mercoledì 14 novembre 2018

Mafia del Brenta. Felice Maniero: "Così trattai con gli uomini dello Stato. Ho rimorsi per un solo delitto".

Roberto Saviano intervista l'uomo che fu leader e fondatore della mafia nata in Veneto negli anni 70, ora collaboratore di giustizia. Da oggi, 14 novembre, ogni mercoledì alle 21.25 su Nove, torna "Kings of Crime", le interviste inedite dello scrittore ai protagonisti del crimine.



Felice Maniero: "Così trattai con gli uomini dello Stato. Ho rimorsi per un solo delitto"Quando intervisti un uomo che è stato un capo criminale, il primo obiettivo è capire cosa vuoi ottenere. Inchiodarlo alle sue responsabilità? 
Denunciare i suoi crimini più nascosti? Rintracciare il suo lato più umano? 
La mia ossessione è sempre la stessa: mostrare come i boss siano parte della nostra economia, siano capitalisti con mezzi diversi, farne emergere miserie e contraddizioni. 
E volevo, in questo caso, accendere un riflettore necessario sul nord Italia.

Le mafie al Nord esistono da lunghissimo tempo. Per decenni si è negata la loro presenza e la loro esistenza, e questo è stato uno dei più dannosi tabù. Si cerca di relegarle a fenomeno locale, meridionale, di ridimensionarne la potenza economica, di negarne la presenza militare nelle regioni settentrionali o di attribuire tutto questo esclusivamente a gruppi di invasori che dal Sud "infettano" alcune zone del Nord.


Non si tiene mai conto che le mafie si sono ramificate nel Nord Italia grazie a un'alleanza con l'imprenditoria e la politica settentrionale. Senza queste sinergie, le mafie non sarebbero mai riuscite a fare il salto di qualità. Il Nord è il motore del Paese e lo è stato anche per le organizzazioni criminali nate al Sud, che hanno investito in imprese e appalti, hanno venduto droga sulle migliori piazze, che hanno riciclato e moltiplicato nei circuiti finanziari i loro soldi sporchi.

Ma è esistita una mafia - una sola ad oggi - che al Nord non è solo cresciuta, ma è anche nata. Si è strutturata in Veneto negli anni '70 e il suo fondatore e capo indiscusso è stato Felice Maniero. Ho incontrato Maniero, ora collaboratore di giustizia. Studiando e incontrando boss, killer e gregari di mafia, capisci che si possono dividere in due categorie: quelli che scelgono il crimine contro il mondo e quelli che scelgono il crimine per scalare il mondo. Non si sfugge a questa divisione. Ci sono boss per cui la vita è una guerra in cui ognuno si prende ciò che vuole in base al proprio coraggio, alla propria spietatezza: questi vedono lo Stato come un'altra organizzazione di banditi governata da persone tutto sommato interscambiabili, che si alternano al potere.

Il loro guadagno sarà tanto più alto quanto più riusciranno a contrapporsi alle istituzioni, a sfidarle, a batterle. E ci sono boss che, invece, vogliono infiltrare lo Stato e utilizzare il crimine per avere un ruolo istituzionale: non guadagnano dalla alterità rispetto alle istituzioni, ma dall'identificazione con esse, mirano a diventare loro stessi le istituzioni.

Il boss Felice Maniero apparteneva alla prima categoria, a quei boss di mafia che valutano l'essere giusto non in relazione al rispetto delle leggi, ma in relazione alla capacità di stare al mondo.

Il giusto non è giusto perché indossa una divisa, ma perché risponde a valori che il mafioso stesso valuta come fondamentali, come l'essere feroce, magnanimo col debole, efficiente o sprezzante del pericolo.  La filosofia morale criminale parte da un pilastro chiaro: potere, danaro, donne sono gli obiettivi di tutti: c'è chi è nato con maggiore possibilità di averli e chi deve invece trovare una strada per raggiungerli.

Maniero ha una visione del mondo chiara, descrive se stesso come qualcuno che non voleva passare la vita in fabbrica, guadagnare due soldi, rimanere confinato alla provincia.Nato negli anni '50 in un Veneto in miseria, dove in molti avevano scelto la via dell'emigrazione in Sud America, Maniero cresce con il mito dei fuorilegge, che gli sembrano "esseri superiori". A 9 anni la prima pistola, a 12 anni i primi furti ai camion di caffè e formaggio, a 16 la prima rapina in una fabbrica. Dalle fabbriche di scarpe presto si passa ai laboratori di oro, e la vita di Felicetto cambia. Ferrari, viaggi all'estero, yacht: i soldi sono così tanti che non sa come spenderli.

Tutti vogliono fare rapine con Felice Maniero, perché con lui si porta a casa la pelle e la grana. I colpi sono studiati da lui in modo meticolosissimo. "La prima cosa che valutavo era il piano di fuga, se non c'era possibilità di un piano di fuga, non veniva fatto niente", ma anche se qualcosa andava storto e si veniva arrestati, Maniero aveva escogitato un metodo efficace per uscire in fretta dai guai: usare le opere d'arte come merce di scambio con lo Stato. Qui Felice Maniero svela la dinamica di una trattativa:

 All'alba del 23 febbraio del '79 alcuni uomini entrano nella Basilica di San Marco a Venezia. 
"Sì".

Rubano una collana di diamanti e altre pietre preziose dal quadro di una Madonna...
"Nicopeia".

Esattamente. Valore stimato all'epoca: un miliardo di lire. Qualche settimana dopo, però, i gioielli vengono ritrovati, o meglio, fatti ritrovare. Perché avete deciso di rubare?
"Perché io avevo una pesante sorveglianza speciale, dovevo essere a casa alle 7 e venivo controllato tre volte al giorno... non ce la facevo più! E allora ho fatto fare il furto e poi ho contrattato..."

Quindi era una forma di riscatto, di sequestro con riscatto?

"Eh".

Lo Stato nega, ma in realtà c'è stato un meccanismo di questo tipo...

"Sì. M'hanno tolto la sorveglianza speciale e recuperato i gioielli".

Quindi, il furto delle opere d'arte, in genere, viene usato come forma di ricatto? [...] E con chi avveniva la trattativa? I Servizi? Le polizie?
"Ah, guardi, a me a casa ne arrivavano tre o quattro ogni giorno di potentati".

Cioè uomini dello Stato?
"Sì"

Forze dell'Ordine, Servizi...?

"Sì, sì".

Tra l'inizio degli anni '80 e la metà degli anni '90 l'organizzazione di Maniero gestisce il gioco d'azzardo in Veneto, a Modena e in Jugoslavia. Le bische devono dargli dal 40% al 50% dei guadagni. Ma Maniero riesce a guadagnare anche dal Casinò di Venezia, perché impone il pizzo ai cambisti, cioè coloro che prestano soldi a interessi altissimi ai giocatori che hanno perso tutto ma vogliono continuare a giocare.

Il 10 ottobre 1980, in quella che è conosciuta come "la notte dei cambisti", gli uomini della Mala del Brenta arrivano al Casinò di Venezia, cacciano i cambisti fuori a calci e gli intimano di non farsi più vedere prima di aver trattato un accordo con loro. Per quel raid "abbiamo fatto anche due mesi di carcere" ricorda Maniero "ma ne è valsa la pena perché poi mi hanno pagato per quindici anni 2 milioni al giorno. Arrivavano circa 60 milioni di lire ogni mese in contanti, senza fare niente".

A quel punto il suo potere sul Nord-Est è tale che sono le mafie a bussare alla porta del bandito Maniero. Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, i Bono e Francis Turatello, che condivide con Maniero lo stesso soprannome: Faccia d'angelo. Ma anche i Misso di Napoli chiedono di fare rapine con lui.

La sua ormai consolidata fama criminale riesce ad azzerare i pregiudizi e le diffidenze dei mafiosi verso il boss del Nord. Dai più potenti boss di Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta Maniero era rispettato e temuto, tanto che nessun criminale poteva entrare in Veneto senza il suo sì. Al boss del Brenta non si rivolgono solo per le rapine, ma anche per la droga.

A Maniero la coca arriva direttamente dalla Colombia; da lui si riforniscono per il mercato settentrionale anche camorra e 'ndrangheta. Le stesse mafie che vendevano droga in tutta Italia, sul Veneto devono fare un passo indietro, perché lì c'è Maniero. Non appena aveva visto la droga, infatti, il boss del Brenta aveva intuito non solo il grande business che avrebbe potuto ricavarci, ma anche la necessità di occupare quel mercato. Maniero si appella alla solita logica: anche se non vorresti fare soldi con la droga, se non la gestisci tu, chi la gestirà ti eliminerà.

 Quando iniziate a fare traffico di droga?

"Negli anni '80 quando sono arrivati siciliani, camorristi e 'ndranghetisti a venderla".

Quindi arrivano le mafie storiche a commercializzarla, e lì capite che...

"Che non era possibile non farlo noi altrimenti avrebbero preso il mercato, e li avremmo avuti in casa!"

È vero che inizialmente lei era contrario al traffico di droga?

"Sì".

Anche perché, tra l'altro, dopo che iniziate a farlo, cominciano ad esserci in Veneto molti morti per droga...

"Eh certo..."

Quindi all'inizio c'era questa contrarietà morale quasi...

"Sì, anche perché noi, non usandola, la criticavamo. Chi prendeva droga non poteva entrare..."

Però di fronte al business non vi fermate...

"Di fronte al business e all'invasione di mafie esterne".

Quanto si ricavava dal traffico di droga? 

"Molto. Guardi, il traffico di droga oggi è l'unica fonte di reddito - a parte il racket, che io non credo sia molto importante - delle mafie".

Se ci fosse stata la legalizzazione, i suoi affari ci sarebbero stati lo stesso o sarebbero stati fermati?
"I miei affari ci sarebbero stati lo stesso, perché io poco prima di collaborare ho fatto una rapina di quattro quintali di lingotti d'oro, quattro quintali e mezzo, in una banca che serviva gli orafi nel Vicentino. Però per le altre organizzazioni la legalizzazione sarebbe la ghigliottina. Mi chiedo come mai ancora non lo abbiano fatto. Beh, un narcotraffico però controllato, non è che uno va a prendersi un chilo! Deve tirar fuori i documenti, codice fiscale e tutto. E poi se uno Stato acquista la cocaina o l'eroina da un altro Stato, con 50 euro può comprarne 2 chili credo, perché non costa niente... e la può vendere anche a 100 euro, 200, tanto per dire, senza porcherie dentro. E io vorrei sapere la stragrande maggioranza degli italiani dove va ad acquistarla: se va a pagare 200-300 euro per un grammo - dipende dalla qualità - o 5 euro. Il prezzo crolla! Crolla il mercato! E quelli le rapine non le sanno fare, non sanno fare neanche i furti! Per cui vorrei vederli che si ammazzano per una... cassa di pomodoro! Ovvio che bisogna fare una cosa che è molto delicata, però visto che sono 50 anni che imperversa in tutto il mondo e in tutta Italia soprattutto - perché l'Italia è uno dei principali Paesi - perché non provano qua?"

Per cui, per un narcotrafficante, il nemico principale è la legalizzazione?
"Io ne sono certo. Mi metto nei miei panni di una volta eh..."

Quindi lei da narcotrafficante avrebbe combattuto la legalizzazione...

"Oh! Guardi che hanno il terrore della legalizzazione eh! Tutti, non solo io!"

Ma lei sta ragionando sulla possibilità di legalizzare tutte le droghe, sia leggere che pesanti?
"No, io sto ragionando su come distruggere le mafie. A un prezzo che si pagherà ovviamente..."


Da un ex trafficante non si accettano, certo, lezioni, né indicazioni politiche, ma la testimonianza in questo caso è particolarmente significativa, perché Maniero ammette che per gli affari delle mafie - soprattutto per quelli delle mafie del Sud - la legalizzazione sarebbe stata la fine.

La droga della Mala del Brenta devastò una intera generazione e collocò le province venete in cima alle classifiche delle morti per droga.

Rapine, furti, sequestri, droga: era in queste forme che si palesava la Mala del Brenta ai veneti, che solo molti anni più tardi, dopo il pentimento di Maniero, ne avrebbero conosciuto davvero le dimensioni e la pericolosità. Volevo capire come ha fatto un uomo del Nord, veneto ad avere il rispetto militare delle organizzazioni militari meridionali che storicamente considerano i settentrionali criminalmente incapaci di vera ferocia, deboli e al massimo in grado di evadere le tasse e far qualche rapina.

La risposta la dà Francesco Saverio Pavone, giudice istruttore del maxiprocesso alla Mala del Brenta: durante un processo a Gaetano Fidanzati per traffico di droga, "mentre con altre persone che avevano reso dichiarazioni contro di lui Fidanzati ha inveito dalle gabbie, minacciandoli, bestemmiando, quando ha parlato Felice Maniero, che lo ha sempre guardato negli occhi, non ha mai detto una parola, quasi che ne temesse lo sguardo. Le dichiarazioni più pesanti contro Fidanzati sul traffico di droga sono state proprio di Maniero, e Fidanzati non ha detto neanche una parola..."

Maniero fissa negli occhi i boss meridionali, lo sguardo è territorio, conosce le regole, le apprende e le mantiene. Anche sulle condanne a morte agisce come i capi di cui aveva maggior rispetto criminale, come Antonio Bardellino, gli omicidi erano circoscritti ai regolamenti di conti all'interno della banda: "Doveva essere punito o uno che ci voleva uccidere o uno che aveva tradito ed era dannoso. Se non era dannoso, veniva allontanato e non ce ne fregava niente, un divorzio totale. Invece la mafia siciliana, la camorra... ammazzano anche per soldi, ammazzano il miglior amico per convenienza", ci tiene a sottolineare il boss del Brenta, che è stato condannato per 7 omicidi. Per nessuno di questi ha provato rimorso:

È cambiato qualcosa in lei quando ha fatto l'esecuzione o in fondo non ha pesato questo gesto?
"Non mi ha fatto niente perché queste erano le nostre regole".

Dopo un omicidio non è mai successo che abbia avuto un tormento?

"No".

Solo per una morte Maniero dice di provare rimorsi: quella di Cristina Pavesi, la studentessa di 22 anni rimasta uccisa durante la rapina della Mala al vagone postale del treno Venezia-Milano il 13 dicembre 1990.

Maniero pronuncia ufficialmente le sue scuse alla famiglia di Cristina, sapendo bene che le scuse non potranno riportarla indietro e che, molto probabilmente, non potranno nemmeno essere accettate. Dopo due evasioni da due diverse carceri di massima sicurezza e latitanze vissute tra lussi di ogni tipo, il capo della Mala del Brenta venne catturato l'ultima volta il 12 novembre del 1994 e sei giorni dopo decise di diventare collaboratore di giustizia.

Le sue rivelazioni hanno portato alla condanna di quasi cinquecento persone e alla fine della Mala del Brenta.  Maniero, con la sua perenne aria di sfida, è un uomo che - come ha descritto il giudice Pavone - ha gettato il patrimonio della sua intelligenza in imprese criminali. Imprese criminali che hanno generato un dolore esponenziale.

Ecco, il dolore: tra tutte le domande che gli ho posto in questa lunga intervista, quella sul dolore è l'unica su cui l'ho sentito vacillare.

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