In molti paesi europei, e in modo
particolare in Italia, la deregolamentazione del lavoro, cui è seguita
la diffusione di forme di impiego non standard, si è intrecciata con una
questione generazionale di vasta portata: tutti gli indicatori
dimostrano che le generazioni che hanno cominciato a affacciarsi alla
vita adulta a partire dagli anni '90, ma soprattutto dal nuovo
millennio, incontrano grandi difficoltà nel trovare quel ruolo nella
società che per le generazioni precedenti era garantito da una
occupazione stabile.
Il Lavoro Conta?
David Benassi
Intendiamoci,
non dobbiamo certo rimpiangere la società rigidamente classista
dell'era fordista: la libertà di cui godiamo oggi per decidere come
condurre la nostra vita era impensabile solo 30 anni fa. Questa libertà,
però, ha anche aumentato il grado di quella che Robert Castel ha
chiamato "insicurezza sociale":
al venire meno dei meccanismi tradizionali di inclusione sociale, in
primis il lavoro ma anche la famiglia e il welfare state, è aumentata la
percezione di vulnerabilità di fronte alle transizioni della vita. I
giovani che oggi si affacciano alla vita adulta soffrono i nuovi rischi
sociali più delle generazioni mature.
In
un mondo "ideale" il benessere, indotto dalle innovazioni
–tecnologiche, scientifiche, politiche, sociali-, aumenta nel corso del
tempo, e le nuove generazioni si ritrovano a godere di migliori
condizioni di vita rispetto alle generazioni precedenti. Come si vede
molto chiaramente nel grafico, in Italia questo modello ideale si
inverte tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90: fino ai
primissimi anni '90 il reddito dei lavoratori più giovani è pari al 90 o
anche al 100% del reddito medio, per poi declinare inesorabilmente fino
al 66% di oggi.
La
stessa dinamica si osserva nel caso dei "giovani adulti" (31-40 anni)
con un reddito pari al 130-120% di quello medio fino ai primi anni '90 e
poi un calo costante fino al 97% di oggi, e simile anche per i
41-50enni. Va da sé che le generazioni che si sono avvantaggiate sono
quelle più mature, i 51-65enni (da 104% a 115%) e soprattutto i più
anziani che passano da poco più del 50% a quasi il 90%, grazie
evidentemente a favorevoli politiche pensionistiche.
Il
timing di questa inversione coincide esattamente con i processi di
flessibilizzazione del lavoro, cominciati già alla fine degli anni '80
ma con una forte accelerazione alla fine degli anni '90. Instabilità
occupazionale e bassi salari –anche detti gig economy per darle un'aria più glamour- hanno indebolito la funzione del lavoro
come strumento di inclusione sociale, esponendo molte famiglie al
rischio di povertà pur avendo al proprio interno soggetti occupati.
Secondo i dati Eurostat nel 2016
in Italia il rischio di povertà tra gli occupati passa dal 7,5% tra
quelli a tempo indeterminato al 20,5% tra quelli a tempo determinato.
Questi dati tuttavia nascondono il fatto che molte volte i bassi salari
sono "nascosti" all'interno del nucleo famigliare, perché è molto
difficile per i giovani rendersi indipendenti dalla famiglia d'origine.
In base ai dati dell'ultima indagine della Banca d'Italia (2016)
scopriamo quindi che il reddito da lavoro medio degli under 30 è di
10.271€ (856€ mensili! Mentre la media nazionale è di 16.281€).
Questi
processi hanno una conseguenza chiara: rafforzano la trasmissione
famigliare dei privilegi e della disuguaglianza perché i giovani che
provengono da famiglie benestanti potranno attingere a tutta una serie
di risorse –economiche, formative, relazionali– che favoriranno
l'acquisizione di un ruolo solido nel mondo del lavoro e nella società. A
contrario per i giovani che provengono da contesti famigliari e sociali
svantaggiati sarà quasi impossibile superare il gap che li separa dai
primi, e con ogni probabilità la loro vita sarà contrassegnata da
precarietà e, nel peggiore dei casi, povertà. Infatti, numerosi rapporti
OECD segnalano come l'Italia sia uno dei paesi europei dove la mobilità sociale è più bassa.
È questa una negazione degli ideali di uguaglianza alla base delle
società democratiche, un problema che dovrebbe essere al centro del
dibattito pubblico.
(Questo post è a cura di David Benassi, Università di Milano-Bicocca)
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