Il
24 e il 25 aprile a Bruxelles sono stati organizzati, rispettivamente
da Jeunes FGTB e dalla comunità degli antifascisti italiani in Belgio,
due incontri che hanno portato al centro del dibattito la questione
delle condizioni lavorative dei cosiddetti riders, i ciclo-fattorini che lavorano per le piattaforme digitali di consegna di cibo a domicilio (“food delivery”), come Foodora e Deliveroo.
Al
giorno d’oggi, anche il mondo del lavoro è soggetto a trasformazioni
continue alle quali il sistema ultra-rigido delle relazioni industriali
non riesce a far fronte.
Infatti,
la fine del modello fordista viene generalmente fatta risalire al
periodo compreso tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70
del secolo scorso. Alla crisi di questo modello concorsero una pluralità
di fattori inerenti sia all’ambito prettamente economico sia alle altre
sfere politiche, sociali e culturali: la saturazione del mercato di
base dei beni industriali durevoli, gli shock petroliferi, l’aumento
della concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione con più basso
costo del lavoro, l’introduzione di nuove tecnologie, la fine del regime
dei cambi fissi e il conseguente aumento dell’instabilità sul mercato
internazionale, l’esplosione della conflittualità sociale a partire dal
‘68. La peculiarità del sistema capitalistico, tuttavia, risiede proprio
nella capacità di sfruttare a proprio favore gli elementi di rottura, e
di riconfigurare la sua struttura in base a questi. È così che le
istanze e le rivendicazioni portate avanti dai movimenti del ’68 sono
state assorbite, rimaneggiate e rilanciate dal capitalismo anche in
chiave economica.
Depurate da concezioni politiche e rivendicazioni
salariali, le critiche al sistema fordista si sono trasformate nelle
nuove parole d’ordine dei luoghi di lavoro: pluralità dei compiti,
diversificazione delle funzioni, flessibilità dell’orario di lavoro,
autorealizzazione, creatività, mobilità del posto di lavoro. Questi
elementi hanno contribuito alla trasformazione del sistema di
produzione, ma anche delle condizioni contrattuali di ciascun
lavoratore, le quali si sono sempre più diversificate le une dalle
altre. Rendendo meno rigido il momento produttivo e aumentando la
percezione di autorealizzazione personale, “il capitalismo sorto negli
anni ’80, in rapporto a quello degli anni ’50, ha certamente aumentato
il suo appeal”, come ha scritto Davide Gallo Lassere nel suo libro Contre la loi travail et son monde. Argent, précarité et mouvements sociaux.
Le parole chiave della nostra epoca sono flessibilizzazione ed economia della condivisione, o meglio flexecurity e sharing economy perché hanno un suono più gradevole dietro al quale, tuttavia, si celano più oscure verità.
Come ci spiega Yoann Jungling, della FGTB Liège e autore del libro Vivre à l’ère d’Uber et d’Atlas, entre progrès et régression,
nell’incontro del 24 aprile, il “cooperativismo delle piattaforme” è
ben diverso dal “capitalismo delle piattaforme”: il primo si basa sul
principio della proprietà collettiva, il secondo sull’utilizzo, invece
che sull’acquisto, di un bene o un servizio e genera profitto tramite lo
sfruttamento dei lavoratori (ecco che ritorna la famosa “storiella” del
plusvalore generato dal pluslavoro, mai così attuale).
Infatti,
questo sistema fa passare per lavoratori autonomi quelli che sono in
realtà dei lavoratori parasubordinati – una nuova categoria intermedia
tra il lavoro autonomo e quello dipendente – e giustifica il rischio
della privazione di tutele attraverso la libertà di scelta. Quante volte
abbiamo sentito dire: “ma se non gli va bene può pure cambiare lavoro!
Di lavoretti così se ne trovano tanti”. Siamo nell’era della gig economy.
Il capitalismo delle piattaforme, infatti, mira ad offrire dei
“lavoretti” che siano facilmente accessibili e flessibili, specie per
gli studenti o i giovani lavoratori (non va dimenticato, infatti, che il
costo degli studi e il numero dei lavoratori precari stanno aumentando
vertiginosamente). Nella realtà dei fatti, però, in una condizione di
forte crisi economica e di alto tasso di disoccupazione, questi
lavoretti diventano sempre più l’unica attività di sussistenza dei
lavoratori. Va poi aggiunto che questa tanto proclamata libertà di
scelta costituisce un falso mito: nel caso di Deliveroo – ci spiegano i
ragazzi del collettivo dei fattorini di Bruxelles (Collectif des
coursier-e-s / KoeriersKollectief) all’incontro del 25 aprile – più un
fattorino si assenta, meno possibilità avrà di lavorare poiché
l’algoritmo registrerà le assenze e diminuirà progressivamente il numero
di consegne da affidargli.
Dunque,
dietro la retorica giornalistica dell’innovazione e delle nuove
frontiere del lavoro, dietro i misteriosi termini inglesi che ormai
hanno preso il sopravvento sul classico codice linguistico del mondo del
lavoro (fatto già sperimentato in Italia con il Jobs Act renziano) e
dietro i falsi miti della libertà, dell’indipendenza e dell’individuo
imprenditore di sé stesso, non c’è altro che la solita vecchia divisione
tra sfruttati e sfruttatori. Solo che ora è sempre più difficile
individuare il padrone, poiché questo si nasconde dietro una distorta
costruzione matematica: l’algoritmo, questa cosa sconosciuta, ma che non
può che essere giusta e corretta perché così ci è stato ripetuto
infinite volte fin dalle scuole elementari. Il fordismo sarà pure
tramontato (in parte), ma ci troviamo in quello che Marta Fana ha
chiamato, nell’incontro del 25 aprile, neo-taylorismo – o taylorismo
digitale – in cui l’organizzazione scientifica del lavoro è gestita
dalle macchine che controllano il lavoro e individuano il modo più
efficiente e veloce (per produrre valore per l’impresa) di effettuare
una determinata mansione.
Ma
non solo. La forza degli sfruttatori sta anche nel turnover,
nell’assenza di legislazione e di protezione sindacale, nella
retribuzione a cottimo, nel continuo cambio degli statuti dei
lavoratori. Sì, perché in Belgio i ciclo-fattorini di Deliveroo erano
inizialmente pagati a ore; poi un giorno una mail improvvisa li avvertì
che il loro status sarebbe cambiato di lì a poco trasformandoli in
lavoratori indipendenti e che sarebbero stati pagati à la tâche.
Chiunque si fosse rifiutato di accettare questi cambiamenti sarebbe
stato eliminato dalla piattaforma. È in quel momento che un gruppo di
ciclo-fattorini ha deciso di mettere insieme le forze per trovare delle
strategie di lotta, come quelle dello sciopero ogni sabato o
dell’occupazione della sede di Bruxelles. Stessa cosa in Italia dove i riders
di Deliveroo Torino hanno deciso di occupare la sede italiana della
piattaforma, che si trova a Milano, dopo che le richieste di dialogo con
la controparte dirigenziale sono state più volte respinte dalla stessa.
Inutile dire com’è finita: insulti, spinte e manganellate da parte
della polizia antisommossa hanno in poco tempo messo fine
all’occupazione. In entrambi i casi Deliveroo ha utilizzato come
strategia mediatica quella di isolare il caso e dividere i lavoratori
tra buoni e cattivi, screditando le proteste, criminalizzando i
lavoratori in lotta e accusandoli di essere solo un piccolo gruppo di
sovversivi.
Nel frattempo a Torino il Tribunale del lavoro ha respinto il ricorso dei sei rider di
Foodora il cui rapporto di lavoro era stato interrotto poiché avevano
preso parte alle mobilitazioni del 2016 in cui si rivendicava un più
giusto trattamento economico e normativo. Secondo il tribunale,
l’interruzione del rapporto di lavoro è da dichiarare legittima dal
momento in cui manca il vincolo della subordinazione. I ciclo-fattorini
sono, dunque, dei collaboratori autonomi, benché essi siano reperibili,
monitorati e valutati in maniera costante e continuativa.
Questo
non ha, però, scoraggiato i colleghi di Bologna, i quali sono riusciti
ad arrivare ad un accordo con il Comune per l’istituzione di una “Carta
dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano”. Le
pretese non sono alte: chiedono solo di lavorare in sicurezza con
coperture assicurative, indennità in caso di maltempo, una paga minima
oraria, la tutela della privacy e dei dati personali. Il minimo
sindacale, dunque. Sì, perché nel 2018 c’è ancora chi è costretto a
chiedere di essere riconosciuto come lavoratore (e non come un
appassionato di ciclismo), di avere un monte ore garantito, un
indennizzo per gli straordinari, una copertura assicurativa, un rimborso
spese per gli oneri di mantenimento degli strumenti di lavoro e la
fornitura di un’attrezzatura adeguata. Va ricordato, infatti, che la
bici e il cellulare, principali strumenti dei riders, devono
essere di proprietà del lavoratore, mentre la piattaforma fornisce solo
gli zaini, per i quali spesso vengono trattenute delle percentuali sui
“guadagni” dei fattorini. Come se non bastasse, alcune piattaforme, come
UberEats, addebitano una somma di denaro, da loro definita “simbolica”,
ai riders solo per il fatto che prestano i propri servizi all’impresa. Oltre al danno, la beffa!
La
mancanza di legislazione e di regolamentazione di questo nuovo mondo
del lavoro gioca tutto a favore delle piattaforme digitali che possono,
oltre che spremere i lavoratori, prendere tempo per far in modo che la
campagna mediatica da loro messa in campo possa giocare a loro favore
nella formulazione delle future leggi. Sostenere, ad esempio, di
apportare un aumento dei profitti nel settore della ristorazione, in un
momento di grande crisi delle piccole e medie imprese, non può che
essere visto di buon occhio dai nostri acuti governi. In realtà, neanche
gli stessi ristoratori si rendono conto del potenziale pericolo che
queste piattaforme rappresentano: “basti pensare – ci dice un ragazzo
del collettivo dei riders di Bruxelles – che Deliveroo in Inghilterra sta cominciando a fare concorrenza ai ristoranti nella produzione stessa del cibo”.
C’è,
però, chi non si vuole arrendere alle forti difficoltà di
organizzazione delle lotte anche in un contesto di alto turnover e
grande diversificazione degli status dei lavoratori. Ed è per questo che
il 1° maggio è stata una giornata di rivendicazione dei diritti non
solo dei lavoratori dipendenti, ma di tutti gli sfruttati: dagli
studenti e dai migranti costretti a lavorare gratuitamente agli
insegnanti precari, dai tirocinanti sottopagati ai lavoratori in part
time involontario, dalle lavoratrici costrette a subire le ingiustizie e
le disuguaglianze sul lavoro ai giovani che si arrangiano con mille e
più lavoretti.
C’è
poi chi attacca le piattaforme per vie legali e chi si rimbocca le
maniche per mettere in piedi progetti alternativi, come delle
piattaforme concorrenti a quelle che detengono il monopolio, ma che si
basano sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione (che in questo
caso sono rappresentati dagli algoritmi) e non sullo sfruttamento dei
lavoratori; o chi risponde alle grandi rigidità dei nostri sistema delle
relazioni industriali e delle colluse confederazioni sindacali
costruendo dal basso nuove organizzazioni sociali.
Dietro
queste forme di “condivisione economica”, che fanno ormai parte del
nostro quotidiano, si celano le nuove frontiere dello sfruttamento e di
una società sempre più individualizzata ed egoista. Rompere con questo
sistema significa riportare al centro del dibattito il valore della
solidarietà tra gli oppressi.
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