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Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle
nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da
preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli
inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando
dalla crisi alla recessione. L’opinione pubblica ha talmente
interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (PIIGS)
e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore
e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da
percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico
neoliberista, il tatcheriano «TINA», there is no alternative.
Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a
quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati
speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra
politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati).
È la strada indicata dalla «virtuosa» Germania, esempio di disciplina e
rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un
po’ scostumati.
Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano?
Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da
spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.
Con un atto quasi univoco, cioè una semplice missiva all’allora
governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mette
fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il
proprio disavanzo. Rimuovendo l’obbligo allora vigente da parte di
Palazzo Koch di acquistare i titoli di Stato emessi sul mercato
primario, la Banca d’Italia dismette il ruolo di prestatrice di ultima
istanza. D’ora in poi, per finanziare la propria spesa pubblica,
l’Italia deve attingere ai mercati finanziari privati, con la
conseguente esplosione dei tassi d’interesse rispetto a quelli garantiti
in precedenza. Ma non solo: viene rivisto il meccanismo di
collocamento dei titoli di Stato, introducendo il cosiddetto «prezzo
marginale d’asta», che consente agli operatori finanziari di
aggiudicarsi i titoli al prezzo più basso tra quelli offerti e, quindi,
al tasso di interesse più alto. Ad esempio, se durante un’emissione di
50 miliardi di Btp, 40 vengono aggiudicati a un rendimento del 3%,
mentre il restante al 5%, alla fine tutti i 50 miliardi saranno
aggiudicati al 5%!
Gli effetti sono tanto disastrosi quanto immediati: l’ammontare di
debito, che nel 1981 era intorno al 58,5%, dopo soli tre anni raddoppia e
nel 1994 arriva al 121% del Pil. Come riportato dallo stesso Andreatta
alcuni anni dopo, questo stravolgimento strutturale era necessario per
salvaguardare i rapporti tra Unione europea e Italia, e per consentire
al nostro Paese di aderire allo Sme, ossia l’accordo precursore del
sistema Euro. Quando l’Italia fa il suo ingresso nell’Euro non risponde ai parametri del debito pubblico richiesti da Maastricht,
ma l’interesse politico e l’artefatto entusiasmo generale per la sua
partecipazione hanno la meglio. Sarà la crisi del 2008 a far emergere
tutti i limiti e la fallimentarietà di un’area valutaria non ottimale e
insostenibile come l’Eurozona: l’Italia, come altri Paesi, senza la
possibilità di ricorrere alla svalutazione del cambio, non riesce a
recuperare terreno. Il debito pubblico, che finora era rientrato in una
fase discendente, passa dal 102,4% al 131,8% del 2017. Una crescita
notevole, ma di gran lunga ridimensionata se paragonata all’incremento del debito pubblico di altri Paesi dell’area Euro, come Spagna, Portogallo e la stessa Francia.
Nello stesso arco temporale, infatti, Madrid ha visto il suo debito
pubblico schizzare dal 38,5% al 98,3%, il che significa un tasso
incrementale di circa il 150%! La crisi non ha risparmiato neanche il
vicino Portogallo, che è arrivato lo scorso anno a un livello del debito
molto vicino al nostro (125,7%), partendo da un «contenuto» 71,7% del
2008. Eppure i due Paesi iberici hanno sforato ripetute volte il
famigerato vincolo del 3% – parametro tanto assiomatico quanto infondato
–, permettendo così all’economia di tornare a crescere, a differenza di
quella italiana che si è incamminata nel percorso distruttivo
dell’austerity. Situazione analoga per la Francia, con un valore del
debito pubblico allo scoppiare della crisi inferiore del 70% e che oggi
si aggira intorno al 100%, ma senza che ciò le abbia impedito di
aumentare la spesa pubblica e il deficit di bilancio, assicurando in
questo modo la crescita del Pil.
Dunque, sintetizzando, il nostro famigerato debito pubblico è
sì più elevato, ma è partito da una situazione di evidente svantaggio,
ed è cresciuto in termini percentuali del tutto in linea con l’andamento
degli altri Paesi dell’Euro a seguito della crisi; anzi, anche
meno di altri, come abbiamo visto, e aggravato dalle politiche di
austerity, i cui effetti deprimenti sull’economia sono conclamati.
Rimane il problema dei tassi d’interesse (da cui il famigerato
spread), da noi più elevati che altrove, proprio a causa delle modalità
dei meccanismi di collocamento dei titoli di Stato introdotto a seguito
dell’epocale divorzio tra i due istituti finanziari italiani. È stato
stimato che in trent’anni abbiamo pagato la colossale cifra di 3mila
miliardi di interessi sul debito pubblico! In queste circostanze a nulla
valgono gli sforzi fiscali dell’Italia, che registra da quasi
trent’anni avanzo primario, ossia quella situazione, del tutto
antisociale, per cui lo Stato incassa più di quanto spende, esclusi gli
interessi sul debito pubblico. Per onerare il costo del debito, ossia
quell’assurda creazione del denaro dal denaro, vengono sottratte risorse
finanziarie per servizi pubblici e sostegno alla popolazione in
difficoltà. Dunque, una redistribuzione al contrario, dai cittadini ai mercati finanziari. Il tempo delle riforme è ormai improcrastinabile.
Ilaria Bifarini, da Il Primato Nazionale
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sabato 12 gennaio 2019
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