In quel periodo si verificarono due “riunificazioni”: quella della Germania (1990) e quella dei tassi di interesse dei Paesi membri con la nascita dell’Euro (1999). 
Entrambi gli eventi ebbero un impatto sui debiti.


Il primo cancellò quasi tutti i debiti tedeschi derivanti dalle riparazioni di guerra consentendo di evitare – come disse il cancelliere Kohl – il default della Germania (il terzo in un secolo) e di gestire i 1.500 miliardi di euro di costi della riunificazione della Germania, stima dell’Università libera di Berlino.

Il secondo agevolò il finanziamento dei debiti pubblici dei Paesi membri e allineò la loro spesa percentuale per interessi a quella tedesca.
Un effetto derivato dalle direttive europee che imponevano ex lege l’uguaglianza dei rischi dei titoli di Stato dell’Eurozona (i Govies) e da una Bce che conseguentemente non li discriminava nella sua operatività: de facto l’Eurozona operava come se i rischi fossero condivisi. D’altronde una valuta unica non può avere diversi tassi di interesse a meno di non voler creare tra gli Stati membri valute ombra con incontrollati effetti sperequativi socio-economici.

Per più di un quarto di secolo, quindi, princìpi come la solidarietà e il risk-sharing hanno fatto da propellente per il Pil dei Paesi della nostra area valutaria ed anche da collante sociale.

In questa prospettiva storica va riletta la provocatoria richiesta greca di metà 2015 di azzerare il proprio debito attraverso il rimborso, a valori attuali, dei quasi 280 miliardi di euro di prestito forzoso che la Grecia dovette pagare durante l’occupazione nazista. Una richiesta giuridicamente infondata di un governo messo alle corde e preoccupato dell’austerity che, imposta dalla Troika, stava mettendo di in ginocchio un Paese, senza risolverne i problemi, e dava la stura in Europa ai nazionalismi.
Il contributo dell’Italia alla cancellazione del debito tedesco
La decisione del 1990 non era peraltro la prima. Nel trattato di Parigi del 1947 all’Italia fu imposto di rinunciare ai crediti derivanti dai danni di guerra prodotti dalla Germania pari, a valori attuali, a circa 65 miliardi di euro di debito pubblico. Ciò, nonostante l’osservazione di De Gasperi che l’Italia negli ultimi 18 mesi di guerra fosse stata cobelligerante con i vincitori e che proprio in quel periodo avesse subito quei danni.
Poco dopo, con il trattato di Londra del 1953, il debito tedesco riveniente dai due conflitti mondiali fu dimezzato e dilazionato su più di 30 anni e i danni di guerra, circa 1.500 miliardi di dollari ai valori del 1990, furono congelati sino alla riunificazione.
Inoltre, per il debito dilazionato (quasi 300 miliardi a valori attuali), si stabilì che la restituzione, a rate annuali, avesse luogo solo in caso di eccedenza commerciale della Germania e cioè solo in presenza di risorse effettivamente disponibili, senza dover ricorrere a nuovi prestiti o utilizzare riserve di valuta estera.
Nota di colore: i pacchetti imposti oggi dalla Troika e dal six pack / fiscal compact ai Paesi debitori richiedono invece, incuranti di questo principio, rimborsi 10 volte quelli imposti a suo tempo alla Germania in termini di rapporto rispetto al totale delle esportazioni.

Il valore della solidarietà
Questi pacchetti sono in linea con le decisioni politiche avviate dal 2008 che hanno segnato il progressivo abbandono di un’impostazione a rischi condivisi, di cui lo spread è solo la punta dell’iceberg e che accompagnano un andamento del Pil dell’Eurozona che non riesce più ad agganciare quello del resto del mondo.
È francamente una magra consolazione l’andamento distonico della Germania ed è semplicistico attribuirlo esclusivamente alle virtù teutoniche.
Altrettanto semplicistico è ignorare la turbolenza finanziaria di una ristrutturazione del debito pubblico italiano come pure di una sua remissione in qualsivoglia forma. D’altronde dati i fondamentali della nostra area valutaria non sarebbero neanche ipotesi da valutare se le priorità fossero investimenti, crescita ed una revisione dell’architettura dell’euro in un’ottica risk-shared; aspetto quest’ultimo che – a seconda della posizione ideologica e degli interessi da cui ci si muove – diviene un tecnicismo monetario, un atto dovuto o uno strumento perverso che rimuoverebbe le responsabilità per le scelte sbagliate e lassiste del passato.
Occorre superare queste visioni partigiane e fare tesoro della nostra storia: l’Eurozona ante litteram ha prosperato in termini socio-economici fino a quando ha saputo fare leva su principi di solidarietà e di ragionevolezza economica riuscendo così a superare le nefandezze, le distruzioni e i rancori generati da ben due conflitti mondiali.  
Verso questi obiettivi una nuova classe dirigente dovrà necessariamente puntare con un orizzonte di lungo periodo.