venerdì 19 gennaio 2018

Pillola del giorno dopo: il ministero ne conferma l’efficacia (ma non ne trae le conseguenze).

Finalmente – con quasi un anno di ritardo – è stata pubblicata la relazione del ministero della Salute sull'applicazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza. Relazione che conferma l'efficacia e la sicurezza della pillola del giorno dopo e l'utilità dei consultori. E da cui quindi la ministra Lorenzin, che pure firma la relazione, dovrebbe trarre le logiche conseguenze.


micromega Anna Pompili
Porta la data del 22 dicembre 2017, ma è stata resa pubblica solo l’11 gennaio 2018, quasi un anno dopo la scadenza stabilita dalla legge: è la relazione al parlamento sullo stato di applicazione della legge 194, che esce in pieno clima pre-elettorale, col tono trionfalistico e autocelebrativo di una ministra che si è distinta per il totale immobilismo sia nel garantire l’accesso all’ivg e la piena applicazione della legge, sia nella prevenzione del ricorso alle interruzioni volontarie di gravidanza.
Il primo dato riportato dalla relazione è la conferma della tendenza alla riduzione dei tassi di abortività, già molto bassi nel nostro paese (siamo a 84.926 aborti volontari nel 2016, con un tasso di abortività del 6,5 per 1000). Secondo la ministra ciò potrebbe essere dovuto, almeno in parte, alla eliminazione dell’obbligo di prescrizione medica per i contraccettivi ormonali di emergenza (le pillole del giorno dopo e dei cinque giorni dopo) per le donne che abbiano compiuto la maggiore età. Ciò ha portato ad un’impennata delle vendite di questi contraccettivi, che sono più che decuplicate nel biennio 2014-2016.
Questa osservazione, già fatta nella relazione precedente, avrebbe dovuto indurre la ministra alle ovvie conseguenze, ossia ad eliminare l’obbligo di prescrizione anche per le minorenni, e a consentirne la dispensazione gratuita nei consultori.
È in particolare qui, infatti, che la domanda del contraccettivo di emergenza può essere legata ad un’azione più ampia, che sappia liberare la sessualità dalla paura, legandola invece alla consapevolezza e alla libertà di scelta, con un’azione di “enpowerment” che è fondamentale per una politica che punti alla reale promozione della salute.

L’assoluta mancanza di azioni volte alla promozione della salute riproduttiva emerge anche dall’analisi dei dati sulla ivg farmacologica, che confermano percentuali bassissime rispetto al totale delle ivg (15,2% nel 2015 e 15,7% nel 2016). La ministra che sbandiera l’evidenza scientifica nella giusta campagna sui vaccini, usa invece il paraocchi nel campo della salute riproduttiva, dubitando degli stessi dati da lei riportati nella relazione, che “sembrano confermare” la sicurezza della metodica. Sono dati di evidenza in linea con quelli che ci vengono dalla esperienza ormai trentennale degli altri paesi, nei quali l’ivg farmacologica fino a 7 settimane di gravidanza viene eseguita in regime ambulatoriale o a domicilio. Anche qui l’immobilismo impera, e Lorenzin continua ad imporre l’inaccettabile inappropriatezza del ricovero ordinario (che prevede una ospedalizzazione media di 3 giorni, con costi elevatissimi per il sistema sanitario). È l’espressione di una idea di salute sessuale e riproduttiva per la quale la libertà di scelta e l’autodeterminazione sono bestemmie, la stessa che ha bloccato il progetto avanzato dalla regione lazio per la sperimentazione dell’ivg farmacologica nei consultori (e di fronte alla quale gli amministratori regionali hanno mostrato una assoluta mancanza di coraggio). L’appropriatezza delle prestazioni, cui Lorenzin richiama costantemente gli operatori sanitari, si è pietosamente sgretolata sotto il tallone di ferro della ideologia confessionale, imponendo un enorme spreco di risorse per il sistema sanitario nazionale.

Immancabile il capitolo sull’obiezione di coscienza: di fronte ai dati sull’obiezione di struttura (il 40% delle strutture viola il dettato dell’art.9 della legge e non si occupa di ivg) Lorenzin minimizza, anziché richiamare gli amministratori regionali al loro compito di garanzia dell’applicazione della legge. Va notato che in molte regioni l’obiezione di struttura coinvolge le strutture universitarie, che dovrebbero invece essere in prima linea, anche per assolvere al compito di formazione del personale, compreso quello che abbia sollevato l’obiezione di coscienza. Va infatti ribadito che quest’ultimo non può in alcun caso esimersi dall’intervenire laddove esistano situazioni di pericolo per la vita della donna.

Tutto il capitolo è volto invece a ribadire la necessità di garantire il diritto all’obiezione di coscienza, che sembra prioritario rispetto al diritto delle donne alla salute; i non obiettori vengono dipinti come scansafatiche che non vogliono prendersi un piccolo carico in più di lavoro, che certo non impedisce loro di fare altro. Al di là dei dubbi più volte sollevati circa le modalità di rilevazione, va sottolineato che la ministra evidentemente ignora il lavoro svolto dai medici dei centri ivg, che non si limita alla esecuzione di un certo numero di interventi o alla somministrazione di due compresse: la parte forse più complessa e delicata del nostro lavoro consiste nel “counselling”, anche ai fini della contraccezione futura. Personalmente ogni settimana dedico 4 mattine lavorative all’attività ivg: in due di queste eseguo 12 ivg (un po’ di più delle 1,3 che la ministra ci attribuisce!), mentre le altre due sono dedicate alla valutazione, al counselling e ai controlli post-ivg. Se la ministra avesse ascoltato le critiche espresse da chi lavora sul campo e avesse previsto la presenza, nella composizione del tavolo tecnico sull’obiezione di coscienza, oltre che degli amministratori, anche di “tecnici” (i ginecologi non obiettori), si sarebbero potute affrontare concretamente le criticità, liberi da paraocchi ideologici.

Altrettanto immancabile il capitolo sui consultori familiari, dei quali si riafferma la centralità nelle politiche di prevenzione; Lorenzin ci dice che sono un po’ meno rispetto a quanto definito dalla legge 34 del 1996 e dal POMI del 2000: dovevano essere 1 ogni 20.000 abitanti, secondo la ministra sono 0,6. Possiamo renderci conto che sono molto meno, in realtà, consultando lo stesso sito del ministero, dove vengono contati tra i consultori anche i centri vaccinali, i centri di neuropsichiatria infantile e i centri per disabili adulti. Ma la realtà è ancora più drammatica se si considera che per la gran parte i consultori hanno equipe ridotte all’osso o incomplete.

Ma il fiore all’occhiello è rappresentato dalla valutazione del ruolo dei consultori nella prevenzione del ricorso alla ivg, che per Lorenzin sarebbe testimoniato dal fatto che il numero di colloqui per ivg è superiore al numero di documenti/certificati effettivamente rilasciati: una affermazione che ribadisce l’impostazione ideologica che ha guidato l’operato della ministra, per la quale la prevenzione starebbe nel cercare di convincere le donne a non abortire. Perché nella mente e nelle politiche di questi personaggi non c’è alcun posto per il diritto alle scelte riproduttive e l’autodeterminazione delle persone.

(18 gennaio 2018)

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