“Il lavoro c’è e ci sarà, ma mancano i lavoratori“. Inizia così l’ennesimo sproloquio che prova a spiegarci come la disoccupazione sia una mera ma ineluttabile colpa dei disoccupati stessi. Dopo Confindustria, De Bortoli e
compagnia cantante, è toccato nei giorni scorsi a Giuseppe Bono,
Amministratore delegato di Fincantieri, in un suo intervento in un
convegno organizzato dalla CISL sul futuro del lavoro.
Non
è la prima volta che affrontiamo il tema, ma se la retorica padronale
continua, opportunisticamente, a diffondere questo veleno, a noi non
resta che perseverare.
Come abbiamo già sottolineato e continueremo a
fare, infatti, i dati ci dicono tutt’altro:
i posti vacanti, ovvero le posizioni lavorative aperte occupabili dai
disoccupati, sono una goccia nell’oceano della disoccupazione.
Il lavoro
non c’è, poiché l’economia italiana è sfiancata da anni di austerità.
Tutto il resto sono chiacchiere intrise di malafede.
Ma andiamo con ordine.
Il
discorso di Giuseppe Bono è la solita sequela di lamentele: offriamo
lavori pagati più che lautamente ma non troviamo competenze adeguate, il
comportamento dei giovani è incomprensibile, e segno di un cambiamento
culturale avverso all’etica del lavoro. L’azienda è in crescita,
cresciamo al 10% annuo e serviranno 6.000 lavoratori tra carpentieri
saldatori che non riusciamo a trovare e via borbottando.
Nel
discorso di Bono c’è però un salto di qualità. Alla solita retorica
arrogante si unisce la beffa, una beffa che trasuda odio di classe.
Abbiamo già sentito parlare di giovani choosy e fannulloni, ma che questo atteggiamento pretenzioso potesse essere rappresentato dalla libera scelta (sic) “di accontentarsi di fare il rider a 500/600 euro”, no. Questa ignominiosa e baldanzosa tesi non l’avevamo ancora ascoltata.
Che
privilegio possa esservi nello svolgere uno dei lavori più precari e
mal pagati (a cottimo), privo di qualsiasi tutela e rischioso ,anche dal
punto di vista della sicurezza personale, non ci è dato sapere. Non
basta più neanche dire il falso. Si arriva ad ingiuriare un’intera generazione di sfruttati, definiti schizzinosi, incompetenti e così ignavi da lasciarsi sfruttare nel trasporto di cibo a domicilio anziché andare a fare i carpentieri alla Fincantieri.
Naturalmente,
la notizia rimbalza sui quotidiani in maniera acritica, senza che
emerga alcun quesito dubbioso sulla natura delle affermazioni del dr.
Bono. L’a.d. di Fincantieri afferma, tra le altre cose, che la sua
azienda paga un salario medio di 1.600 euro, accusando i giovani di non
avere l’intraprendenza e la competenza di svolgere le mansioni di cui
Fincantieri avrebbe bisogno.
Dimentica, Bono, di dire che il salario di ingresso
di un giovane lavoratore è infinitamente più basso, così come finge di
ignorare che un enorme numero di lavoratori risultano in subappalto ad
altre imprese e quindi non ricevono neanche il salario da Fincantieri.
Come ricorda Roberto D’Andrea, sindacalista della Fiom-Cgil: “in
questi anni, grazie anche al rilancio produttivo dell’azienda, si sono
formati migliaia di lavoratori che operano in appalto e in subappalto
per Fincantieri, spesso con condizioni nettamente inferiori ai 1.600
euro promessi dall’amministratore delegato Giuseppe Bono. Per rispondere
alla richiesta di personale comunicata oggi dall’a.d. Bono si può
attingere, in primo luogo, a questo enorme bacino già professionalizzato”.
È
inutile ricordare, poiché tristemente noto, come più volte le ditte
appaltatrici di Fincantieri si siano trovate al centro di proteste per i
diritti negati ai lavoratori e gli stipendi da fame, con i sindacati
arrivati a denunciare casi di caporalato.
La
cosa più sconcertante e indignante delle prediche di padroni e manager è
che provengono da personaggi che ogni mese si portano a casi profitti o
stipendi d’oro che eccedono di centinaia di volte lo stipendio di
qualsiasi lavoratore. Il predicatore Bono è uno dei manager più pagati
in Italia (1,039 milioni) e il suo compenso è stato ritoccato al rialzo
nel 2017, scatenando non poche critiche e polemiche.
Vorremmo
evitare di doverci soffermare ancora sulla fantomatica legge della
domanda e dell’offerta. Notiamo solo, per amor di rigore logico, che
quando si tratta di tagliare i salari, con il miraggio di aumentare per
questa via l’occupazione, quella legge viene sempre invocata; viene,
invece, sempre dimenticata non appena una (fantomatica) impresa ha
desiderio di assumere lavoratori e non ne trova, e non ricorda che un
qualsiasi testo standard di economia mainstream le raccomanderebbe di offrire un salario più alto.
Quello
che ci preme davvero in questa sede è contribuire a smontare questa
assurda retorica del “lavoro che c’è ma i lavoratori no”. Essa è,
infatti, uno strumento utile ad instillare il dubbio – rimbalzata com’è
da tutta la stampa e la comunicazione padronale – che ci sia un problema
di disoccupazione da offerta, che riguarda esclusivamente il lavoratore
e che quindi, in fin dei conti, sia una responsabilità individuale.
È
una retorica martellante e pervicace che mira a spuntare le frecce del
mondo del lavoro e di una politica economica progressiva, orientata alla
piena occupazione. Una retorica entusiasticamente abbracciata anche dal
Governo Italiano, in linea con gli indirizzi generali di politica
economica impostisi da ormai 30 anni.
A
ennesima conferma della continuità nel solco liberista, arrivano le
parole del Ministro Di Maio, il quale si è affannato a garantire a
Fincantieri il sostegno di Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive
Lavoro) nella formazione dei lavoratori e per “colmare il gap tra domanda e offerta di lavoro”.
Come
vediamo, quando i nodi vengono al pettine si capisce come il lessico
liberista abbia un posto privilegiato nei cuori dei gialloverdi e come
la necessità di politiche espansive, che rilancino consumi e
investimenti, sia ormai sempre più un tabù interiorizzato da tutta la
classe politica.
Il
problema del lavoro, in Italia e in Europa, ha purtroppo tutt’altra
natura e tutt’altre dimensioni rispetto a quello che le volgari teorie e
narrazioni di padroni, manager strapagati e governo possano spiegare.
Secondo i dati Istat, a maggio del 2019 c’erano in Italia 2 milioni e
580 mila disoccupati. In un anno, rispetto al Maggio del 2018, sono
stati recuperati meno di 200 mila posti. Il tasso di disoccupazione, nel
primo trimestre del 2019, è stato pari al 10,4% con le donne (11,5%) e i
giovani nella classe d’età 15-24 (31,9%) particolarmente colpiti dal
fenomeno.
Andando
a guardare le differenze territoriali, inoltre, il quadro diventa
drammatico e particolarmente fosche sono le tinte del mercato del lavoro
del Sud Italia. Ad un tasso di disoccupazione medio del Nord e del Nord
Est del Paese, pari rispettivamente al 6.8% e al 6.0%, fa da
contraltare il Mezzogiorno dove il tasso di disoccupazione è più che
doppio (19,4%) con punte del 24,3% in Calabria.
Dall’altro
lato, i dati aggiornati sui posti vacanti, seppur lievemente in
aumento, ci parlano di circa 300.000 posizioni lavorative aperte presso
le imprese. Una goccia talmente piccola nell’oceano della disoccupazione
che chi sostiene che il problema sia il miss-match, ovvero la discrasia
tra domanda ed offerta di lavoro, assomiglia a chi vuole svuotare il
mare con un bicchiere.
Ma
non c’è una velleitaria e ottimistica utopia in questo gesto. Dietro
queste tesi risiede soltanto la volontà di perpetuare le condizioni di
sfruttamento e precarietà dei lavoratori, addossando loro la
responsabilità della propria condizione.
Negare la natura sistemica
della disoccupazione come circostanza dovuta alla carenza strutturale
della domanda aggregata, infatti, non soltanto funge da artificio
retorico di colpevolizzazione del lavoratore, ma occulta scientemente le
vere cause di un fenomeno che chi detiene le redini del potere
economico desidera che si perpetui indefinitamente, in quanto strumento
di disciplina del lavoro, della conflittualità sindacale e di
contenimento dei salari.
Niente
di più di un’impalcatura ideologica avallata e foraggiata da un blocco
di potere socio-economico, di cui vecchi e nuovissimi personaggi
politici sono emanazione diretta, che ha costruito odiose e reazionarie
politiche di austerità garantendo piena continuità al programma di
compressione dei diritti del lavoro a beneficio dei profitti di pochi.
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