni del movimento invadano il campo istituzionale e diventino politica di governo. Occorrono reti, coalizioni ecologiche, capaci di attraversare il mondo della produzione, della riproduzione sociale, del consumo. Di collegare tra loro generazioni e generi diversi, popolazioni distanti, nord e sud del mondo.
Un lavoro importante, di lungo periodo anche se il tempo a disposizione non è molto. Come Jacobin Italia vogliamo impegnarci in questo lavoro, mettere a disposizione spazi e competenze per far crescere coalizioni e alleanze. La realizzazione di questo numero è già uno strumento che va in questa direzione e le tante presentazioni che ci accingiamo a fare hanno la stessa ambizione. Vogliamo contribuire a tirare il freno di emergenza contro la catastrofe incombente, convinti e convinte che, proprio perché su questo terreno è impegnata «la meglio gioventù», ce la possiamo fare.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
Il numero di Jacobin Italia che trovate dal 19 settembre in
libreria (e che, ricordiamolo, potete sempre ordinare in edicola) è un
numero straordinario. Non perché sia il più bello realizzato o perché
sia un numero speciale, ma perché tratta di una questione straordinaria,
quella ecologica, che riguarda l’esistenza in vita dello stesso pianeta
Terra nel giro di un secolo o poco più.
Per questo vogliamo presentarlo con una riflessione straordinaria, appunto, che inviti a un’attenzione significativa, a una mobilitazione permanente, come già i giovani e le giovani di Fridays For Future hanno cominciato a fare, e per le quali vogliamo mettere a disposizione la nostra rivista.
Leggi l’editoriale e il sommario del n. 4 di Jacobin Italia.
jacobinitalia.it Salvatore Cannavò
Se tra gli anni Ottanta e i Novanta si è iniziata ad adottare l’espressione Antropocene, per definire questa particolare fase dell’era geologica dell’Olocene, mentre lo studioso Jason Moore, che intervistiamo in questo numero di (Jacobin Italia che trovate dal 19 settembre in libreria), ha iniziato a utilizzare il termine Capitalocene, per segnalare l’influsso micidiale che il capitalismo sta esercitando sull’ecosistema vivente.
Già nel 2015 il Programma Internazionale Geosfera-Biosfera ha riconosciuto che alcuni parametri per stabilire condizioni accettabili di vita sul pianeta, erano stati superati. In particolare il cambiamento climatico; l’integrità della biosfera, con un’ondata di estinzione delle specie, più rapida e ampia della precedente, verificatasi sessantacinque milioni di anni fa, cioè all’epoca della sparizione dei dinosauri; l’alterazione del ciclo di azoto, ma anche il cambiamento dell’utilizzo dei suoli con i processi aggressivi di deforestazione (avete presente l’Amazzonia?), estensione delle terre coltivate, siccità prolungate, il fenomeno del land-grabbing e così via. In tutti questi anni solo su un tema si sono registrati dei progressi, la riduzione del buco dell’ozono grazie al protocollo di Montreal del 1989. Un punto che, vale la pena di sottolinearlo, dimostra che se si assumono scelte nette e decise in una determinata direzione, i risultati si possono ottenere: un elemento che le mobilitazioni giovanili di questi anni devono assolutamente tenere a mente per dare credibilità e ottimismo alle loro lotte.
Il problema è che una serie di punti di non ritorno sembrano essere stati toccati come nel caso delle specie scomparse o del livello degli oceani salito di 14 centimetri nel corso del XX secolo (e probabilmente di oltre un metro nel corso del XXI secolo).
Solo da pochi decenni ha iniziato a essere dibattuto il concetto di Antropocene, «per indicare l’attuale intervallo di tempo sulla Terra in cui molti processi chiave sono dominati dall’influenza umana. La parola è entrata rapidamente nella letteratura scientifica come vivida espressione del grado di cambiamento ambientale sulla Terra causato dall’uomo ed è attualmente in discussione come potenziale unità formale della scala temporale geologica»
Ma il termine potrebbe non essere già più adeguato, o meglio andrebbe comunque integrato, da quello che Jason Moore definisce Capitalocene, una fase segnata dal cambiamento climatico «capitalogenico» in cui è «Wall Street a imporre una determinata organizzazione della natura» che il capitale finanziario non trova più «a buon mercato». Del resto, come spiegano i dati pubblicati nel numero, le emissioni globali di gas serra provengono fondamentalmente dai comparti dell’Energia, dell’Industria, dei Trasporti e dell’Edilizia, le Grandi navi inquinano più delle automobili e così via.
La connessione tra crisi ecologica e crisi sociale è già evidente nelle lotte dei popoli indigeni dell’Amazzonia come nella consapevolezza delle eco-femministe che hanno colto da tempo l’impatto negativo sulla vita delle donne, nei paesi più poveri, dove sono al cuore della produzione alimentare, ma non solo, delle catastrofi ecologiche. Essendo ancora largamente confinate al lavoro di cura e di riproduzione, gli effetti della siccità, della penuria, della distruzione o dell’inquinamento massivo si ripercuotono maggiormente sulle loro vite.
Ma la crisi ecologica ha un risvolto fortemente economico legato all’attuale fase specifica della vita del capitalismo. Il quale, è bene ricordarlo, vive da tempo in una costante crisi di sovraccumulazione e di mancata realizzazione dei margini di profitto. La corsa all’aumento della produttività del lavoro sembra rappresentare l’unica strada che il capitale conosce per compensare le proprie debolezze in termini di realizzazione del valore. Ecco perché davanti a sé ha alcune scelte obbligate: aumentare il tasso di sfruttamento del lavoro (si lavora sempre di più senza aumenti di salario), aumentare la massa complessiva delle merci prodotte (in modo da compensare la riduzione di valore della singola merce che l’aumento di produttività comporta), sfruttare gratuitamente, per quanto è possibile, i mezzi di produzione messi a disposizione dalla natura (in particolare la terra), ridurre al massimo i costi di riproduzione della forza lavoro e quindi non remunerando il lavoro di cura e di riproduzione (non a caso molte donne se ne sono accorte e hanno iniziato a mobilitarsi anche per questo).
Il capitalismo ha bisogno incessantemente di ampliare i territori del suo sfruttamento e la natura ne costituisce un terreno privilegiato. Ai fini di mantenere i tassi di profitto tutto è recuperabile e utilizzabile, anche i rifiuti. Per questo, come ha evidenziato Daniel Tanuro, si è affermato un «capitalismo verde» in grado di trovare margini di profitti anche nei processi ecologici, ad esempio quelli tecnologici o quelli delle energie rinnovabili.
Il problema fondamentale, però, è che si contrappongono due realtà inconciliabili. Il capitalismo, per sua stessa natura, non può prevedere limiti, mentre la natura è invece finita. Il capitale, nella ricerca continua di margini di profitto, deve alimentare costantemente il suo processo di espansione e di crescita economica, l’unica che può garantire i ritorni attesi degli investimenti. È una legge intrinseca che provoca notevoli contraddizioni – disoccupazione crescente, scontri inter-capitalistici, guerre – tali da provocare quella «distruzione creatrice» di cui il capitale ha periodicamente bisogno per rigenerare se stesso. Ma la natura non può tollerare una produzione che tende all’infinito. Le risorse sono limitate e anche se vengono rigenerate dalle scoperte scientifiche o dalle nuove tecnologie, il processo è tendenzialmente contraddittorio e dunque esplosivo: se in passato il concetto di «crisi» di cui il capitalismo è imbevuto si è tradotto in guerre epocali, stavolta può rivolgersi nella piena distruzione del Pianeta.
Anche per questo motivo va fatta grande attenzione alle proposte di uscita dalla crisi ambientale. Il ricorso insistito alle nuove tecnologie, alle energie rinnovabili, al cosiddetto «capitalismo verde», può sembrare risolutivo solo in apparenza perché se non si mette in discussione la contraddizione tra la crescita illimitata e la finitezza delle risorse, si ripropongono da capo i termini del problema.
Non è questione di proclamare una astratta teoria della decrescita, quanto di rimettere in discussione il modo in cui si produce, cosa si produce, i meccanismi di consumo – altamente dipendenti dal processo di realizzazione del valore – un sistema che sembra senza vie d’uscita accettabili dall’umanità nel suo complesso.
Se c’è un elemento che accomuna le grandi mobilitazioni in corso è proprio questa intuizione balenata nelle coscienze dei più giovani e delle più giovani. La percezione netta dell’inconciliabilità tra il proprio bisogno di futuro e il futuro che il sistema attuale è in grado di offrire. Il movimento Fridays For Future sembra riecheggiare il Walter Benjamin delle Tesi sul concetto di storia che non a caso il filosofo e storico Michael Löwy, indica come «precursore dell’ecosocialismo»: «Marx – scrive Benjamin – dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia del mondo. Forse le cose sono diverse. Forse le rivoluzioni sono l’atto con cui l’umanità che viaggia in un treno lanciato tira il freno di emergenza». L’immagine suggerisce, annota Löwy, «che se l’umanità permette al treno di seguire il suo percorso – già tracciato dalla struttura in acciaio ferroviario – e che nulla ferma la sua progressione, noi precipiteremo direttamente nel disastro, o in un abisso».
La gioventù che si riconosce in Greta ha visto nella giovane ragazza svedese la nuova Cassandra che avverte del «pericolo d’incendio» (ancora Benjamin) e che rivendica il diritto di spegnerlo.
Il dibattito interno al movimento è appena iniziato e le varie inclinazioni, come mostriamo nell’articolo introduttivo del numero della rivista, sono solo all’inizio del loro confronto. Esiste certamente una dinamica di convivenza con il sistema attuale e che cercherà di affidarsi ai vari piani «green» che da un po’ di tempo vengono promessi da soggetti improbabili come la Commissione europea o, magari, il Fondo monetario. Anche il nuovo governo Conte si è assegnato un compito ecologico promettendo un «Green New Deal» sulla scia di quanto stanno facendo da tempo soggetti molto più credibili come i Democratic socialist of America negli Stati uniti. Queste promesse rischiano di creare molte delusioni, pari solo alle illusioni che potranno generare. Ma rappresentano, allo stesso tempo, anche dei varchi in cui la mobilitazione generale può incunearsi. Sono prove viventi del fatto che la domanda di un «freno di emergenza» è corretta e va mantenuta fino in fondo. Sapendo, allo stesso tempo, che una visione più radicale si impone e che quello che nel linguaggio anglosassone viene definito «ecosocialismo» è una necessità non rinviabile.
La questione ecologica, del resto, viene sbandierata come priorità dalla stessa Commissione europea che punta a investire decine di miliardi in programmi in larga parte funzionali alla strategia della Germania – che proprio nel mese di settembre ha intenzione di presentare il suo piano «green» – e certamente interni alla strategia del «capitalismo verde». È la stessa Commissione che contemporaneamente vara un commissario all’immigrazione definendolo a «difesa del nostro stile europeo di vita» o comunque quella che da decenni ribadisce politiche economiche monetariste e rigoriste.
Nondimeno queste strategie rappresentano il segno di un mutamento in corso, in parte un modo per blandire il consenso, oltre che una necessità intrinseca di strutturare tutte le potenzialità per l’accumulazione. Ma proprio perché assistiamo a una ubriacatura «green» occorre avere idee chiare e capacità di affermare posizioni credibili e avanzate, obiettivi raggiungibili ma in grado di mettere quanta più sabbia possibile nell’ingranaggio.
Occorre un orizzonte largo in cui c’è la costituzione, anche legislativa, in «beni comuni» delle risorse naturali; la socializzazione del settore energetico per condurre sul serio una politica di uscita dall’energia fossile o evitare pericolosi ritorni del nucleare e puntare con decisione alle energie rinnovabili; la commistione tra politiche ecologiche e politiche sociali; un settore agroalimentare da sottrarre all’industrializzazione e alla grande distribuzione; una revisione del settore produttivo attraverso scelte democratiche e collettivamente definite; la modifica dei rapporti tra città e campagne; la difesa dei bisogni espressi dalle donne; la fine della gestione delle città come terreno per realizzare profitti (gentrificazione e urbanizzazione massiva). E poi delineare un programma più immediato, ambito su cui il movimento ecologista, o quello contro le Grandi opere – che vanno di pari passo come ha efficacemente illustrato Wu Ming 1 – o, ancora, quello per un’agricoltura sostenibile, hanno le idee abbastanza chiare . Un «Green New Deal» credibile (dal «New Deal» di Roosevelt) non è una serie di piccoli incentivi verdi, come li abbiamo conosciuti negli ultimi decenni, ma un progetto di investimenti pubblici che modifichi in profondità la nostra società. L’emergenza è tale da richiedere uno sforzo massiccio da parte dell’intera società, una drastica conversione del nostro intero sistema economico. Un’occasione storica per ripensare in profondità le politiche energivore e antisociali del neoliberismo sul lavoro, sulla casa, sulla mobilità e un passaggio per rimettere in discussione il capitalismo stesso: giustizia ambientale e giustizia sociale possono e devono andare di pari passo.
Ma gli obiettivi indicati e il bisogno di raggiungere condizioni ecosostenibili per tutto il Pianeta si scontrano con la sproporzione delle forze in campo, con le difficoltà accumulate da sconfitte storiche, con la necessità di agire in modo coordinato e democratico su scala internazionale. Il movimento Fridays For Future ha indicato una strada, la mobilitazione e la partecipazione a livello planetario e su quella occorre proseguire. Aver fissato la soglia di pericolosità del riscaldamento climatico a 1,5° è un punto di riferimento importante per marciare con determinazione sapendo però che le forze che spingeranno per preservare l’attuale modello produttivo e di consumo non molleranno facilmente. Ad esempio alimentando divisioni e contrapposizioni sbagliate, come quelle dei lavoratori del settore produttivo e i giovani in piazza, o tra le rivendicazioni delle donne e dei migranti e quelli dei lavoratori in generale.
La lotta per un clima giusto, per un pianeta ecosostenibile richiede una grande alleanza, la più ampia possibile. Non richiede la costituzione di «partiti verdi», per quanto le scadenze elettorali possano dare forza alle nostre istanze e per quanto sia assolutamente urgente che le rivendicazioni del movimento invadano il campo istituzionale e diventino politica di governo. Occorrono reti, coalizioni ecologiche, capaci di attraversare il mondo della produzione, della riproduzione sociale, del consumo. Di collegare tra loro generazioni e generi diversi, popolazioni distanti, nord e sud del mondo.
Un lavoro importante, di lungo periodo anche se il tempo a disposizione non è molto. Come Jacobin Italia vogliamo impegnarci in questo lavoro, mettere a disposizione spazi e competenze per far crescere coalizioni e alleanze. La realizzazione di questo numero è già uno strumento che va in questa direzione e le tante presentazioni che ci accingiamo a fare hanno la stessa ambizione. Vogliamo contribuire a tirare il freno di emergenza contro la catastrofe incombente, convinti e convinte che, proprio perché su questo terreno è impegnata «la meglio gioventù», ce la possiamo fare.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
Il nuovo numero di Jacobin Italia ha un'ambizione: produrre riflessione al servizio di una mobilitazione permanente. Fornire competenze e spazi per far crescere coalizioni ecosocialiste capaci di incidere sull'agenda politica
Per questo vogliamo presentarlo con una riflessione straordinaria, appunto, che inviti a un’attenzione significativa, a una mobilitazione permanente, come già i giovani e le giovani di Fridays For Future hanno cominciato a fare, e per le quali vogliamo mettere a disposizione la nostra rivista.
Leggi l’editoriale e il sommario del n. 4 di Jacobin Italia.
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