Da alcuni anni la scuola italiana, conformandosi ad alcuni orientamenti europei, ha avviato un processo di rivisitazione dell’impianto complessivo dell’azione didattica. Il processo è stato naturalmente accelerato nella formazione primaria, per poi andare a coinvolgere i successivi gradi di istruzione.
Oggi la didattica per competenze ha
sostanzialmente completato il suo percorso di affermazione formale
nell’intero ciclo scolastico, ma non ancora quello di penetrazione
reale. Spesso, infatti, la certificazione delle competenze è una mera
compilazione aggregata alla pagella tradizionale, che non si accompagna
alla trasformazione didattica attesa.
Per
i non addetti ai lavori, occorre semplificare il concetto, che è assai
complesso e tutt’altro che condiviso. L’obiettivo di lungo periodo è
quello di superare la didattica per discipline, e approdare alla sola
valutazione di competenze. Troppo lungo e articolato sarebbe ricostruire
il quando e il perché di questa dinamica. Molti fattori vi hanno preso
parte, tra i quali le aspettative del mondo del lavoro (soprattutto
quello destinato ad accogliere i diplomati) – auspicante uno scarico
sulla collettività di costi e tempi per la formazione del personale –,
alcuni impulsi emulativi di tecnici e pedagogisti ministeriali nei
confronti di modelli stranieri, ma pure una giusta e motivata istanza di
rinnovamento di alcune stanche reiterazioni di metodi didattici poco
efficaci. Non molti sanno, però, che in alcuni paesi europei ci stanno
già ripensando, abbandonando l’idea delle competenze trasversali per
un’effettiva rivalutazione delle competenze strettamente disciplinari
(probabilmente in Italia ce ne accorgeremo tra un decennio).
Non è vero che la didattica per competenze riprenda e formalizzi cose “che abbiamo sempre fatto”,
così come non si tratta di un mero riaggiustamento burocratico del
lavoro dei docenti. Come Mario Castoldi mette in evidenza in apertura
del suo ultimo libro (Valutare e certificare le competenze, Carocci 2016), occorre cogliere la “potenzialità eversiva” (p. 17) di quel costrutto, poiché esso implica un cambiamento “profondo e globale, che modifica i paradigmi e gli assunti di valore dell’esperienza scolastica” (id.).
Naturalmente nessun ministro sarebbe in grado di intervenire sul metodo
didattico dei docenti con atteggiamento perentorio, autoritario e
immediato; ciononostante, le nostre istituzioni educative mirano a porre
la classe docente di fronte a una trasformazione graduale, alla quale
però è impossibile sottrarsi. Occorre leggere in questo senso
l’insistenza sulle prove Invalsi, sul curricolo verticale e
sull’alternanza scuola-lavoro. Passo dopo passo, si intende rimuovere la
scuola di ieri, e trasferire nelle aule un impianto didattico
completamente differente. Per questa ragione, è obbligo di ciascun
operatore scolastico studiare questo fenomeno e formarsi un’opinione a
riguardo.
Non
è la didattica per competenze in sé a essere rivoluzionaria. Né in
senso positivo, né negativo. Tutte le prassi didattiche, anche tra loro
divergenti, se dominate e gestite con serietà e buon senso, hanno un
impatto positivo sui discenti. Ma ciò che assume effettivamente un
carattere “eversivo” è proprio il tentativo dei governi, o meglio, di un
team di tecnici ministeriali, di imporre – di fatto, e senza diritto – un metodo di lavoro.
Insieme
a Castoldi, proviamo a fare ordine nel ragionamento, e cominciamo a
chiarire il significato di “competenza”. Il dibattito su questo semplice
costrutto è talmente confuso da mettere in condizione chiunque si
avvicini al tema, di dover “scegliere” una delle possibili accezioni.
Castoldi riprende quella fornita da Pellerey nel 2004: una competenza è
una capacità di far fronte a un compito, o a
un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e a orchestrare le
proprie risorse interne, cognitive, affettive e volitive, e a utilizzare
quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo.
Scomponendo questa articolata concezione, possiamo intendere che la
competenza si riferisce a un certo grado di padronanza nell’affrontare
problemi (quindi un sistema di conoscenze grazie al quale orientarsi,
unito a una serie di abilità cognitive per elaborare le informazioni a
disposizione), l’impiego di risorse interne, anche affettive (ad esempio
il controllo dell’ansia) e volitive (capacità di concentrazione e
perseveranza), nonché delle risorse esterne (riferito, ad esempio, a
compagni con cui cooperare).
La
prima questione che potrebbe urtare la suscettibilità del lettore, può
consistere nella valutazione delle risorse affettive e volitive.
Infatti, aggiunge Castoldi, “l’analisi della competenza richiede di
andare oltre i comportamenti osservabili e di prestare attenzione alle
disposizioni interne del soggetto e alle modalità con cui esso si
avvicina allo svolgimento di un compito operativo” (p. 26). Non
dovrebbe impressionare questo passaggio, perché in fondo qualunque
insegnante con un po’ di mestiere tiene costantemente in considerazione
tali variabili. Naturalmente non è del tutto chiaro come questo elemento
estremamente soggettivo possa esser ponderato adeguatamente nelle tanto
sostenute prove standardizzate.
Castoldi
si rende perfettamente conto di questo salto logico, e precisa che in
realtà lo scopo dell’Invalsi è diverso, ed è finalizzato all’armonizzazione della produttività del sistema di istruzione. Se la didattica per competenze ha come fine interno una personalizzazione dell’atto valutativo “in quanto giudizio riferito alla complessità della persona” (p. 37), evidentemente le prove standardizzate mirano ad “alcuni traguardi astratti, socialmente riconosciuti come irrinunciabili” (id.). Come si esce da quella che pare una non trascurabile contraddizione?
Secondo
l’autore, le verifiche omologanti non valutano il singolo studente ma
le istituzioni scolastiche. Se tutti comprendono il valore formativo
della valutazione di un allievo, non è del tutto evidente, invece, il
fine della cosiddetta “armonizzazione” del sistema scolastico. A cosa
serve? Quale risultato ci si attende?
Le
prove standardizzate vengono formulate in modo da produrre un
fallimento in quelle classi o in quelle scuole dove il metodo
d’insegnamento tende a resistere a una politica di cambiamento e non
accoglie in tutto e per tutto il nuovo sistema. Non importa se questi
test siano costruiti bene o male – non si vuole fare una polemica nel
merito, perché ad esempio le prove Invalsi di matematica sono per certi
versi molto interessanti – ma è lo spirito quello che conta. Si tratta
di una questione eminentemente politica, perché è in gioco l’impianto
liberale delle politiche educative, garantito dalla nostra Costituzione.
Riflettendo
sullo scopo dei test Invalsi, Castoldi esplicita con molta chiarezza il
loro fine intrinseco: essi mirano a rispondere a “una istanza formativa
nei confronti delle scuole e degli operatori scolastici” (p. 40).
Provano dunque, gradualmente, a piegare la didattica in una direzione
prestabilita. Si dirà: ma questo è ciò che lo Stato si è sempre
riservato di fare con gli esami di fine ciclo. Non è esattamente così.
Nella prova d’esame, infatti, viene sempre fornita dal Ministero la
possibilità di scegliere la traccia e la tipologia di prova. Le
verifiche scritte nelle varie discipline sono generalmente congegnate in
modo tale da poter essere affrontate a prescindere dal metodo didattico
scelto dal docente. Con le prove standardizzate, invece, la tipologia
dei quesiti è molto stringente, e induce alla ristrutturazione del
metodo d’insegnamento. È inevitabile.
La
proposta didattica potrebbe anche essere buona, ma è accettabile che lo
Stato eserciti pressioni tanto forti nelle scelte didattiche dei
singoli docenti?
Torniamo però al costrutto di “competenza”. Quali sono le conseguenze di questa proposta eversiva? Scrive Castoldi: “ciò
comporta uno spostamento di attenzione dalla cultura scolastica,
tendenzialmente formale e decontestualizzata, alle situazioni reali di
vita, come contesti nei quali verificare il possesso delle competenze
indagate” per approdare a “un concetto di educazione comprensivo anche delle esperienze extrascolastiche”
(p 42). E questo spiega bene la deriva didattica degli ultimi anni, dal
moltiplicarsi dei progetti fino all’alternanza scuola-lavoro.
Naturalmente questo discorso avrebbe forse qualche significato se si
riservasse lo spazio adeguato alla formazione intellettuale e si
aggiungessero sporadici momenti esperienziali. Al contrario, purtroppo,
si tratta per lo più di una sostituzione, in cui il “vivere” precede
sempre il “pensare”. E questo non sempre è un bene.
L’autore
difende l’istanza di una certificazione delle competenze socialmente
condivisa e riconoscibile, come risposta all’indebolimento del prestigio
sociale della valutazione scolastica, le cui indicazioni sono
tendenzialmente ignorate in molte prove d’ingresso delle università e
nel mondo del lavoro, mentre assai più riconosciuti sono i punteggi
ottenuti nell’ambito delle certificazioni linguistiche o informatiche,
offerte da soggetti privati. Ciò tuttavia non dipende dalla mancanza di
serietà del sistema scolastico, ma da una trasformazione culturale
globale della società, che tende alla semplificazione, e che ritiene di
poter capire da un’arida certificazione ciò che una persona è in grado o
meno di fare. Ma è un’illusione in cui la scuola non dovrebbe
inciampare. Gli enti che rilasciano certificazioni linguistiche sono
legittimamente indifferenti alla formazione della persona e del
cittadino. In modo secondo me poco interessante, quegli enti attestano
il grado di competenza nella comunicazione in una lingua straniera.
Punto. La scuola, invece, struttura un lavoro assai più profondo, che
concerne la trasmissione di un patrimonio scientifico e culturale, un
senso del vivere sociale e la capacità di creare e immaginare nuovi
mondi e possibilità future. Obiettivi difficilmente osservabili
attraverso la lente delle prove standardizzate, e poco descrivibili in
una rubrica per la certificazione.
D’altro
canto, lasciando da parte il discorso sui test Invalsi, nella scuola
italiana è ormai un obbligo la compilazione di certificazioni di
competenze, utilizzando le apposite rubriche. Tuttavia, affinché si
possa parlare di certificazione, occorrerebbe un soggetto terzo,
neutrale, che non abbia mai avuto relazioni didattiche con lo studente, e
dovrebbe riferirsi a degli standard universali. Quando si impone ai
docenti di certificare le competenze, di fatto si chiede una sorta di
duplicazione della valutazione sommativa, scritta però con formule
lessicali alternative. Ecco perché nessuno la tiene in seria
considerazione. Castoldi questo lo spiega molto bene: “occorre
sottolineare con chiarezza che la certificazione affidata agli
insegnanti dei diversi ordini di scuole non possiede nessuno dei due
requisiti: non è affidata a un soggetto di parte terza, in quanto
l’insegnante è implicato nella relazione formativa e non può sdoppiarsi
nella gestione separata di una funzione educativa e di una valutativa;
non si basa su standard assoluti” (p. 48). E allora a cosa serve?
Secondo Castoldi si tratta di una “valutazione a valenza certificativa”,
che detto in altri termini, è un ridondante duplicato della pagella,
semmai utile a ricordare al docente che prima o poi dovrà decidersi a
modificare la propria didattica.
Spiace
constatare che quando entra più strettamente nel merito del discorso
docimologico, purtroppo l’autore si smarrisce in una serie di luoghi
comuni sulla scuola e sul corpo insegnante. Il suo proposito è
annunciato come rivoluzionario: “per costruire un modo diverso di valutare bisogna smontare quello attualmente egemone, senza sconti e senza mezze misure!”
(p. 53). Egli immagina ancora il docente come il frustrato bacchettone
che si limita miseramente a fare un’arida media matematica al momento
della valutazione sommativa, perso nel mito dell’imparzialità. Beh,
questa è una caricatura dell’insegnante francamente inaccettabile. Egli
ne attribuisce la responsabilità al metodo didattico, che andrebbe
provvidenzialmente ristrutturato: “l’orientamento verso compiti di realtà spinge verso prove valutative più complesse e articolate”
(p. 56). Ma rimangono del tutto oscure le ragioni per le quali un
compito di realtà dovrebbe essere più complesso articolato di un compito
puramente logico o compositivo, e soprattutto occorrerebbe avere la
precisione metodologica di definire cosa sia la realtà,
perché non è un concetto semanticamente univoco. Castoldi insiste nel
definire “inerte” il sapere che non si connette a situazioni di vita, ma
la natura di questa inerzia resta completamente indefinita: perché mai
lo studio approfondito di un argomento storico costituirebbe un’attività
meno “significativa” di un’azione di cooperative learning legata all’organizzazione di un itinerario turistico (tanto per citare uno degli esempi relativi ai “compiti di realtà” proposti dall’autore)?
Intendiamoci,
è vero che lo sforzo cognitivo può trarre giovamento da un
potenziamento esperienziale, ed è vero che una didattica realmente
inclusiva debba saper utilizzare strumenti differenziati, in modo da
consentire alle diverse intelligenze di interagire con il patrimonio
scientifico e culturale per appropriarsene, partecipando
all’accrescimento del nostro bagaglio conoscitivo. Castoldi ha
perfettamente ragione quando sottolinea come le parole chiave del
processo educativo non debbano essere termini come “riconoscere”,
“riprodurre”, o “rispondere”, ma “inventare”, “ricercare” e
“rielaborare”. Ma su questo la didattica delle competenze aggiunge
qualcosa solo in senso obliquo. Dalla notte dei tempi la scuola non si
limita al mero dettato. Scrivere temi e riassumere, come si faceva una
volta (e che ora si tende a rimpiangere), sono modalità attive e
creative. I cosiddetti “compiti di realtà”, aggiungono elementi
forse più accattivanti e maggiormente inclusivi, ma non sostituiscono
certo una didattica passiva con una attiva. Sarebbe intellettualmente
scorretto sostenerlo.
Tuttavia, non esiste – e non è lecito pretendere che esista – un’unica metodologia didattica di qualità.
Castoldi
è apprezzabile e sicuramente in buona fede quando insiste nella difesa
del valore soggettivo della valutazione e della sua funzione formativa,
se capace di una vera personalizzazione. Ma lo sforzo ministeriale per
la standardizzazione della metodologia, perseguita attraverso l’Invalsi o
altri vettori della didattica per competenze, e che Castoldi prova
comunque a rendere compatibili con la propria prospettiva, sembrano
stridere in più punti. Il suo è un invito a conciliare una logica di
controllo, necessaria per rispondere a criteri di credibilità sociale,
con una logica di sviluppo, più centrata sulla formazione dell’allievo. “Per l’insegnante – egli conclude – si tratta di conciliare le due logiche e modularle nella propria azione professionale”
(p. 267). Su questo ha ragione, però sarebbe bene lasciare ai docenti e
ai singoli istituti, nella loro autonomia, la responsabilità di cercare
un equilibrio, mentre la pressione delle prove standardizzate parrebbe
inserire in modo troppo invadente un soggetto estraneo al processo
educativo, nella dialettica allievo-insegnante.
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