Il
sistema si è inceppato. La crisi dell’Occidente capitalistico ha il suo
fulcro negli Stati Uniti e il suo corollario principale in Germania.
Entrambe hanno perseguito per decenni un modello di crescita basato sui
rapporti di forza – economici e commerciali – e sul “minimo sforzo” per
le imprese nazionali.
Il
modello statunitense ha visto lo Stato federale, il più potente del
mondo e senza avversari dopo la caduta dell’Urss, mettersi al servizio
degli interessi delle multinazionali con base negli States e della
finanza speculativa, che aveva il suo baricentro in Wall Street.
L’effetto,
stranoto, è stato duplice: le multinazionali hanno tutte delocalizzato
al massimo la produzione materiale, mantenendo “in patria” soltanto i
centri di ricerca (ma neanche quelli del tutto);
mentre la finanza, dopo
aver incassato da Bill Clinton l’abolizione del Glass-Steagall Act (che
vietava dagli anni ‘30 la commistione tra banche commerciali e banche
d’affari), ha dato vita a una spettacolare stagione di “euforia
irrazionale” conclusasi con in grande botto del 2007-2008 e
l’ufficializzazione della crisi globale (e della “globalizzazione”).
La
Germania, invece, ha imposto a tutta Europa un modello “mercantilista”,
sagomando per questo anche i trattati dell’Unione Europea, basato sulla
compressione della domanda interna (in tutto il continente, tramite il
congelamento dei salari e la precarizzazione del lavoro) e la prevalenza
assoluta delle esportazioni. Viste le caratteristiche dei diversi
sistemi produttivi questo orientamento ha visto le multinazionali
tedesche in posizione di traino per tutta l’industria europea,
ridisegnando le filiere produttive e le catene del valore del Vecchio
Continente.
In
più, stante la centralità data al debito pubblico come criterio
fondamentale per valutare la stabilità finanziaria dei vari Stati della
Ue, la Germania ha potuto per un paio di decenni rifinanziare quasi a
gratis il proprio debito pubblico, mentre altri paesi (Italia, Spagna,
Grecia, Portogallo, ecc) dovevano comprimere quote di spesa (sociale o
per investimenti) per sostenere il peso enorme degli interessi da pagare
in base allo spread.
Ora, da qualche anno, entrambi i modelli sono arrivati al capolinea.
Soprattutto
negli Stati Uniti la situazione sociale è diventata insostenibile, con
100 milioni di senza lavoro che soltanto criteri statistici furbetti
riescono a malapena a nascondere: con
5 milioni di “disoccupati ufficiali” in quanto alla ricerca di un
lavoro, e 95 milioni di “scoraggiati” che neanche lo cercano più.
Una popolazione così enorme di poveri e poverissimi certo non può dare
un grande contributo alla domanda interna, visto che non può proprio
consumare.
Gli
Usa di Trump hanno provato a ridarsi una “protezione” dell’industria
nazionale aprendo la guerra dei dazi (e delle monete), sia nei confronti
della Cina che, in modo più sfumato, della Germania (e di tutta la Ue).
Ma i primi dati messi a disposizione da Moody’s, dopo quasi due anni di
minacce e atti formali, restituiscono un quadro contrario: 300.000
posti di lavoro persi, nel manifatturiero Usa, a causa dell’aumento dei
costi susseguenti al dover sostituire fornitori cinesi con altri
“patriottici”.
Far
ripartire un “mercato nazionale”, per quanto ampio come quello yankee, è
molto più difficile di quanto un nazionalista stupido possa supporre.
Ma se non ci riesci, emerge con molta più nettezza la tua fragilità
complessiva. E la tua leadership mondiale appare davvero immotivata, o
almeno in via di superamento. Anche se hai un sacco di armamenti, devi
ridurre la tua scala di intervento (e vai via dall’Iraq,
dall’Afghanistan, licenzi i consiglieri più guerrafondai come John
Bolton, ecc).
In
Europa, e soprattutto in Germania, la situazione è meno tragica ma
altrettanto critica. Un “nuovo modello”, più attento al mercato interno,
potrebbe partire solo se ci si decidesse a spendere quel surplus
ventennale in investimenti, aumentando i salari per ricreare una domanda
interna (tagliando un po’ i profitti delle imprese, non con i soldi
dello Stato come con il “taglio del cuneo fiscale”), ricostruendo il
welfare demolito dalle politiche di austerità.
Ma
questo richiederebbe una unità di intenti – tra Stati nazionali,
sistemi di imprese, movimenti politici di alto profilo, “statisti” di
livello, ecc – di cui non si vede invece traccia. L’Unione Europea è una
macchina orientata dalla competizione interna a vantaggio dei membri
più forti, che non trovano motivo – neanche nella crisi – di rinunciare
al proprio vantaggio a favore del “benessere comune”.
Il resto del mondo capitalistico viaggia su altri binari.
La
Russia riscopre tardivamente i “piani quinquennali” sovietici: nel
periodo 2019-2024 i progetti del piano prevedono un investimento di ben
400 miliardi di dollari tra risorse del bilancio federale ed
investimenti esteri. Raddoppio delle esportazioni di prodotti agricoli
ed alimentari, dimezzamento del numero di cittadini russi in condizione
di povertà, miglioramento complessivo dell’accessibilità alle cure
sanitarie (fissando l’obiettivo di almeno un controllo medico annuale
per ognuno dei 140 milioni di cittadini della Federazione Russa). Sono
solo alcuni degli obiettivi fissati dal piano che, a livello generale,
si inserisce pienamente nella strategia di integrazione euroasiatica sostenuta da Mosca.
Ancora
più radicale – per dimensione degli interventi e capacità di mobilitare
risparmio – l’iniziativa cinese. Non paghi di aver fatto decollare i
redditi con il continuo aumento dei salari, drastici sgravi fiscali in
busta paga, stamattina il premier cinese Li Keqiang ha “evidenziato
l’assoluta necessità di garantire un ulteriore miglioramento della vita
del popolo, così da rispondere alle sue preoccupazioni”. Tra le misure,
l’immediato varo dei rimborsi per l’assicurazione medica per
l’ipertensione e il diabete dei residenti urbani e rurali, riducendo
l’onere finanziario per centinaia di milioni di pazienti, e la
promozione dell’”integrazione tra le cure mediche e l’assistenza agli
anziani, in modo da soddisfare meglio le esigenze sanitarie di questi
ultimi”.
In pratica, il ritorno pieno pieno alla sanità pubblica e gratuita per tutti, almeno fino a una certa soglia di reddito.
Il
tutto con l’obiettivo di potenziare al massimo il mercato interno in
una congiuntura di rallentamento del commercio mondiale, dovuto anche
alla “guerra dei dazi”.
La
differenza tra i vari continenti si può vedere, quasi toccare, mettendo
in campo i numeri. Se hai un miliardo e 400 milioni di persone che ti
fanno il “mercato interno”, in via di rapidissimo sviluppo, chi ha
puntato tutto sulla depressione competitiva del proprio – Usa e
Germania-Ue – non ha molte speranze di competere al meglio…
Nessun commento:
Posta un commento