lunedì 15 luglio 2019

Viaggio nel mondo immaginario dei padroni, dove il lavoro abbonda ma i lavoratori si scansano.

Il lavoro c’è e ci sarà, ma mancano i lavoratori“. Inizia così l’ennesimo sproloquio che prova a spiegarci come la disoccupazione sia una mera ma ineluttabile colpa dei disoccupati stessi. Dopo Confindustria, De Bortoli e compagnia cantante, è toccato nei giorni scorsi a Giuseppe Bono, Amministratore delegato di Fincantieri, in un suo intervento in un convegno organizzato dalla CISL sul futuro del lavoro.


Non è la prima volta che affrontiamo il tema, ma se la retorica padronale continua, opportunisticamente, a diffondere questo veleno, a noi non resta che perseverare. 
Come abbiamo già sottolineato e continueremo a fare, infatti, i dati ci dicono tutt’altro: i posti vacanti, ovvero le posizioni lavorative aperte occupabili dai disoccupati, sono una goccia nell’oceano della disoccupazione. 
Il lavoro non c’è, poiché l’economia italiana è sfiancata da anni di austerità. Tutto il resto sono chiacchiere intrise di malafede.
Ma andiamo con ordine.
Il discorso di Giuseppe Bono è la solita sequela di lamentele: offriamo lavori pagati più che lautamente ma non troviamo competenze adeguate, il comportamento dei giovani è incomprensibile, e segno di un cambiamento culturale avverso all’etica del lavoro. L’azienda è in crescita, cresciamo al 10% annuo e serviranno 6.000 lavoratori tra carpentieri saldatori che non riusciamo a trovare e via borbottando.

Nel discorso di Bono c’è però un salto di qualità. Alla solita retorica arrogante si unisce la beffa, una beffa che trasuda odio di classe. Abbiamo già sentito parlare di giovani choosy e fannulloni, ma che questo atteggiamento pretenzioso potesse essere rappresentato dalla libera scelta (sic) “di accontentarsi di fare il rider a 500/600 euro”, no. Questa ignominiosa e baldanzosa tesi non l’avevamo ancora ascoltata.
Che privilegio possa esservi nello svolgere uno dei lavori più precari e mal pagati (a cottimo), privo di qualsiasi tutela e rischioso ,anche dal punto di vista della sicurezza personale, non ci è dato sapere. Non basta più neanche dire il falso. Si arriva ad ingiuriare un’intera generazione di sfruttati, definiti schizzinosi, incompetenti e così ignavi da lasciarsi sfruttare nel trasporto di cibo a domicilio anziché andare a fare i carpentieri alla Fincantieri.
Naturalmente, la notizia rimbalza sui quotidiani in maniera acritica, senza che emerga alcun quesito dubbioso sulla natura delle affermazioni del dr. Bono. L’a.d. di Fincantieri afferma, tra le altre cose, che la sua azienda paga un salario medio di 1.600 euro, accusando i giovani di non avere l’intraprendenza e la competenza di svolgere le mansioni di cui Fincantieri avrebbe bisogno.
Dimentica, Bono, di dire che il salario di ingresso di un giovane lavoratore è infinitamente più basso, così come finge di ignorare che un enorme numero di lavoratori risultano in subappalto ad altre imprese e quindi non ricevono neanche il salario da Fincantieri.
Come ricorda Roberto D’Andrea, sindacalista della Fiom-Cgil: “in questi anni, grazie anche al rilancio produttivo dell’azienda, si sono formati migliaia di lavoratori che operano in appalto e in subappalto per Fincantieri, spesso con condizioni nettamente inferiori ai 1.600 euro promessi dall’amministratore delegato Giuseppe Bono. Per rispondere alla richiesta di personale comunicata oggi dall’a.d. Bono si può attingere, in primo luogo, a questo enorme bacino già professionalizzato”.
È inutile ricordare, poiché tristemente noto, come più volte le ditte appaltatrici di Fincantieri si siano trovate al centro di proteste per i diritti negati ai lavoratori e gli stipendi da fame, con i sindacati arrivati a denunciare casi di caporalato.
La cosa più sconcertante e indignante delle prediche di padroni e manager è che provengono da personaggi che ogni mese si portano a casi profitti o stipendi d’oro che eccedono di centinaia di volte lo stipendio di qualsiasi lavoratore. Il predicatore Bono è uno dei manager più pagati in Italia (1,039 milioni) e il suo compenso è stato ritoccato al rialzo nel 2017, scatenando non poche critiche e polemiche.
Vorremmo evitare di doverci soffermare ancora sulla fantomatica legge della domanda e dell’offerta. Notiamo solo, per amor di rigore logico, che quando si tratta di tagliare i salari, con il miraggio di aumentare per questa via l’occupazione, quella legge viene sempre invocata; viene, invece, sempre dimenticata non appena una (fantomatica) impresa ha desiderio di assumere lavoratori e non ne trova, e non ricorda che un qualsiasi testo standard di economia mainstream le raccomanderebbe di offrire un salario più alto.
Quello che ci preme davvero in questa sede è contribuire a smontare questa assurda retorica del “lavoro che c’è ma i lavoratori no”. Essa è, infatti, uno strumento utile ad instillare il dubbio – rimbalzata com’è da tutta la stampa e la comunicazione padronale – che ci sia un problema di disoccupazione da offerta, che riguarda esclusivamente il lavoratore e che quindi, in fin dei conti, sia una responsabilità individuale.
È una retorica martellante e pervicace che mira a spuntare le frecce del mondo del lavoro e di una politica economica progressiva, orientata alla piena occupazione. Una retorica entusiasticamente abbracciata anche dal Governo Italiano, in linea con gli indirizzi generali di politica economica impostisi da ormai 30 anni.
A ennesima conferma della continuità nel solco liberista, arrivano le parole del Ministro Di Maio, il quale si è affannato a garantire a Fincantieri il sostegno di Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro) nella formazione dei lavoratori e per “colmare il gap tra domanda e offerta di lavoro”.
Come vediamo, quando i nodi vengono al pettine si capisce come il lessico liberista abbia un posto privilegiato nei cuori dei gialloverdi e come la necessità di politiche espansive, che rilancino consumi e investimenti, sia ormai sempre più un tabù interiorizzato da tutta la classe politica.
Il problema del lavoro, in Italia e in Europa, ha purtroppo tutt’altra natura e tutt’altre dimensioni rispetto a quello che le volgari teorie e narrazioni di padroni, manager strapagati e governo possano spiegare. Secondo i dati Istat, a maggio del 2019 c’erano in Italia 2 milioni e 580 mila disoccupati. In un anno, rispetto al Maggio del 2018, sono stati recuperati meno di 200 mila posti. Il tasso di disoccupazione, nel primo trimestre del 2019, è stato pari al 10,4% con le donne (11,5%) e i giovani nella classe d’età 15-24 (31,9%) particolarmente colpiti dal fenomeno.
Andando a guardare le differenze territoriali, inoltre, il quadro diventa drammatico e particolarmente fosche sono le tinte del mercato del lavoro del Sud Italia. Ad un tasso di disoccupazione medio del Nord e del Nord Est del Paese, pari rispettivamente al 6.8% e al 6.0%, fa da contraltare il Mezzogiorno dove il tasso di disoccupazione è più che doppio (19,4%) con punte del 24,3% in Calabria.
Dall’altro lato, i dati aggiornati sui posti vacanti, seppur lievemente in aumento, ci parlano di circa 300.000 posizioni lavorative aperte presso le imprese. Una goccia talmente piccola nell’oceano della disoccupazione che chi sostiene che il problema sia il miss-match, ovvero la discrasia tra domanda ed offerta di lavoro, assomiglia a chi vuole svuotare il mare con un bicchiere.
Ma non c’è una velleitaria e ottimistica utopia in questo gesto. Dietro queste tesi risiede soltanto la volontà di perpetuare le condizioni di sfruttamento e precarietà dei lavoratori, addossando loro la responsabilità della propria condizione.
Negare la natura sistemica della disoccupazione come circostanza dovuta alla carenza strutturale della domanda aggregata, infatti, non soltanto funge da artificio retorico di colpevolizzazione del lavoratore, ma occulta scientemente le vere cause di un fenomeno che chi detiene le redini del potere economico desidera che si perpetui indefinitamente, in quanto strumento di disciplina del lavoro, della conflittualità sindacale e di contenimento dei salari.
Niente di più di un’impalcatura ideologica avallata e foraggiata da un blocco di potere socio-economico, di cui vecchi e nuovissimi personaggi politici sono emanazione diretta, che ha costruito odiose e reazionarie politiche di austerità garantendo piena continuità al programma di compressione dei diritti del lavoro a beneficio dei profitti di pochi.

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