Nel
1919, praticamente un secolo fa, Benito Mussolini fondava il movimento
politico dei “Fasci di combattimento”. Emerso da un sentimento di
insoddisfazione nei confronti della classe dirigente liberale, percepita
e rappresentata come corrotta e insensibile alle esigenze popolari
(specialmente quelle del ceto medio), quel movimento scaricava tutto il
proprio risentimento sul più grande partito di massa dell’epoca, il
partito socialista.
La nascita e la forza d’attrazione dei Fasci
costituiscono un fenomeno che va inteso all’interno di un processo di
trasformazione epocale e internazionale, in pieno riassestamento
post-bellico, ma che in Italia assunse un volto particolare: la
fisionomia rigida e severa di Benito Mussolini, tanto solido nei muscoli
del volto quanto incerto e oscillante sul piano ideologico-politico.
Nel 2018 lo storico Emilio Gentile ha pubblicato per Laterza il libro Mussolini contro Lenin,
proponendosi di di svolgere una narrazione parallela di due parziali
biografie politiche, di due leader che su fronti opposti, ma negli
stessi anni, furono protagonisti del superamento di sistemi politici
consolidati fino alla prima guerra mondiale. In realtà, leggendo il
lavoro di Gentile, si ha la sensazione che l’intenzione originaria fosse
quella di lavorare a un saggio scientifico dedicato alla recezione e
rappresentazione della rivoluzione russa negli articoli di Mussolini e i
suoi collaboratori sul Popolo d’Italia. Prevale infatti questa
componente descrittiva, che costituisce poi il contributo più
interessante dal punto di vista storiografico. Le pagine dedicate alla
dimensione più strettamente biografica si risolvono in due ritratti
abbozzati. Più preciso quello di Mussolini, un po’ opaco il profilo di
Lenin. Ma si capisce subito la differenza vistosa tra un rivoluzionario
determinato come Lenin, armato di un apparato ideologico fin troppo
coerente e rigoroso, e l’irrequieto Mussolini, capace di agitare gli
animi dei propri seguaci, ma in fondo privo di una visione chiara e
lineare della società, dell’economia, della politica internazionale.
L’autore
prende le mosse dagli anni di Ginevra. Mussolini era un migrante
economico, come diremmo oggi, che conobbe le difficoltà del
sopravvivere, ma continuava a svolgere l’attività di agitatore politico
socialista anche in Svizzera, tra gli esuli socialisti di altre nazioni,
e frequentava assiduamente la Biblioteca universitaria, un luogo
praticato negli stessi mesi da Lenin, in fuga dalla Russia perché
individuato come pericoloso oppositore. L’incontro tra i due non è
improbabile che ci sia stato, ma che si siano anche parlati non è
un’ipotesi che trova riscontri.
Le
fonti utilizzate da Gentile sono prevalentemente riconducibili a
scritti di Mussolini o di personaggi a lui vicini, e ne emerge in modo
chiaro un’emozione dominante: un forte risentimento personale nei
confronti del Partito Socialista Italiano. Secondo Gentile, tale forma
di revanscismo doveva essere ricondotta alla sua espulsione dal partito.
Mussolini non avrebbe digerito la reazione dei compagni alla sua linea
interventista. Tuttavia, se proviamo ad accogliere la nota ipotesi di
Gaetano Salvemini, secondo la quale Mussolini avrebbe modificato il
proprio approccio politico da neutralista (rispetto alla guerra di
Libia), a interventista nella prima guerra mondiale, appena pochi anni
dopo, in virtù di un finanziamento mirato da parte francese, con lo
scopo di trascinare l’Italia nel conflitto a fianco dell’Intesa (si
sarebbe trattato di risorse economiche destinate alla fondazione di un
nuovo giornale, il Popolo d’Italia), saremmo costretti a rettificare la chiave di lettura.
Se
fosse fondata l’ipotesi di Salvemini, Mussolini avrebbe dovuto aver già
previsto la sua espulsione, e quindi il risentimento personale non
sarebbe legato a quell’episodio specifico. Più probabile invece che il
futuro duce fosse sinceramente animato da un’inquietudine attivistica
irrazionalista, e che sperasse di acquisire un ruolo chiave all’interno
del partito proprio in virtù di quella sua lettura della psicologia
delle folle. La sua amarezza personale pare dunque essersi mutata in
desiderio di vendetta dopo la maturata consapevolezza
dell’incompatibilità tra la sua vocazione a una leadership
movimentista e la più ossificata struttura organizzata del partito. Se
il partito non lo inseguiva, era dunque il partito a sbagliare, e non
lui a correre nella direzione errata. Forse questo tipo di sentimento
gli fece prestare ascolto alle probabili proposte francesi. Forse questa
dinamica emotiva lo trasformò in interventista. Forse fu questa,
infine, la ragione del suo odio insuperato per quelli che iniziò a
denominare i “leninisti d’Italia”.
Già
da socialista, o “anarco-socialista”, Mussolini fu sempre
antibolscevico. Quella formazione russa gli appariva un evidente fattore
di rischio nel quadro internazionale. I bolscevichi ponevano al primo
posto del proprio programma il ritiro della Russia dal conflitto
mondiale, e questo avrebbe favorito gli imperi centrali, a danno
dell’Italia. Ma al tempo stesso il direttore del Popolo d’Italia
non poteva simpatizzare in alcun modo per l’autarchia zarista. Pertanto,
il suo sostegno propagandistico era tutto per Kerenskij, e la
democratizzazione della Russia. La rivoluzione d’ottobre viene descritta
e percepita nel quotidiano mussoliniano come un colpo di mano voluto
dal governo tedesco, che avrebbe posto abilmente Lenin su un treno per
spedirlo nelle piazze russe ad agitare la seducente bandiera della pace.
Il momento rivoluzionario viene ridicolizzato. Le conseguenze
dell’Ottobre russo liquidate come dittatura morta sul nascere.
Mussolini
e i suoi giornalisti descrivono a più riprese le rivolte e le
manifestazioni contro il governo sovietico. Tuttavia pare sfuggirgli un
dato intuitivo per qualunque osservatore: i bolscevichi erano
inizialmente uno sparuto gruppo di intellettuali, operai e soldati. Se
non avessero avuto il sostegno delle masse russe sarebbero stati
rovesciati in pochi giorni. Forse in poche ore. E invece resistettero
alla controrivoluzione bianca, appoggiata dalle potenze occidentali, e
anche alle rivolte interne. Evidentemente ciò sarebbe stato impossibile,
soprattutto in un territorio come la Russia, senza un consenso
importante.
Lenin
pare invece ignorare quasi completamente la figura di Mussolini, o
almeno Gentile non riesce a trovare tracce significative della
considerazione sovietica per il progressivo affermarsi del movimento
fascista in Italia. Poche battute, qui e là, senza troppa attenzione.
L’aspetto
più istruttivo di questo libro consiste nella documentazione
dell’assoluta mancanza di un impianto ideologico-politico coerente in
Benito Mussolini. Quell’uomo animato da una profonda irrequietezza,
appare disponibile a repentini cambi di opinione, anche radicali, sulla
base del mutare delle circostanze. Anche il suo odio anti-bolscevico, un
sicuro punto fermo nel suo schema mentale, è rapidamente
controbilanciato dal precoce riconoscimento dello Stato Sovietico nelle
relazioni diplomatiche ed economiche con l’Italia (1924). Ma gli indizi
più clamorosi in questo senso sono legati alla questione
dell’antisemitismo.
Mussolini
non coltivava una visione biologistica delle differenze umane, ma
certamente serbava in sé un sentimento antisemita di tipo complottista,
basato sull’idea di una trama occulta delle organizzazioni ebraiche
internazionali per il controllo degli affari e della politica mondiale.
Nel 1919 Mussolini nei suoi articoli deduceva una connessione tra
bolscevismo ed ebraismo attraverso l’analisi di alcuni cognomi, fino ad
arrivare a esplicitare il proprio pensiero il 4 giugno del 1919,
scrivendo sul Popolo d’Italia: “grandi banchieri ebraici di
Londra e di New York, legati da vincoli di razza cogli ebrei che a Mosca
come a Budapest, si prendono una rivincita contro la razza ariana, che
li ha condannati alla dispersione per tanti secoli”, per poi aggiungere
uno strano sillogismo: “il bolscevismo è difeso dalla plutocrazia
internazionale. Questa è la verità sostanziale. La plutocrazia
internazionale dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse
supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo
processo di disintegrazione molecolare”.
Ne
emerge evidentemente una fragilità strutturale della capacità di
ragionamento politico di Mussolini, che si accompagna in modo
interessante a un’assoluta volubilità teorica. Come infatti emerge dalla
ricostruzione di Gentile, Donato Bachi, un ebreo che aveva collaborato
con il Popolo d’Italia, protestò garbatamente contro le uscite
del direttore, il quale, resosi conto del malcontento per il suo
manifesto antisemitismo (per ragioni articolate, che qui non è possibile
approfondire, occorre ricordare che ci fu inoltre un’importante
adesione di cittadini ebrei al movimento fascista), soltanto un anno
dopo Mussolini scrisse un nuovo articolo, precisando: “1. che il
bolscevismo non è un fenomeno ebraico, perché anche in Russia moltissimi
sono gli ebrei antibolscevichi; 2. che in ogni caso la notevole
partecipazione degli ebrei al bolscevismo russo si spiega con ragioni
storiche locali; 3. che il bolscevismo, avendo esasperato le correnti
antisemitiche in tutti i paesi, arreca grave danno agli ebrei”, per poi
concludere, parlando dell’Italia: “non conosce l’antisemitismo e
crediamo che non lo conoscerà mai”. Sappiamo tutti come è andata a
finire.
Si
dice spesso che le persone troppo affezionate alle proprie idee e
troppo fiduciose nei propri schemi mentali siano pericolose perché
illiberali. Forse è vero. Ma spesso, lo si potrebbe apprendere dalla
storia, assai più pericolose appaiono le inquiete forme di flessibilità
culturale, ideologica e morale.
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