Due
analisi su temi molto diversi tra loro – gli squilibri Nord-Sud in
Italia e la guerra dei dazi scatenata da Trump – affrontano esattamente
lo stesso problema “sistemico”: le diseguaglianze di sviluppo
territoriale (dunque anche sociale) sono alla base di problemi politici e
geopolitici di prima grandezza.
Per
quanto riguarda il nostro paese, Giuseppe Berta, sul confindustriale
Sole24Ore, affronta e spiega le disuguaglianze elettorali con le
relative differenze di modello produttivo.
Il
Nord, in estrema sintesi, è agganciato strettamente alle economie (alle
filiere produttive) dell’Europa tedesca, ma non è più differenziato al
suo interno secondo le caratteristiche degli anni ‘90 (grandi imprese
nell’Ovest, a partire dalla Fiat, e “piccolo è bello” nel Nordest).
Anzi, la media impresa – o comunque impresa non egemone nel proprio
comparto – è la norma, allargata ormai anche a parti consistenti
dell’Emilia e del centro.
Il
Sud, invece, ha perso o sta per finire di perdere anche quelle
“cattedrali nel deserto” (è rimasta ormai soltanto l’Ilva di Taranto,
oltre alla Fiat di Melfi) che avrebbero dovuto far da volano per un
indotto mai nato davvero.
Ne
conseguono due aspettative di sintesi politico-economica che non
possono essere giustapposte (schematizzando molto: meno presenza dello
Stato al Nord, più presenza nel Mezzogiorno), e che in buona misura
spiegano le difficoltà a creare un governo comune Lega-Cinque Stelle.
Le
distanze si sono allargate a dismisura e nessuna visione unitaria del
futuro è fin qui apparsa all’orizzonte. Anche lo strisciante
trasferimento della “capitale di fatto” da Roma a Milano è allo stesso
tempo un effetto di quelle disuguaglianze e un loro fattore di
aggravamento, perché contribuisce a far piovere sempre più capitali da
investimento nella parte del paese che già ne attira il 90%.
A
questa dicotomia invalidante hanno dato un enorme contributo le
politiche europee di austerità, che hanno favorito esattamente la stessa
dinamica a livello continentale (con la Germania del ruolo del Nord e
quasi tutto il resto d’Europa nella posizione del Mezzogiorno).
A
bocce ferme – ossia secondo i trattati esistenti nella UE – questa
polarizzazione è irrisolvibile perché utile a confermare il modello
mercantilista tedesco (compressione salariale e del mercato interno per
avere una capacità di esportazione più aggressiva).
Sul
piano gobale, invece, Adriana Cerretelli minimizza – nei limiti del
possibile – lo scontro Usa-UE sui dazi doganali, trovando un filo di
interesse comune tra due sponde dell’Atlantico: il contrasto delle
capacità egemoniche della Cina.
Se
il discorso fosse limitabile al solo aspetto geopolitico – tra grandi
potenze, nazionali o plurinazionali – filerebbe pure. Ma c’è un ma,
grande quanto la crisi di egemonia Usa. La sola superpotenza rimasta
dopo il crollo del Muro è infatti tutt’altro che nel pieno delle sue
forze. Lo stesso ricorso al protezionismo più sgangherato (non solo su
acciaio e alluminio, ma soprattutto sulle tecnologie informatiche) ha un carattere molto “difensivo” e tutt’altro che vincente.
Basta
infatti ragionare sul fatto che i dazi sono un limite posto
all’interscambio, dunque hanno effetti più o meno depressivi e comunque
creano ostacoli sia sul piano dello sviluppo economico, sia su quello
della “collaborazione” internazionale. E questo vale sa per gli Usa che
per l’Unione Europea. Mentre al contrario la Cina è in grado di
“allagare di liquidità da investimento” tutti quei paesi che vanno alla
ricerca di relazioni internazionali meno improntate allo strozzinaggio.
Cosa
lega le due dinamiche (quella nazionale e quella globale)? La fine del
mito dei “ benefici illimitati del liberismo incontrollato”.
Non
si tratta, nota giustamente Cerretelli, di una revisione “ideologica”,
ma solo della presa d’atto che a via della “globalizzazione” ha prodotto
alla lunga risultati inaccettabili per i paesi (le aree economiche) che
ne erano stati i promotori. La delocalizzazione ha gonfiato i profitti
delle multinazionali occidentali, ma ha svuotato di reddito disponibile
le popolazioni (sempre occidentali); creando problemi enormi di gestione
politica che hanno portato un Trump alla Casa Bianca e ventate
“populiste” sempre meno arginabili senza cambiare indirizzo.
Quando le cose arrivano a questo punto (“Le cose si dissociano; il centro non può reggere”)
nella Storia si danno poche alternative. L’emergere di una nuova
visione più lungimirante, fondata su gambe robustissime (in pratica: un
passaggio di ruolo egemonico da una potenza a un’altra), in grado di
fare da “nuovo centro”. Oppure l’autonomizzazione delle parti, ovvero la
competizione di tutti contro tutti (Usa, Unione Europea, Cina, Russia,
in un vortice di alleanze che si fanno e si disfano continuamente).
Nelle parole del poeta (Yeats) questa situazione è descritta come “la pura anarchia si rovescia sul mondo”. Nella pratica del capitalismo reale, ahinoi, questa “anarchia” si presenta in genere come guerra.
*****
Risposte mirate per la nuova «Questione meridionale»
di Giuseppe Berta
La
«questione meridionale» è tornata, dopo una lunga stasi, a sollecitare
l’attenzione dei commentatori, a causa dei risultati elettorali che
sembrano aver riportato al centro un carattere costitutivo della storia
d’Italia. Si riaffaccia così l’immagine di un Paese che scorge nella
polarizzazione fra Nord e Sud una sorta di costante della sua identità.
In
realtà, una lettura di questo genere rischia di far da velo anche alla
comprensione effettiva degli esiti delle elezioni politiche. Riscoprire
la questione meridionale nei termini di un tempo rischia d’essere
fuorviante.
Perché
la base del dualismo italiano non assomiglia più per nulla a quella di
un tempo, non solo nelle forme tratteggiate dal meridionalismo storico,
ma nemmeno a quelle più recenti, che descrivevano un «miracolo
economico» trainato dalle grandi imprese industriali del Nord cui
affluivano gli imponenti flussi di forza-lavoro dal Mezzogiorno, tra gli
anni Cinquanta e gli anni Settanta. Nel corso degli ultimi due decenni
abbiamo invece assistito a una radicale mutazione che, in primo luogo,
ha cambiato il profilo del Nord.
Anzitutto,
quest’ultimo ha recuperato dei contorni più unitari, poiché è molto più
vaga e incerta la distinzione fra le due macro aree del Nord Ovest e
del Nord Est, che ha avuto grande successo, anche sul versante delle
rappresentazioni politiche. Dov’è oggi, infatti, il Nord Ovest dominato
dalla presenza delle grandi imprese di una volta? Da molte indagini,
anche da quelle sulle economie regionali promosse dalla Banca d’Italia
traspare il peso crescente delle imprese che hanno dimensioni
intermedie, o che, se sono grandi per i criteri di classificazione,
risultano invece occupare un ruolo intermedio nello spazio economico.
D’altra parte, il Nord Est è adesso tutt’altro che il regno della
piccola impresa, raccontato dalle cronache degli anni Ottanta ed
esaltato dalle campagne politiche della Lega. Nord Est e Nord Ovest
formano un invaso molto meno differenziato e dànno vita a una
configurazione economica e imprenditoriale che trova alimento
nell’Emilia e attraversa consistenti territori dell’Italia centrale. Se
si vuole rintracciare un modello economico italiano valido per la nostra
epoca, esso va rintracciato in una formazione economica e, in parte,
sociale che si struttura nel nuovo blocco del Centro-Nord, in cui anche
le appartenenze politiche tendono a essere molto meno nette del passato.
Certo, il nuovo Nord ha un polo di convergenza riconoscibile in quella
sorta di capitale di fatto che è Milano. La città pare ora voler
sviluppare una funzione di leadership che in precedenza non ha cercato o
voluto. Ma è chiaro che è il nuovo mix economico a dare risalto al suo
ruolo, specie all’interno di un Paese smarrito com’è adesso il nostro.
A
questa riconfigurazione del modello economico, e ancor più ai suoi
processi di ricentraggio, il Mezzogiorno è rimasto estraneo. Con le
conseguenze che ora possiamo osservare: nel suo complesso, l’economia
italiana ne ricava un evidente effetto di debolezza, mentre la politica
porta alla luce una domanda che è, al contempo, di cambiamento e di
richiesta di intervento e di tutela. Quale può essere la reazione, nel
Sud, alla notizia, riportata martedì scorso da questo giornale, che il
90% dei flussi d’investimento sollecitati da Industria 4.0 sono andati
alle aree più forti del Paese? Ma sono i tanti segnali che fanno capire
che i problemi vissuti dalla società meridionale sono affrontati con una
logica differente da quella che s’impiega altrove: il caso dell’Ilva di
Taranto, destinato presto a ritornare all’attenzione pubblica, ne è un
esempio eloquente.
La
governabilità dell’Italia non è soltanto messa a rischio da dinamiche
della rappresentanza politica che stanno subendo un’accelerazione
vertiginosa. Dipende in misura crescente dal venir meno dei legami
d’integrazione tra la componente maggioritaria del Paese (che appunto
sembra dar forma a un almeno embrionale “modello italiano”) e l’altra,
quella meridionale e minoritaria, che sta diventando il luogo di massima
condensazione dell’intero ventaglio delle nostre contraddizioni.
L’esistenza di divari così gravi toglie ogni speranza che si possa
arrivare a una sintesi politica. Non ci vuol molto a capire che essa non
può venire dalla somma delle rivendicazioni politiche del Nord e del
Sud. Forse solo Steve Bannon, l’ideologo della destra radicale di Trump
che poco o nulla deve conoscere dell’Italia, può credere che la somma
della “flat tax”, dall’abrogazione della legge pensionistica e del
reddito di cittadinanza possa produrre quell’alleanza nazionalista in
grado di abbattere Bruxelles e la moneta unica, com’è nei suoi auspici.
L’osservazione
analitica della realtà italiana spinge invece in una direzione del
tutto contraria, specie se si pensa che la deriva neo-nazionalista sia
un pericolo. Occorre condurre una una rivisitazione delle politiche
pubbliche, che vanno declinate in maniera diversa a seconda dei sistemi
territoriali di riferimento. Il Paese ha sprecato un’occasione quando
era di moda parlare di federalismo, un dibattito inconcludente che ha
soltanto rimandato il momento di fare i conti con i problemi più
urgenti. Se la politica vuole avere una chance di governare davvero
l’Italia, per quella che essa è oggi, e di non disperdere tutte le
proprie risorse alla ricerca di successi momentanei, è questa la via da
perseguire.
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In cerca di un nuovo ordine
di Adriana Cerretelli
Più
crescita mondiale dice l’Ocse, 3,9% quest’anno e il prossimo, a patto
che non esploda il protezionismo. Ma i venti di guerre commerciali e gli
altolà agli investimenti cinesi in Occidente, la cronaca di questi
giorni, sono solo protezionismo nudo e crudo o non invece il grimaldello
di un sommovimento culturale?
Un
sommovimento che fa i conti con il sistema del dopoguerra in frantumi e
i contraccolpi della globalizzazione a ruota libera per ricostruire un
nuovo ordine mondiale fatto di più equilibrio e meno Far West.
L’interrogativo non ha una risposta immediata: arriverà solo quando la
polvere delle attuali tensioni si sarà posata e se ne potranno misurare
gli effetti concreti. Per ora colpisce un fatto paradossale: dietro i
violenti scontri euro-americani si intravede una singolare ma sommersa
unità di intenti. Che di fatto anima la comune politica di containment
della Cina.
Tra
Stati Uniti ed Europa oggi gli attriti appaiono insanabili. Impegnato
nella campagna elettorale in Pennsylvania, Donald Trump sembra giocare a
spararle sempre più grosse: non solo dazi imminenti sull’import di
acciaio e alluminio da Ue, Canada e Giappone ma balzelli anche sulle
auto tedesche, che pure sono ampiamente prodotte anche negli Stati
Uniti.
L’Europa
si prepara a rispondere prendendo in ostaggio quasi 3 miliardi di
export Usa. Però prima di procedere aspetta le misure americane e
continua a negoziare per ottenere sconti e ridurre i danni alla propria
industria.
I
segnali dalla Casa Bianca sono tanti e confusi: gli europei devono
abbassare i dazi, agricoli in testa, aumentare i contributi alle spese
militari in sede Nato, fare di più nei negoziati con la Cina per ridurne
le enormi sovraccapacità produttive, prima di tutto nella siderurgia.
Sono tutti i Leitmotiv dell’America First, dove però la supremazia suona
più difensiva che offensiva, ansiosa di correzioni di squilibri
mondiali consolidati più che di nuovi spazi di potenza da riempire. In
fondo suona più europea che “gringa”.
Il
parallelismo di interessi tra le sue sponde dell’Atlantico diventa più
evidente se si guarda alle reazioni di Washington e Berlino di fronte
alle scalate cinesi di imprese strategiche, il cui controllo rientra
nella difesa della sicurezza nazionale.
Proprio
perché avrebbe permesso alla Cina il sorpasso degli Stati Uniti nella
tecnologia 5G, anticamera dell’intelligenza artificiale, Trump ha
bloccato la scalata ostile di Broadcom al concorrente Qualcomm, n.2
americano nei semiconduttori, come aveva gia fatto nel 2017 con Lattice e
prima di lui il presidente Barak Obama con Aixtron. Per le stesse
ragioni il Congresso rafforzerà controlli e raggio di azione della
potente commissione sugli investimenti esteri.
In
Germania come in Europa le vulnerabilità sono maggiori perché le
salvaguardie sono tradizionalmente minori. Anche se ora il modello
americano sta diventando sempre più quello da imitare. Dopo aver
digerito due anni fa lo shock della conquista di Kuka, il suo campione
nella robotica, da parte della cinese Midea, Berlino ha subito in
febbraio un colpo ancora più duro quando Geely è diventata con poco meno
del 10% il maggior azionista di Daimler che controlla Mercedes-Benz,
all’avanguardia nelle batterie per l’auto elettrica. Anche il n.1 nel
capitale di Deutsche Bank è diventato cinese.
Per
questo da liberista incrollabile la Germania ha cambiato verso: non
solo si sta armando di difese più efficaci contro investimenti esteri
ostili ma con Francia e Italia invoca una cintura di sicurezza anche
europea. I timori dell’Unione vanno ormai oltre quelli della sistematica
rapina delle sue supertecnologie destinate a foraggiare il Made in
China 2025, il programma industriale per fare della Cina il numero 1 del
mondo nel manifatturiero di punta. Passano per le intrusioni in casa
propria che dividono e condizionano i partner Ue sommersi e comprati
dagli investimenti a pioggia per costruire le infrastrutture della nuova
Via della Seta, dai vertici annuali del gruppo 16+1 che lega a doppio
filo Pechino con i paesi dell’Est e dei Balcani, di cui 11 Ue. Il tutto
mentre da anni Bruxelles tenta invano di strappare a Pechino un accordo
sugli investimenti che ne abbatta le troppe barriere.
Tutto
protezionismo? Certo, la spirale di ritorsioni e contro-ritorsioni è
dietro l’angolo. Per tutti. Ed è molto stretto e accidentato il sentiero
per rifare un ordine mondiale più equo ed equilibrato per tutti. Ma è
un rischio da correre. Se Stati Uniti ed Europa si stanno ricredendo sui
benefici illimitati del liberismo incontrollato non è per sconfessione
ideologica ma perché sono stufi di vederlo strumentalizzato da
concorrenti spregiudicati che lo usano per giocare con le carte
truccate.. Per ora commerciale, certo…
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