L'Italia ha passato una decina di giorni terribili.
lescienze.it Antonello Pasini
Tutti hanno visto
cosa è accaduto: gli impatti sul territorio di eventi meteorologici
estremi hanno prodotto distruzione e morte. Qui sopra due immagini
simbolo: la casa di Casteldaccia in Sicilia e un bosco abbattuto
nell'altopiano di Asiago.
Oggi, in un momento in cui la fase critica appare terminata, forse conviene trarre qualche insegnamento da quanto accaduto.
Innanzi tutto, il rischio, in particolare il rischio idro-geologico,
può essere calcolato come il prodotto di due fattori, uno che
rappresenta la pericolosità dovuta all'influsso più o meno grande di
agenti esterni (come quelli meteo-climatici) e uno che rappresenta lo
stato di vulnerabilità del territorio su cui questo primo fattore
agisce.
In formule si potrebbe scrivere:
R = P x V,
dove R = rischio, P = pericolosità, V = vulnerabilità.
Lo so che esistono definizioni diverse, per cui il secondo fattore in
effetti è sostanzialmente "spacchettato" in due (si veda, ad esempio,
sul sito della Protezione civile),
ma a me qui interessa in particolare separare gli influssi
meteo-climatici da tutte le altre attività antropiche che portano ad
aumentare la vulnerabilità, cosa che fa già questa più semplice
definizione.
Ovviamente, in quanto fisico del clima, io mi occupo soprattutto del
fattore P, e per questo sono stato chiamato ad intervenire sui media.
Tuttavia, la necessità di adattamento a determinati eventi estremi porta
inevitabilmente a discutere anche del secondo fattore, cosa che farò
brevemente anche qui.
Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto, gli eventi meteorologici cui
abbiamo assistito sono un indizio che sta aumentando il fattore della
pericolosità? In sostanza, i cambiamenti climatici stanno portando ad
eventi estremi più frequenti e/o più intensi? E, nello stesso tempo,
quanto è stata anomala la situazione meteorologica che si è venuta
creando in questi giorni passati? Senza entrare in una specifica
illustrazione della situazione meteo, basterà dire che un'onda
atmosferica particolarmente profonda è scesa sul Mediterraneo
occidentale, "risucchiando" aria calda e umida dall'entroterra africano e
dal Mediterraneo meridionale, che si è poi spostata velocemente e con
venti molto forti sulla nostra penisola. Una descrizione più dettagliata
di quanto è successo a fine ottobre la si può trovare qui.
Poi la situazione ha presentato un'altra depressione che ha continuato a
guidare venti carichi di umidità sulle nostre regioni.
Ma ora vanno fatte alcune considerazioni. La frequenza di certi
fenomeni dipende sostanzialmente da quante volte si presenta una
determinata situazione di circolazione delle masse di aria che conduce
ai fenomeni stessi. La loro intensità dipende invece in gran parte
dall'energia disponibile in atmosfera in quel momento e dagli scambi tra
superficie e atmosfera. Nel determinare la frequenza di certe
condizioni di circolazione al cambiare del clima, cioè in un regime di
riscaldamento globale, non siamo ancora molto bravi, tanto che negli
stessi ultimi rapporti IPCC non ci si sbilancia molto sull'aumento del
numero di eventi estremi di pioggia o vento a livello globale (le ondate
di calore invece sì, si sa che aumenteranno con grandissima
probabilità).
Nel Mediterraneo, tuttavia, la situazione appare un po' diversa.
Infatti, il riscaldamento globale ha portato ad una amplificazione o
spostamento verso nord della cella equatoriale di Hadley
della circolazione generale dell'atmosfera, quella responsabile della
presenza di anticicloni sul deserto del Sahara. Con tale fenomeno, nel
Mediterraneo assistiamo sempre più spesso all'ingresso di intensi
anticicloni africani nel semestre caldo, quando fino a qualche decennio
fa le estati erano dominate dall'anticiclone delle Azzorre che ci
proteggeva dalle perturbazioni euro-atlantiche, ma anche dal "feroce"
caldo africano. In generale, sembra che la circolazione si stia mettendo
sempre più spesso nella direzione sud-nord, aumentando la variabilità e
facendo sì che sempre più spesso avvengano duri scontri di masse d'aria
di origine diversa, che creano proprio precipitazioni convettive
intense. Più in particolare, poi, sembra che aumentino le cosiddette
"situazioni di blocco", in cui su un territorio per un lungo periodo si
presentano condizioni dello stesso tipo, ad esempio anticicloni "feroci"
o piogge intense e persistenti. Si sta ancora studiando se nel
Mediterraneo questa tendenza sia destinata a continuare o addirittura ad
accentuarsi, ma direi che gli indizi sono piuttosto preoccupanti. Vi
segnalo giusto tre articoli recenti che trattano di questo tema: si veda
qui, qui e qui.
Ma se non siamo ancora sicuri sull'aumento della frequenza di certe
situazioni di circolazione pericolose, possiamo dire molto di più
sull'aumento dell'intensità dei fenomeni, perché questa dipende
sostanzialmente dalle quantità di vapore acqueo e calore che entrano in
atmosfera dalla superficie (soprattutto dai mari). Mentre la
circolazione dipende dalla dinamica dei moti atmosferici, che è molto
complessa a causa della conformazione così variegata del pianeta Terra
(confini frastagliati tra mare e terra, orografia tormentata, ecc.) e su
cui l'influsso dei gas serra è mediato da processi complessi,
l'intensità dei fenomeni dipende dagli scambi termodinamici alla
superficie, che rappresentano un settore in cui la nostra conoscenza è
molto robusta.
In particolare, il riscaldamento globale e i mari sempre più caldi
portano a due fenomeni specifici: la loro maggiore evaporazione e la
maggiore "fornitura" di calore/energia all'atmosfera. L'aumentata
evaporazione fa sì che più molecole di vapore acqueo entrino in
atmosfera, e queste molecole sono proprio i "mattoni" con cui si
"costruiscono" le nubi: queste ultime sono formate infatti di vapore
divenuto acqua liquida o ghiaccio. Abbiamo dunque più materiale per
formare le nubi.
D'altro canto, il maggiore apporto di energia all'atmosfera è un
contributo ancora più critico, in quanto - come dico spesso -
l'atmosfera non è come noi che abbiamo il libero arbitrio. Lei deve
seguire le leggi della termodinamica, e per questo non può far altro,
prima o poi, che scaricare violentemente questo surplus di energia sul
territorio, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Insomma, molto probabilmente il primo fattore di quella equazione che
definisce il rischio sta aumentando a causa del riscaldamento globale e
dei conseguenti cambiamenti climatici. Tra l'altro, anche se non
dovesse aumentare la frequenza della totalità degli eventi, è chiaro
che, a parità di questa, la classe di quelli più violenti aumenterebbe
di numero, eccome. Cosa dire poi della vulnerabilità del territorio?
Come scritto in precedenza, non sono un esperto di questo settore,
che è più tipicamente di competenza dei geologi. Tuttavia, mi pare
evidente come questo secondo fattore stia aumentando forse anche più
sensibilmente del primo. In particolare, l'antropizzazione del
territorio, il suo uso non corretto (cementificazione del suolo,
caseggiati costruiti su terreni a rischio inondazione o frana, ecc.)
conduce a situazioni di rischio aumentato anche a parità del primo
fattore.
Che lezioni dobbiamo trarre, allora, dai fatti accaduti e da questa
breve analisi? Le lezioni sarebbero sicuramente tante. Ma qui mi limito a
trarne un paio.
Prima di tutto, per rallentare i cambiamenti climatici occorre
mitigare, cioè diminuire le nostre emissioni di gas serra da combustioni
fossili e utilizzare meglio il suolo, sia in agricoltura che con lo
stop alla deforestazione e con una riforestazione ove possibile. Però,
siccome alcuni danni climatici sono già presenti ed inevitabili, bisogna
anche adattarsi. In particolare, da tempo si studia su come minimizzare
i rischi che derivano dai cambiamenti climatici con l'adattamento,
tanto che anche nel nostro Paese si è elaborata una Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici
e un Piano nazionale di adattamento, più operativo, è in "dirittura di
arrivo". Per quanto riguarda il rischio idro-geologico, ciò significa,
sostanzialmente, preparare certamente il territorio agli eventi che già
avvengono, ma anche pensando all'intensità (se non alla frequenza)
maggiore di questi eventi in futuro.
Ebbene, basta tutto ciò? Sicuramente no. Infatti, non si può sperare
che la meteorologia ci consenta di avere previsioni su singoli punti del
territorio da oggi a 10 giorni, magari ogni 3 ore. Questa è
fantascienza (o una truffa, come volete). Ci sono dei precisi limiti
teorici di predicibilità in atmosfera che non consentono con i modelli
attuali di fare tutto ciò. Oggi però i nostri modelli ci consentono di
avere previsioni affidabili a 2 o 3 giorni per gli scopi di protezione
civile, ma su un'area piuttosto estesa. In queste condizioni, solo i
sindaci e i loro collaboratori possono sapere quanto incida una certa
quantità di precipitazione (prevista dai modelli) nei vari luoghi del
loro comune. E' necessaria, dunque, la predisposizione urgente di Piani
comunali di adattamento.
Infine, credo che sia necessario un grande piano di informazione e
formazione sugli impatti idro-geologici dei cambiamenti climatici, per
tutti: dai decisori politici, agli amministratori locali, all'intera
popolazione. Oggi in Italia non c'è una cultura del rischio: spesso, ad
esempio, si pensa che fare un abuso sia una "furbata" del genio italico
che, quando può, aggira la legge. Non si percepisce che questo può dire
mettere a rischio l'incolumità personale e quella della propria
famiglia, nonché la perdita dei propri beni.
Tra l'altro, questo piano di informazione e formazione è una delle
cose che un Comitato scientifico di 19 scienziati che si occupano di
cambiamenti climatici e relativi impatti ha chiesto recentemente a tutti
i partiti politici con l'iniziativa di La Scienza al voto,
ottenendo un impegno formale. Oggi che non siamo più in campagna
elettorale è il momento di agire concretamente perché il Paese non si
debba trovare in maniera ricorrente in emergenze come quella dei giorni
scorsi.
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lunedì 12 novembre 2018
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