L’economia come scienza compiuta, quando, pur differenziate, le ricerche riposavano su un apparente solido terreno comune, è stata travolta dalla crisi iniziata a settembre 2007. Al progredire della crisi e all’assistere al “doppio tuffo” – simile nell’andamento alla crisi del 1929: il “double dip” – molti hanno scoperto Keynes, ma non le politiche di Roosevelt, che ebbero un effetto lento ma sicuro sulla ripresa.
Anzi, gli economisti “standard”, che definisco pseudo keynesiani, hanno creduto che il pensiero di Keynes fosse corretto nella crisi, ma sbagliato quando la crisi si fosse risolta, abbandonando una qualsiasi logica e affidandosi a un misto di realismo e fede.
Anche durante la crisi, del resto, le politiche keynesiane non sono state applicate con la forza sufficiente, mentre prevalgono da allora le cosiddette politiche dell’offerta. Si tratta di azioni volte a limitare il ruolo dello Stato, della democrazia rappresentativa e del sindacato (per ridurre il deficit pubblico e, inevitabilmente, anche la domanda che ne derivava), a stimolare l’aumento della produttività e, riducendo i salari e peggiorando la distribuzione del reddito, a rincorrere una maggiore competitività. Insieme, maggiore produttività e competitività offrirebbero, attraverso le esportazioni, l’occasione per risolvere la crisi, e cioè la disoccupazione di massa e la riduzione della capacità produttiva, dimenticando che si tratta di manovre immediatamente depressive, per di più mercantiliste, che attendono la controffensiva dei Paesi danneggiati.
Queste politiche hanno un nome: le “riforme strutturali”, desiderate dai partiti conservatori in tutto il pianeta, che sono soltanto una ripresa di vigore di ciò che veniva chiamato anni addietro il famigerato “Washington Consensus”. All’epoca, il Fondo Monetario e la Banca Mondiale cercavano di correggere i disavanzi nei conti con l’estero di tanti Paesi (in via di sviluppo o già sviluppati: la ricetta era la stessa), impoverendone le masse per accrescere le esportazioni, ignorando che, in molti casi, le misure erano depressive e che spesso si trattava di merci che al calare del prezzo non mostravano aumenti negli acquisti. Bisogna però dichiarare l’eccezione Obama che, nella sua prima presidenza, non si è allineato ai sostenitori dell’austerità, ma che nella sua seconda ha perso il controllo della Camera e ha visto la crescita di una destra estrema, tutta all’attacco delle politiche keynesiane. È evidente una diffusa cultura individualista, fortemente retriva, che ritiene il successo di Obama frutto della capacità e volontà dei singoli individui. Del resto, si può notare un certo titanismo, tipico dell’individualismo, in chi opera per ridurre il ruolo pubblico, che pretende che sia lo Stato l’artefice della sua stessa esautorazione.
Anche cosa sia la “struttura” da riformare è in realtà oscuro: l’economia sarebbe composta di lavoro e capitale e lo Stato-titano (che però dovrebbe essere rimpicciolito) avrebbe il compito di indebolire il primo (per la competitività) e rafforzare il secondo (per la produttività). La struttura per settori, per imprese, per prodotti, per territori non è considerata, perché “de minimis non curat praetor”.
Se la crisi non ha veramente cambiato la cultura economica dominante, né la politica economica (con l’eccezione ricordata del primo Obama), vi possono essere ragioni legate alla distribuzione del reddito e della ricchezza. Sappiamo che i redditi da profitti sono cresciuti, mentre quelli da lavoro sono diminuiti o sono aumentati meno che in proporzione, ma forse la novità maggiore sta nella crescita straordinaria dei volumi e dei valori finanziari – pur nella crisi o nella stagnazione delle economie. È vero che le economie dei Paesi emergenti non hanno visto grandi crolli del PIL, e ciò può aver influito sulla dinamica degli indici finanziari. È però dubbio, perché la crescita economica di quei Paesi è stata inferiore al loro stesso potenziale, perciò, i valori dei titoli ivi investiti avrebbero dovuto mostrare una caduta superiore a quella verificatasi. Non è la prima volta nella storia che accade una separazione tra ricchezza e reddito, ma ogni volta sembra una novità, anche perché il fenomeno è classificato come un errore (dello Stato, non delle imprese) o come una distorsione casuale (la “bolla”, parola tanto suggestiva quanto inspiegata); certo, nei modelli di equilibrio questa separazione è assente perché non è razionale. Il libro coglie, invece, il problema, che è uno dei casi più clamorosi di squilibrio, ed è andato alla ricerca dei fattori di quella separazione.
In tutto questo la scienza economica è stata piuttosto silenziosa, la critica resta inascoltata – pur avendo a disposizione economisti rivoluzionari come Sraffa, Pasinetti e Garegnani -. Le poche elaborazioni intelligenti sui modelli di equilibrio standard operano variandone le ipotesi di base, senza preoccuparsi se poi il modello stia in piedi. L’uso della calibrazione – utilizzare i dati reali al posto delle ipotesi iniziali senza accertarsi se siano compatibili con l’impianto teorico-filosofico del modello –mi sembra la prova dello sfinimento dell’economia tradizionale.
C’è qualcosa che impedisce a economisti e a chi pratica la politica economica di liberarsi del fardello della scuola neoclassica, quella che dobbiamo sia a Walras, e al suo primo modello di equilibrio, sia ad Arrow-Debreu, con l’elaborazione del moderno modello di equilibrio economico generale: ambedue affondano le loro radici alla metà del XIX secolo, con Menger, Jevons, per citarne solo alcuni, e con qualche rilevante diversità, Marshall e Pigou; più di recente con Hicks, che però ha avuto il coraggio di smentirsi. Dovrei ricordare Milton Friedman e, più ancora, von Hayek, che hanno costruito una struttura filosofica intorno ai modelli di equilibrio nei quali il mercato si autosostiene e si corregge.
Il libro ritiene invece che il vero ostacolo a una nuova riflessione stia proprio nel cuore dei modelli, nel concetto di equilibrio, ed è scritto con lo scopo di demolirlo o di ridurne drasticamente la portata. Per far ciò, bisogna ricominciare daccapo, e questo libro riprende alcune proposizioni derivanti dai Classici (Smith, Ricardo, Marx) e dagli economisti che li hanno seguiti. Spesso si pensa che, in assenza di equilibrio, tutto si risolva in conflitto, in “homo homini lupus”, ma non è così, perché lo squilibrio è un modo di essere del capitalismo che pur senza rendersene conto, ha bisogno di stabilizzatori (i governi, i corpi intermedi, le deontologie) che non rispondano ai soggetti ipotizzati nei modelli di equilibrio, proprio perché cambia continuamente.
Insieme al concetto di squilibrio, il libro lavora sul concetto di struttura (non quella dei nuovi riformatori): nome che apparentemente sembra solido, quasi petroso, ma che in realtà è ciò che cambia in continuazione. La struttura dell’economia è stata studiata a fondo nella letteratura moderna, ma nella maggioranza degli studiosi la struttura non è che il complesso delle regole che guidano le scelte individuali: in fondo, il modello di equilibrio è un modello di struttura, che ha però il difetto di essere, appunto, solido e immutabile – come le leggi economiche individuali (ottimizzazione, utilità, egoismo, costi crescenti, libera concorrenza, ecc.) nelle quali è rappresentato. Qui, invece, la struttura è proprio l’elemento variabile, ma non è il ciclo economico che, negli economisti tradizionali, è, sì, un cambiamento strutturale, ma tale da ricostruire sempre l’equilibrio: se si eccettuano Schumpeter e Sylos Labini, per i quali i cicli sono storia. Chi se n’è occupato più di recente li ha identificati come forme di comportamento razionale, riconducibili al modello di equilibrio.
Squilibrio e struttura vanno studiati insieme, perché sono i cambiamenti strutturali che generano squilibrio. Cambiano i beni prodotti, perché cambia la domanda dei beni al crescere del reddito: i beni necessari occupano sempre meno spazio, e quelli cosiddetti secondari ne acquistano di nuovo, per poi ripiegare all’apparire di nuovi beni. È la legge di Engel, simile al cambiamento del livello di sussistenza al passare del tempo, ben presente nel modello di Pasinetti, ma mai ricordato nei modelli standard, nei quali il prodotto è sempre uguale. Ora, se la struttura dei consumi varia, varierà anche la struttura della produzione; se è vero che esiste una qualche elasticità nella produzione nel passaggio da un prodotto a un altro, tuttavia il passaggio implica nuovi costi, nuove forniture, nuove capacità professionali, nuove comunicazioni. Probabilmente anche nuove tecnologie.
Le ragioni dello squilibrio sono essenzialmente nell’incapacità delle imprese e delle famiglie di conoscere gli effetti macroeconomici delle loro azioni. Nelle teorie tradizionali delle imprese, l’imprenditore (o il capitalista, non è mai chiaro chi comanda) massimizza il profitto, sia riducendo i costi di produzione sia accrescendo la produttività della propria impresa attraverso nuove tecnologie. Egli non sa, tuttavia, come misurare il suo profitto, se non assegnando un valore al capitale già speso, che però contiene già il tasso di interesse (e perciò, il tasso di profitto presente sul mercato), e non può rendersi conto se la sua scelta influenza a sua volta il tasso di interesse e perciò anche il valore del suo capitale. In genere, le imprese guardano al passato, ma si tratta di una procedura destinata alla sconfitta, perché il passato non si ripete, anche proprio per le decisioni prese dagli imprenditori. Naturalmente, sono le decisioni di impresa che muovono l’economia, ma non è chiaro come tali decisioni sono prese, e quanto influenzino e siano influenzate dall’andamento dell’economia nel suo complesso. Nel libro si accenna a una mia ipotesi, in base alla quale sono le singole funzioni (o divisioni) dell’impresa che cercano di ottimizzare il proprio specifico tasso di profitto (la produzione, la progettazione, le vendite, la finanza, il personale, ecc.) a loro volta mediate dall’imprenditore per massimizzare il profitto, ma anche queste funzioni prendono decisioni senza conoscerne l’effetto sull’economia. È invece la dinamica economica generale che altera i poteri delle singole funzioni e obbliga ogni volta l’imprenditore a variare la mediazione che ha esercitato nel passato tra interessi interni contrapposti. Così, se è indubbio che l’economia è trainata dalle decisioni imprenditoriali, tuttavia, sono gli effetti non conosciuti di queste decisioni che alterano continuamente la struttura. Una delle ragioni per l’intervento pubblico, sta proprio nell’ignoranza dei decisori: anche lo Stato sbaglia, ma a differenza delle imprese, può correggere gli effetti negativi della propria azione sull’economia nel suo complesso.
Molto rilievo, in questo libro, è dato al progresso tecnico, specialmente nella sua forma di nuove tecniche “superiori” – ovvero quelle che costano di meno e producono di più rispetto a quelle esistenti, quali che siano i rapporti tra i prezzi dei fattori della produzione -. L’idea è che nessun imprenditore sceglierà mai una tecnica che costa di meno e produce di meno, o cambierà la propria tecnica se si altera il rapporto tra costo del lavoro e costo del capitale, dato che non sa nulla del secondo; andrà perciò di regola alla ricerca di tecniche superiori. Il progresso tecnico, a sua volta, cambia la struttura della produzione e può anche cambiare la struttura della domanda (consumi, investimenti, esportazioni). Un avanzamento introdotto nel libro è nella qualificazione del progresso tecnico come elemento della domanda effettiva, proprio per gli effetti macroeconomici dell’applicazione delle nuove tecniche. Nello squilibrio, tuttavia, gli imprenditori non sanno se le tecniche scelte sono effettivamente superiori per l’economia nel suo complesso, e così si possono facilmente presentare grandi fallimenti, distorsioni nei prezzi, nei costi, sprechi generalizzati, situazioni che giustificano l’intervento pubblico. L’intuizione è da sviluppare, al di là delle classificazioni delle tecnologie che la letteratura offre in abbondanza e qui citate. Il libro insiste sull’innovazione, processo più complesso, anch’esso responsabile di squilibrio, non necessariamente attraverso tecniche superiori, ma indicatore del potenziale di cambiamento di singoli settori e di intere economie.
Il campo dei cambiamenti strutturali è in realtà molto ampio, dalla redistribuzione del reddito, che certamente altera la struttura dell’economia, alla dinamica ambientale, all’immensa varietà della storia, e la relazione tra tali cambiamenti e cosa tenga insieme micro e macroeconomia è ancora da studiare: del resto, una nuova scienza economica non c’è ancora, e va costruita pezzo dopo pezzo. L’opportunità della nuova impostazione sulla politica economica, come anticipato, punta sulla centralità dell’innovazione – e dello Stato che deve promuoverla-. Guardano al progresso tecnico anche per illustrare la poca fondatezza delle politiche europee, che apparentemente incoraggiano l’innovazione, ma chiudono nella prigione del “consolidamento fiscale” l’unico soggetto, lo Stato, capace di mettere in moto l’innovazione. Abbracciati alle teorie dell’equilibrio, gli europei non sanno che l’investimento – in debito, naturalmente – finanzia se stesso. Forse per questo il libro non analizza tutte le implicazioni per lo squilibrio della presenza maggiore o minore dello Stato, ma non avrebbe torto, se le trasformazioni continue del capitalismo giustificassero volume e specificità dell’intervento pubblico. Poiché non è così, o non è solo così, lo Stato avendo una propria autonomia, il libro conclude il lavoro con la considerazione della necessità di un programma pubblico per l’Europa, proveniente dalle istituzioni europee piuttosto che dai suoi membri egemoni.
In tutto ciò, va notato che l’Europa e i singoli stati hanno umiliato il ruolo del sindacato, riducendo la domanda di lavoro, precarizzandolo e soprattutto riducendone la professionalità (mentre si cerca di stimolare l’innovazione!), e proprio durante la crisi, quando il sindacato avrebbe dovuto essere esaltato come soggetto non legato all’equilibrio/squilibrio del mercato. Il sindacato è forse una delle maggiori forze originarie in grado di qualificare lo squilibrio e l’inevitabile degrado della domanda effettiva in regime capitalistico, ma è la politica che lo deve utilizzare a questo scopo, e se i capitalisti sono prigionieri del pensiero economico neoclassico, non lo faranno.
L’abbondante letteratura citata è anche una guida per gli studenti – e gli studiosi – che hanno quasi dimenticato l’economia politica, e si limitano a osservare la realtà, non sollevando il velo di ignoranza sugli effetti macroeconomici dell’azione di ciascuno che Adam Smith aveva, per primo, definito.
Il testo pubblicato costituisce la prefazione di Paolo Leon al volume di Roberto Romano e Stefano Lucarelli, ‘Squilibrio. Il labirinto della crescita e dello sviluppo capitalistico’, Ediesse Libri (Ediesse s.r.l. Via delle Quattro Fontane, 109 – 00184 Roma, Tel. 06/448701 – Fax 06/44870335, www.ediesseonline.it ; ediesse@cgil.it ).
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