martedì 18 giugno 2019

Classe dirigente. Delocalizzare nuoce gravemente alla salute (dei lavoratori).

Nei giorni scorsi, la multinazionale Unilever ha aperto le procedure di licenziamento di 76 lavoratori dello stabilimento di Sanguinetto, in provincia di Verona. L’azienda ha deciso di delocalizzare la produzione del dado Knorr, che precedentemente aveva luogo in quello stabilimento, in Portogallo. 
 
Negli stessi giorni la Whirlpool, multinazionale statunitense di elettrodomestici ha dichiarato di voler lasciare gli stabilimenti di Napoli per delocalizzare in Polonia lasciando per strada oltre 400 lavoratori!
Queste notizie drammatiche hanno acceso i riflettori su un fenomeno, quello delle delocalizzazioni, sempre di più all’ordine del giorno. 
Per capire le ragioni per cui avvengono le delocalizzazioni, dobbiamo andare al di là della retorica neoliberista, in base alla quale il fenomeno in questione, fornendo un incentivo per i policy-maker affinché ammodernino le proprie economie, sarebbe senz’altro salutare. 
In realtà, come vedremo, le delocalizzazioni non sono altro che uno degli strumenti attraverso i quali si esercita lo sfruttamento non solo dei lavoratori, ma anche dell’ambiente.

Ma facciamo un passo indietro e chiediamoci in cosa consista una delocalizzazione.
Con questo termine si designa il fenomeno per il quale le imprese di un determinato paese trasferiscono la produzione, o parti di essa, in un altro paese al fine di trarne un vantaggio. Un vantaggio, si intende, in termini di profitto – quindi limitato a chi ha la proprietà dell’impresa – e a scapito dei lavoratori, che subiscono il ricatto della delocalizzazione, essendo costretti ad accettare salari sempre più bassi e condizioni di lavoro sempre peggiori.
Si tratta di una delle armi più pericolose nell’arsenale del capitale: una freccia avvelenata che, dietro la retorica della “sana” competizione internazionale tra paesi che creerebbe efficienza e modernizzazione, mette in verità le economie in perenne concorrenza al ribasso, con effetti devastanti sui diritti sociali e del lavoro e sulle normative ambientali e fiscali.
Questo stesso veleno non inquina solamente le vite dei lavoratori e la convivenza tra i popoli, ma anche l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e la terra che utilizziamo. Quest’arma, a seguito del progressivo completamento del processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale, avviato negli anni Novanta e completato negli anni Duemila, è diventata sempre più letale, in quanto le opportunità di delocalizzazione si sono estese a tutti i paesi del mondo.

Sono tre le principali motivazioni delle delocalizzazioni.

Il primo movente è la ricerca, da parte dei padroni, di paesi caratterizzati da un minor livello di tutela dei lavoratori: un salario più basso e peggiori condizioni di lavoro garantiscono alle imprese più ampi margini di profitto. Questo fenomeno caratterizza il normale funzionamento dell’Unione Europea, laddove vige la completa libertà di movimento di capitali e merci.
Al tempo stesso, le leggi che tutelano il lavoro ed i livelli salariali sono molto differenti da paese a paese, creando marcati dislivelli tra le condizioni lavorative e, dunque, molteplici occasioni per trarre profitto dal trasferimento della produzione. Non è un caso che la Unilever abbia deciso di delocalizzare in Portogallo, un paese dipinto come modello dell’austerità che funziona, ma caratterizzato da salari reali decrescenti e da un’ampia diffusione del precariato.
Le regole europee, presentate come misure utili ad avvicinare i popoli, abbattendo confini e frontiere, finiscono al contrario per dividere i lavoratori, creando tra questi una sfrenata competizione al ribasso e alimentando, dunque, artificiosamente la pericolosa percezione di un conflitto di interessi interno alla classe lavoratrice, a tutto vantaggio dei movimenti di estrema destra che di xenofobia si alimentano.
La possibilità di delocalizzare, inoltre, crea pressione sui governi dei vari paesi affinché questi ultimi, per attirare investimenti, creino condizioni fiscali sempre più vantaggiose a favore del capitale. In condizioni di libertà di movimento dei capitali, infatti, è difficile stabilire imposte elevate sulle imprese.
Se il sistema impositivo risulta non gradito ai capitalisti, questi possono agevolmente delocalizzare la produzione. A quel punto lo Stato da cui il capitale migra o ne prende atto e subisce gli effetti negativi in termini di disoccupazione e di crollo del gettito fiscale; oppure abbassa la tassazione sul capitale inseguendo la concorrenza al ribasso sulle aliquote scontando comunque una diminuzione, presumibilmente ridotta, del gettito raccolto.
In entrambi i casi, a meno da non voler accettare un forte calo delle entrate fiscali, lo Stato reagirà aumentando le imposte sui lavoratori. Non è un caso che il peso dei tributi negli ultimi decenni si sia spostato massicciamente sulle spalle dei lavoratori, determinando un pesante effetto ridistribuivo dai salari ai profitti.
Laddove invece venga accettato il tracollo del gettito, ciò, laddove in presenza di stringenti vincoli di finanza pubblica, come nei paesi europei, comporterà una diminuzione della spesa pubblica e dello stato sociale che, come è noto, arreca benefici in primis alle classi sociali svantaggiate. In tutti i casi, quindi, la delocalizzazione produce un effetto regressivo sulla distribuzione del reddito nei paesi da cui il capitale migra anche tramite le scelte di finanza pubblica.
Il terzo motivo alla base delle delocalizzazioni produttive, molto simile al caso legato alla pressione tributaria, è connesso alle normative ambientali. Se un paese varasse leggi che limitano la possibilità di inquinare delle aziende, o aumentasse i controlli o magari facesse rispettare in maniera seria e rigorosa le leggi già in vigore, le industrie maggiormente inquinanti potrebbero delocalizzare la produzione in un altro paese meno attento alla tematica ambientale o troppo debole per poter far pesare l’interesse pubblico nei confronti del capitale.
È tristemente noto l’operato delle multinazionali nei paesi in via di sviluppo: corrompendo i governi o ricattandoli con la minaccia di una nuova delocalizzazione, riescono a produrre pagando salari da fame e inquinando praticamente senza alcun controllo. Ma se spostare la produzione in un altro continente può creare degli svantaggi e dei costi di transazione, spostarla in un altro paese UE, che gode di libertà di commercio dei prodotti senza barriere doganali, è molto comodo e profittevole.
È dunque evidente che tramite la libertà di movimento dei capitali e le delocalizzazioni si ottiene il duplice scopo di ricattare i governi dei paesi per evitare ogni traccia di regolamentazione e dall’altro quello di trovare sempre e comunque condizioni favorevoli al capitale e tassazione modesta, a costo di distruggere l’ambiente, i diritti del lavoro e la capacità degli Stati di disciplinare e regolamentare il sistema economico.
Il modello che è stato prospettato da decenni a livello europeo e globale e che si va sempre più consolidando è quello della competizione al ribasso sulla tutela dei lavoratori e dell’ambiente e sul carico fiscale che ricade sulle imprese.
I Trattati europei sono pieni di bellissime dichiarazioni di principio sulla tutela dell’ambiente (articoli 3 e 21 del Trattato sull’Unione Europea, TUE; articoli 11, 114, 191, 194 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, TFUE) ma nei fatti disegnano (articolo 63 del TFUE) un’architettura istituzionale fondata sulla libertà circolazione di capitali interna all’UE (assoluta) ed esterna (comunque molto avanzata), una libertà inconciliabile con il perseguimento della sostenibilità ambientale. Non si possono tutelare, insieme, il massimo profitto e l’ambiente, perché la tutela dell’ambiente ha dei costi che finirebbero per gravare sui profitti delle imprese.
Lasciando i capitali liberi di circolare alla ricerca delle migliori opportunità di guadagno, l’UE ha deciso di sacrificare l’ambiente sull’altare di un modello di sviluppo incentrato sul profitto, un sistema che scoraggia a priori qualsiasi forma seria ed efficace di tutela del lavoro e dell’ambiente.
La questione delle delocalizzazioni si pone così come uno degli esempi più fulgidi di come la lotta ambientalista e la lotta anticapitalista debbano essere la medesima lotta. Contrastare la libertà di movimento dei capitali e ripristinare il pieno controllo da parte degli Stati sulla regolamentazione dell’economia è il primo passo per contrastare sfruttamento e inquinamento e migliorare le nostre vite da tutti i punti di vista.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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