Nei giorni scorsi i giornali italiani, con toni da piagnoni,
hanno celebrato un particolare ‘sorpasso’ della Spagna ai danni
dell’Italia.
Non sono mancati i più bizzarri paragoni con il calcio ed
il motociclismo, quelli sullo stile di vita, sulle abitudini alimentari,
sugli orari di lavoro, ed altre amenità che poco hanno a che fare con
la significatività del dato che proveremo di seguito a commentare. Nel
dettaglio, la notizia ‘vera’ è la seguente: il Fondo Monetario
Internazionale ha recentemente reso pubblico il dato per cui il PIL
procapite in Spagna è per la prima volta superiore a quello dell’Italia:
31.191 Euro rispetto ai nostri 31.072 Euro (in termini reali e a parità
di potere di acquisto).
Tecnicamente, il PIL procapite non è altro che
il valore del reddito complessivo nel 2017, diviso per il numero di
abitanti nello stesso anno.
Detta così sembrerebbe, come scrivono alcune testate nostrane, che ad oggi “gli spagnoli sono più ricchi di noi” italiani.
Sgomberiamo
anzitutto il campo da un equivoco molto diffuso, quello secondo cui il
PIL sarebbe un indicatore della ricchezza di un Paese.
Il PIL può essere
considerato un ragionevole indicatore di benessere e sviluppo di un
Paese, in quanto rappresenta l’ammontare complessivo di reddito che ogni
anno viene distribuito tra le diverse classi sociali (poi bisogna
vedere come…). Tuttavia, questo non rappresenta la ricchezza di un Paese
(o, in media, di un individuo qualora stessimo parlando di PIL
procapite): la ricchezza di un Paese è uno stock rappresentato
dall’ammontare di risorse che in un determinato momento i residenti di
quel Paese possiedono, indipendentemente dall’anno in cui è stata
prodotta, mentre il PIL è un reddito, ovvero un flusso di quantità
associato ad un intervallo di tempo.
In breve: un PIL di 100 euro ci
dice che in un particolare anno un Paese ha prodotto beni e servizi per
100 euro, mentre una ricchezza valutata oggi 500 euro è il frutto di
risparmi accumulati negli anni precedenti.
Certo, un basso livello di
PIL procapite non contribuirà ad accrescere in misura rilevante la
ricchezza di un individuo, e soprattutto non gli permetterà di godere
nel presente di un buon tenore di vita, in quanto potrà permettersi un
ammontare più basso di beni e servizi. Quindi, il PIL procapite può
rappresentare un indice di benessere e sviluppo, ma non necessariamente
un Paese è più ricco di un altro se in un anno ha fatto registrare un
PIL procapite più alto dell’altro: lo sarà, tuttavia, se farà registrare
sistematicamente dei livelli di PIL maggiori.
Dopo
aver riflettuto sull’importanza del PIL come indicatore (o analogamente
del PIL procapite), il punto di partenza dell’analisi deve essere la
composizione di questo indicatore: quale componente della domanda
aggregata ha maggiormente contribuito a determinare il livello della
produzione? Al riguardo, Spagna e Italia presentano entrambe un basso
livello di domanda interna da parte del settore privato, ovvero bassi
consumi delle famiglie e bassi investimenti delle imprese, ed una
domanda estera piuttosto dinamica, anche grazie ai bassi livelli di
inflazione che hanno reso le merci italiane e spagnole più competitive. A
questa bassa dinamica dei prezzi hanno sicuramente contribuito gli
elevati tassi di disoccupazione che contraddistinguono entrambi i Paesi:
nel 2017 la Spagna contava 3,9 milioni disoccupati (16,4% della forza
lavoro), mentre in Italia ammontavano a 2,9 milioni (10,8%).
Ciò
che invece emerge con chiarezza nel confronto tra i due Paesi è il
ruolo del settore pubblico. Perché il PIL spagnolo sta crescendo negli
ultimi anni? La risposta principale è la seguente: poiché lo Stato ha
speso, ed in questa maniera ha aumentato il reddito da distribuire tra
le classi sociali. In particolare, in Spagna lo Stato ha contribuito con
forza al sostegno del PIL registrando sistematicamente deficit
pubblici: la differenza tra uscite (spese) ed entrate (tasse) dello
Stato è stata sistematicamente maggiore di quella italiana – come si può
vedere nel grafico sottostante. In altri termini, in tempi di crisi i
governi spagnoli sono stati più capaci di sostenere l’economia di quanto
lo siano stati i governi italiani, la cui attività sta invece facendo
registrare costantemente avanzi primari dalla metà degli anni ’90 –
fatta eccezione per gli anni immediatamente successivi alla crisi del
2007/08. Detto più semplicemente, al netto degli interessi sul debito,
in Italia i vari governi hanno sottratto all’economia più redditi
(tramite la tassazione) di quanti ne abbiano contribuito a generare
(attraverso la spesa pubblica).
Rapporto deficit/PIL della Spagna e dell’Italia. Fonte: Eurostat.
Certo,
i robusti deficit non hanno certo risolto i problemi spagnoli: il
livello del PIL procapite è ancora basso (come del resto lo è quello
italiano), e la disoccupazione ancora alta, decisamente più alta di
quella italiana e tra le più alte dell’intera Europa. Come mai? Sia per
motivi di lungo periodo legati alla cronica crisi industriale del Paese
da tre decenni, sia perché, nel breve periodo i soldi pubblici sono
stati regalati alle banche: gran parte del deficit pubblico spagnolo è
stato infatti destinato alle operazioni di salvataggio tramite il fondo
di ristrutturazione bancaria (FROB), che ha operato fino al 2013 ed ha
contribuito al salvataggio di segmenti chiave del settore bancario del Paese.
Tuttavia,
nel corso degli ultimi anni i media hanno continuato a glissare su
questo dato di finanza pubblica, mentre le migliori prestazioni della
Spagna sono state quasi sempre attribuite al fatto che in terra iberica
siano riusciti, meglio che in Italia, ad implementare quelle
taumaturgiche ‘riforme strutturali’ che dovrebbero contribuire a
rilanciare l’occupazione ed il PIL. Soffermandoci sul contenuto di
quelle che vengono comunemente spacciate come ‘politiche di ripresa’ o capacità del Paese di ‘rinnovarsi’. Capofila delle riforme strutturali è stata una forte deregolamentazione del mercato del lavoro
voluta dal governo Rajoy, che ha ripetutamente asserito che la crescita
sia dovuta alle riforme che hanno permesso alla Spagna di migliorare la
competitività dei beni esportati (oltre ad attirare investimenti
dall’estero). In questo quadro, la riforma del mercato del lavoro ha
aumentato la flessibilità dei contratti e permesso alle imprese di
ridurre significativamente le liquidazioni per i dipendenti licenziati,
oltre a portare la contrattazione salariale a livello di singola azienda
(vi dice qualcosa?).
Tradotto: meno tutele per i lavoratori, più facilità di licenziamento
per le imprese, dinamica salariale contenuta. Una ricetta di cui abbiamo già sentito parlare, anche dalle nostre parti,
seppur con effetti minori sulla distribuzione del reddito: infatti, in
Italia la quota salari è passata dal 54% del 2010 all’attuale 53,5%,
mentre in Spagna si è assistito ad una caduta di entità doppia (dal 58%
al 54,5% nello stesso periodo – dati ILO) alla luce della maggiore
ferocia delle riforme spagnole rispetto a quelle comunque pesanti
adottate in Italia.
Concludendo,
se di sorpasso vogliamo parlare, dobbiamo tenere a mente che si tratta
di un mero dato statistico, che va interpretato alla luce del più ampio
scenario macroeconomico: disoccupazione più alta (specie quella
giovanile che in Spagna raggiunge il 36%), distribuzione del reddito che
peggiora più di quanto peggiori in Italia, minore dinamica salariale.
Tirando
le fila del ragionamento: la maggior crescita spagnola è stata
essenzialmente trainata da una maggiore spesa pubblica rispetto a quella
italiana; tuttavia tale spesa pubblica è stata orientata in gran parte
ai salvataggi del grande capitale finanziario a carico della
collettività contribuendo così ad un peggioramento della distribuzione
del reddito; la contestuale introduzione di riforme del lavoro di stampo
liberista ha ulteriormente contribuito alla sperequazione dei redditi e
alla diminuzione della quota dei salari sul prodotto. Contrariamente
alla vulgata comune, non sono state di certo queste riforme a permettere
maggior crescita. Si può, anzi dire che il PIL spagnolo, grazie ai
maggiori deficit di spesa pubblica, è cresciuto malgrado le riforme
restrittive del mercato del lavoro che avrebbero di per sé un effetto
restrittivo causando inevitabilmente una caduta dei consumi.
Se
ne può dedurre che la crescita del PIL non è di per sé un indicatore
esaustivo di benessere né tanto meno ci dà informazioni su come il
benessere si distribuisce tra le classi sociali. Si può crescere facendo
leva su componenti diverse della domanda, orientate a fini diverse e
con le conseguenze distributive più disparate. Il caso spagnolo dimostra
che quando si salda una stretta alleanza tra Stato e grande capitale e
si ha una massiccia spesa pubblica di assistenza al profitto si può
avere crescita con basso impatto occupazionale e peggioramento della
distribuzione del reddito a scapito del lavoro e dei più poveri.
Allo
stesso tempo, tuttavia, il sorpasso Spagna-Italia ci dimostra che la
spesa pubblica resta una componente determinante della crescita
economica e che è possibile perseguire, tramite la stessa leva di fondo,
una crescita diversamente orientata con effetti distributivi e
occupazionali ben diversi.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.wordpress.com/
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