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Pierfranco Pellizzetti
La feroce dittatura del luogo comune - imperante ai nostri giorni - criminalizza come reazionaria ogni pur timida obiezione all’assunto della funzione economicamente apprezzabile e socialmente meritoria esercitata sostituendo lavoro “vivo” con quello “morto” delle macchine; mentre si reintroduce l’addebito “luddista” per i critici della robotizzazione spinta e pervasiva. L’ennesima trappola terminologica dei Pangloss al servizio dell’esistente come “migliore dei mondi possibili”, contro cui insorgeva Vittorio Foa, vecchio saggio di una sinistra ormai estinta, rimettendo a posto i termini (e i lessici) della questione: «il luddismo, cioè la resistenza violenta all’introduzione dei telai meccanici nell’Inghilterra del primo Ottocento, fu per molto tempo presentato come una barbarica e rozza resistenza al Progresso. Poi vennero storici come Hammond, Hobsbawm e Thompson che ci spiegarono che il luddismo era, in quella circostanza, l’unica forma possibile di lotta sindacale dei tessitori a mano e degli apprendisti che vedevano colpite a morte una plurisecolare capacità di lavoro e un plurisecolare status sociale»3. Conflitto mortale come resistenza alla dequalificazione professionale e per i diritti di ruolo nel controllo del processo produttivo. Princìpi che in quel momento vennero battuti e cancellati dalla controparte, ma che – nel tempo – concorsero a promuovere l’imponente sviluppo del movimento sindacale. Dei diritti sociali di cittadinanza. Una delle prime battaglie campali nel conflitto intestino di cui oggi il paradigma impresa 4.0 potrebbe rivelarsi lo scontro finale: la guerra civile all’interno della nazione “Occidente capitalistico”, tra le due etnie che la compongono. Come aveva già ben chiaro Bejamin Disraeli, ministro della regina Vittoria, quando - in un imprevisto/imprevedibile moto di franchezza - confessava l’indicibile: «l’Inghilterra patria di due nazioni, i poveri e i ricchi»4. Lo schema binario dell’opposizione tra privilegiati e non come guerra tra razze; il cui trauma interiorizzato Michel Foucault scorgeva nelle classi sociali britanniche come effetto dell’invasione normanna vincitrice sui sassoni ad Hastings del 10665.
Dunque – come vedremo – una storia che parla largamente la lingua inglese; visto che nella Boston coloniale ma già plutocratica dei primi anni settanta del Settecento «il 5 percento che costituiva la fascia dei maggiori contribuenti deteneva il 49 percento dei beni soggetti a imposizione fiscale»6, in simmetria con lo stato dell’arte all’inizio del Terzo Millennio: l’1 percento degli americani che detiene il 40 percento dell’intera ricchezza nazionale (poi sceso al 37 durante la presidenza Obama). Tuttavia, nell’intervallo temporale tra Beniamino Franklin e George W. Bush, ci sono due lunghi secoli di duro conflitto distributivo, seppure in larga misura sottotraccia, il cui campo di battaglia era il punto di riproduzione della ricchezza in età industrialista: la fabbrica, che al tempo stesso fungeva da punto di aggregazione delle lotte operaie.
Conflitto in cui il Capitale ha sempre utilizzato la leva dell’innovazione, tanto organizzativa come tecnologica, per riportare a miti consigli il Lavoro; l’antagonista che lo contrappesava e che – nel contempo – assicurava la creazione di plusvalore. Nell’antica logica del nec tecum nec sine te vivere possumus. Di cui il suddetto Capitale sta ormai da tempo attrezzandosi per farne a meno. Se agli inizi degli anni Cinquanta – come si dirà – l’arsenale bellico fu prevalentemente di matrice organizzativa, a partire dal ventennio successivo sono stati i laboratori tecnologici a predisporre le nuove armi distruttive della ristrutturazione capitalistica.
Una vicenda che sfugge ai radar dell’economia proprio per la sua fideistica presunzione di trovare spiegazioni delle dinamiche sociali nell’ipotetico “fatto economico totale”. Che diventa una naïveté altamente pericolosa, (spesso) inconsciamente devastante, quando concorre ad accreditare letture panglossiane circa la rottura del secolare compromesso tra Capitale e Lavoro, rappresentata dalla fabbrica 4.0; sciorinando l’intera gamma delle sue retoriche giustificazioniste: “il migliore dei mondi possibili”, “la Mano Invisibile”, “The One Best Way”, “T.I.N.A.” (there is no alternative). Fraintendimento - diciamo così - che è scivolato insospettatamente persino tra le pagine dell’Almanacco di Economia di MicroMega7.
Cerchiobottisticamente?
Sia come sia, proprio perché nella questione entra pesantemente in gioco l’aspetto che la (presunta) scienza economica è strutturalmente refrattaria a prendere in considerazione: i rapporti di potere e i loro condizionamenti. Dominanti.
Tecnologia e società
Il filo rosso di questa critica del panglossismo up-to-date attiene alla connessione comunicativa che mette in sequenza la neutralità tecnologica e l’inevitabilità delle derive seguite attualmente dal modo di produrre e riprodurre (o accumulare) ricchezza. Il falso problema del determinismo tecnologico, quando il risultato finale di ogni trasformazione science based discende da un complesso rapporto di interazioni, in cui non è possibile né comprendere né rappresentare la società a prescindere dai suoi strumenti tecnologici. Come ci ha spiegato un intero filone di pensiero storico-filosofico tardo-novecentesco; dal Fernand Braudel secondo cui «la domanda crea l’innovazione»8 al Manuel Castells per il quale «la tecnologia non determina la società: la incarna»9. Senza per questo smarrire il criterio distintivo rispetto alle direzioni reali delle svolte in atto; che non trova riscontro nell’uso mediatico confusionista alla moda di etichettare trend epocali mediante sigle numeriche. Con il risultato di unificare gergalmente “industria 2.0” (l’accesso Internet a scopi produttivi) e “azienda 4.0” (le riduzioni del personale grazie all’automazione).
Dunque, processi con effetti antitetici (il 2.0 prefigura dinamiche espansive mentre il 4.0 persegue espulsioni di massa) la cui equiparazione si rivela particolarmente utile nell’opera di confondere le idee e celare alla vista code intrise di veleno. Sia negli speech del ministro NeoLib Carlo Calenda (il Macron de noiantri?) come nei convegni della Confindustria più revanscista.
“WEB 2.0” è un'espressione ormai diventata di uso corrente per indicare la nuova fase nell’evoluzione del World Wide Web, caratterizzata dal passaggio da una posizione statica (o monodirezionale) a una interattiva. Infatti, ci si riferisce all'insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono feedback permanenti tra il sito web e l'utente. Uno sviluppo che coincide con l’estensione della capacità di comunicare con le cose e tra le cose: la cosiddetta “Internet of Things” (IOT), che osservatori qualificati considerano la nuova rivoluzione industriale prossima futura.
Il tecno-entusiasta Paul Mason, autorevole firma dell’emittente britannica Channel 4, ci spiega che «il progresso tecnologico di inizio XXI secolo non consiste in nuovi oggetti, ma nell’aver reso intelligenti quelli vecchi. La conoscenza contenuta nei prodotti sta diventando più preziosa degli elementi fisici usati per produrli»10.
Appunto, ben diverso – o meglio, antitetico - rispetto a quanto in realtà prefigura la mela avvelenata4.0. La cui natura tossica retrostante si inizia a scoprire proprio uscendo dalla trappola del determinismo tecnologico; riscoprendo con gli storici dell’economia Michael Piore e Charles Sabel del MIT che la scelta di un paradigma tecnologico rispetto ad altri non è mai neutrale: «il fatto che certe tecnologie si sviluppino e altre languiscano dipende essenzialmente dalla struttura dei mercati dei prodotti tecnologici; e la struttura dei mercati dipende a sua volta da circostanze politiche fondamentali quali i diritti di proprietà e la distribuzione della ricchezza»11. I cosiddetti “spartiacque industriali”, per cui prevale il modo di produrre di massa (fordista) a scapito di quello flessibile perché nel mercato del lavoro USA abbondavano i lavoratori non specializzati - provenienti dall’immigrazione - e risultava più conveniente scomporre ogni mansione manuale in fasi semplici. Per cui ragioni extra-economiche determinarono in avionica la scelta del “più pesante dell’aria” rispetto al “più leggero”. Ancora una volta sono gli storici dell’economia a penetrare le logiche retrostanti alle decisioni produttive (mentre gli economisti si baloccano con algoritmi e diagrammi). Cosicché è ancora uno storico dell’economia – Thomas Piketty, dopo aver quantificato i processi di espansione della diseguaglianza - a illustrarcene le ragioni meta-economiche; chiamando in ballo “la rivoluzione conservatrice” anglosassone degli anni settanta e ottanta: «la possibilità di spiegare il fenomeno in base alle logiche della tecnologia diventa a questo punto sempre più labile, mentre diventa sempre più concreta quella di motivare il tutto in base alle norme sociali»12. Proviamo a decodificare la sentenza della star parigina.
Ricardo, chi era costui?
La versione edulcorata e consolatoria dei costi sociali di quella che è stata denominata alternativamente “quarta rivoluzione industriale” (la massiccia introduzione di robot e la conseguente automazione dei processi produttivi) o “seconda età delle macchine” (le innovazioni digitali stanno facendo per la nostra forza mentale quanto la macchina a vapore e i suoi epigoni fecero per la forza muscolare), si fonda su tesi risalenti nientemeno che agli albori della rivoluzione industriale: al venerando David Ricardo (1772 – 1823), che nel lontano 1821 ipotizzava una sorta di “mano invisibile ritardataria in materia di innovazione”. Il cosiddetto machinery effect, «in base al quale l’introduzione di macchine nei processi produttivi ha un effetto negativo sull’occupazione nel breve periodo. […] Nel lungo periodo i lavoratori possono essere riassorbiti dai nuovi processi produttivi, potenzialmente più numerosi dei precedenti a causa dell’aumento di produttività»13.
Intanto qualcosa è un po’ cambiato dal tempo dell’introduzione dei primi telai meccanici. Magari il fatto che negli anni Settanta del secolo scorso - a partire dagli Stati Uniti – venne imponendosi un nuovo paradigma tecnologico legato alle tecnologie dell’informazione. Nonostante le commesse e i finanziamenti militari abbiano svolto una funzione decisiva nei primi passi dell’industria elettronica tra gli anni Quaranta e Sessanta, il fatto che la creazione di tale paradigma abbia avuto luogo in California non è privo di effetti sostanziali. Non tanto sotto il profilo politico, dato che Silicon Valley è sempre stata un solido baluardo del voto conservatore e che buona parte degli innovatori erano rudi tempre di impolitici, intrisi degli umori reazionari di una cultura anarco-libertaria diffusa nei campus americani anni Sessanta; con un atavico retro-pensiero, proprio del calvinismo anglosassone, sulla povertà come colpevolezza agli occhi di dio. Semmai l’aspetto decisivo afferisce ai valori sociali veicolati, «volti alla rottura degli schemi di comportamenti consolidati, sia nella società in generale sia nel mondo degli affari. L’importanza attribuita a dispositivi personalizzati, all’interattività, all’interconnessione in rete e all’inseguimento senza tregua di nuove conquiste tecnologiche ha rappresentato un segno di discontinuità con la tradizione piuttosto cauta del mondo delle imprese»14. E mentre le nuove tecnologie si propagavano, si è assistito alla loro tracimazione su ogni tipo di impiego, omologandone le logiche all’impianto valoriale di cui sopra: l’assiomatica egoista dell’interesse individuale, insofferente di regole e strutture rispondenti a interessi generali, contrapposta alla cultura laborista dei diritti e delle tutele.
Prendeva così forma il tecno-mostro che si occulta dietro sigle apparentemente accattivanti e le retoriche consolatorie: l’operazione di pulizia etnica del lavoro realizzata per eliminare il principale contrappeso all’ordine turbo-capitalista. Un sogno a lungo coltivato dalle plutocrazie, dal tempo in cui la combattività operaia imponeva le prime legislazioni sociali e poi le grandi stagioni liberal-socialiste del Welfare e dello Stato sociale. Abrogandone il massimo esito inclusivo: la crescita imponente dell’area centrale della società nell’accesso alla cittadinanza e a un relativo benessere. Come ha puntualmente scritto Luciano Gallino nel suo ultimo saggio, «il consumatore medio – l’impiegato, l’operaio, l’insegnante, l’infermiera, ecc. – non è diventato più povero per qualche misteriosa disfunzione dell’economia: è stato intenzionalmente impoverito da chi aveva il potere di farlo, al fine di trasferire ai profitti e alle rendite la maggiore quota possibile dei redditi da lavoro»15.
«In verità non resta da desiderare altro se non che
il re, rimasto solo nell’isola, girando continuamente
una manovella, faccia eseguire per mezzo di conge-
gni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra» 1
Sismonde De Sismondi
«Il capitalismo non ha inventato nulla di nuovo; ma
ha liberato la tecnica dei sistemi di frenaggio econo-
nomico-sociali grazie alle sue enormi possibilità di
investimento e alla sua fame insaziabile di profitto»2
Fernand Braudel
il re, rimasto solo nell’isola, girando continuamente
una manovella, faccia eseguire per mezzo di conge-
gni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra» 1
Sismonde De Sismondi
«Il capitalismo non ha inventato nulla di nuovo; ma
ha liberato la tecnica dei sistemi di frenaggio econo-
nomico-sociali grazie alle sue enormi possibilità di
investimento e alla sua fame insaziabile di profitto»2
Fernand Braudel
La feroce dittatura del luogo comune - imperante ai nostri giorni - criminalizza come reazionaria ogni pur timida obiezione all’assunto della funzione economicamente apprezzabile e socialmente meritoria esercitata sostituendo lavoro “vivo” con quello “morto” delle macchine; mentre si reintroduce l’addebito “luddista” per i critici della robotizzazione spinta e pervasiva. L’ennesima trappola terminologica dei Pangloss al servizio dell’esistente come “migliore dei mondi possibili”, contro cui insorgeva Vittorio Foa, vecchio saggio di una sinistra ormai estinta, rimettendo a posto i termini (e i lessici) della questione: «il luddismo, cioè la resistenza violenta all’introduzione dei telai meccanici nell’Inghilterra del primo Ottocento, fu per molto tempo presentato come una barbarica e rozza resistenza al Progresso. Poi vennero storici come Hammond, Hobsbawm e Thompson che ci spiegarono che il luddismo era, in quella circostanza, l’unica forma possibile di lotta sindacale dei tessitori a mano e degli apprendisti che vedevano colpite a morte una plurisecolare capacità di lavoro e un plurisecolare status sociale»3. Conflitto mortale come resistenza alla dequalificazione professionale e per i diritti di ruolo nel controllo del processo produttivo. Princìpi che in quel momento vennero battuti e cancellati dalla controparte, ma che – nel tempo – concorsero a promuovere l’imponente sviluppo del movimento sindacale. Dei diritti sociali di cittadinanza. Una delle prime battaglie campali nel conflitto intestino di cui oggi il paradigma impresa 4.0 potrebbe rivelarsi lo scontro finale: la guerra civile all’interno della nazione “Occidente capitalistico”, tra le due etnie che la compongono. Come aveva già ben chiaro Bejamin Disraeli, ministro della regina Vittoria, quando - in un imprevisto/imprevedibile moto di franchezza - confessava l’indicibile: «l’Inghilterra patria di due nazioni, i poveri e i ricchi»4. Lo schema binario dell’opposizione tra privilegiati e non come guerra tra razze; il cui trauma interiorizzato Michel Foucault scorgeva nelle classi sociali britanniche come effetto dell’invasione normanna vincitrice sui sassoni ad Hastings del 10665.
Dunque – come vedremo – una storia che parla largamente la lingua inglese; visto che nella Boston coloniale ma già plutocratica dei primi anni settanta del Settecento «il 5 percento che costituiva la fascia dei maggiori contribuenti deteneva il 49 percento dei beni soggetti a imposizione fiscale»6, in simmetria con lo stato dell’arte all’inizio del Terzo Millennio: l’1 percento degli americani che detiene il 40 percento dell’intera ricchezza nazionale (poi sceso al 37 durante la presidenza Obama). Tuttavia, nell’intervallo temporale tra Beniamino Franklin e George W. Bush, ci sono due lunghi secoli di duro conflitto distributivo, seppure in larga misura sottotraccia, il cui campo di battaglia era il punto di riproduzione della ricchezza in età industrialista: la fabbrica, che al tempo stesso fungeva da punto di aggregazione delle lotte operaie.
Conflitto in cui il Capitale ha sempre utilizzato la leva dell’innovazione, tanto organizzativa come tecnologica, per riportare a miti consigli il Lavoro; l’antagonista che lo contrappesava e che – nel contempo – assicurava la creazione di plusvalore. Nell’antica logica del nec tecum nec sine te vivere possumus. Di cui il suddetto Capitale sta ormai da tempo attrezzandosi per farne a meno. Se agli inizi degli anni Cinquanta – come si dirà – l’arsenale bellico fu prevalentemente di matrice organizzativa, a partire dal ventennio successivo sono stati i laboratori tecnologici a predisporre le nuove armi distruttive della ristrutturazione capitalistica.
Una vicenda che sfugge ai radar dell’economia proprio per la sua fideistica presunzione di trovare spiegazioni delle dinamiche sociali nell’ipotetico “fatto economico totale”. Che diventa una naïveté altamente pericolosa, (spesso) inconsciamente devastante, quando concorre ad accreditare letture panglossiane circa la rottura del secolare compromesso tra Capitale e Lavoro, rappresentata dalla fabbrica 4.0; sciorinando l’intera gamma delle sue retoriche giustificazioniste: “il migliore dei mondi possibili”, “la Mano Invisibile”, “The One Best Way”, “T.I.N.A.” (there is no alternative). Fraintendimento - diciamo così - che è scivolato insospettatamente persino tra le pagine dell’Almanacco di Economia di MicroMega7.
Cerchiobottisticamente?
Sia come sia, proprio perché nella questione entra pesantemente in gioco l’aspetto che la (presunta) scienza economica è strutturalmente refrattaria a prendere in considerazione: i rapporti di potere e i loro condizionamenti. Dominanti.
Tecnologia e società
Il filo rosso di questa critica del panglossismo up-to-date attiene alla connessione comunicativa che mette in sequenza la neutralità tecnologica e l’inevitabilità delle derive seguite attualmente dal modo di produrre e riprodurre (o accumulare) ricchezza. Il falso problema del determinismo tecnologico, quando il risultato finale di ogni trasformazione science based discende da un complesso rapporto di interazioni, in cui non è possibile né comprendere né rappresentare la società a prescindere dai suoi strumenti tecnologici. Come ci ha spiegato un intero filone di pensiero storico-filosofico tardo-novecentesco; dal Fernand Braudel secondo cui «la domanda crea l’innovazione»8 al Manuel Castells per il quale «la tecnologia non determina la società: la incarna»9. Senza per questo smarrire il criterio distintivo rispetto alle direzioni reali delle svolte in atto; che non trova riscontro nell’uso mediatico confusionista alla moda di etichettare trend epocali mediante sigle numeriche. Con il risultato di unificare gergalmente “industria 2.0” (l’accesso Internet a scopi produttivi) e “azienda 4.0” (le riduzioni del personale grazie all’automazione).
Dunque, processi con effetti antitetici (il 2.0 prefigura dinamiche espansive mentre il 4.0 persegue espulsioni di massa) la cui equiparazione si rivela particolarmente utile nell’opera di confondere le idee e celare alla vista code intrise di veleno. Sia negli speech del ministro NeoLib Carlo Calenda (il Macron de noiantri?) come nei convegni della Confindustria più revanscista.
“WEB 2.0” è un'espressione ormai diventata di uso corrente per indicare la nuova fase nell’evoluzione del World Wide Web, caratterizzata dal passaggio da una posizione statica (o monodirezionale) a una interattiva. Infatti, ci si riferisce all'insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono feedback permanenti tra il sito web e l'utente. Uno sviluppo che coincide con l’estensione della capacità di comunicare con le cose e tra le cose: la cosiddetta “Internet of Things” (IOT), che osservatori qualificati considerano la nuova rivoluzione industriale prossima futura.
Il tecno-entusiasta Paul Mason, autorevole firma dell’emittente britannica Channel 4, ci spiega che «il progresso tecnologico di inizio XXI secolo non consiste in nuovi oggetti, ma nell’aver reso intelligenti quelli vecchi. La conoscenza contenuta nei prodotti sta diventando più preziosa degli elementi fisici usati per produrli»10.
Appunto, ben diverso – o meglio, antitetico - rispetto a quanto in realtà prefigura la mela avvelenata4.0. La cui natura tossica retrostante si inizia a scoprire proprio uscendo dalla trappola del determinismo tecnologico; riscoprendo con gli storici dell’economia Michael Piore e Charles Sabel del MIT che la scelta di un paradigma tecnologico rispetto ad altri non è mai neutrale: «il fatto che certe tecnologie si sviluppino e altre languiscano dipende essenzialmente dalla struttura dei mercati dei prodotti tecnologici; e la struttura dei mercati dipende a sua volta da circostanze politiche fondamentali quali i diritti di proprietà e la distribuzione della ricchezza»11. I cosiddetti “spartiacque industriali”, per cui prevale il modo di produrre di massa (fordista) a scapito di quello flessibile perché nel mercato del lavoro USA abbondavano i lavoratori non specializzati - provenienti dall’immigrazione - e risultava più conveniente scomporre ogni mansione manuale in fasi semplici. Per cui ragioni extra-economiche determinarono in avionica la scelta del “più pesante dell’aria” rispetto al “più leggero”. Ancora una volta sono gli storici dell’economia a penetrare le logiche retrostanti alle decisioni produttive (mentre gli economisti si baloccano con algoritmi e diagrammi). Cosicché è ancora uno storico dell’economia – Thomas Piketty, dopo aver quantificato i processi di espansione della diseguaglianza - a illustrarcene le ragioni meta-economiche; chiamando in ballo “la rivoluzione conservatrice” anglosassone degli anni settanta e ottanta: «la possibilità di spiegare il fenomeno in base alle logiche della tecnologia diventa a questo punto sempre più labile, mentre diventa sempre più concreta quella di motivare il tutto in base alle norme sociali»12. Proviamo a decodificare la sentenza della star parigina.
Ricardo, chi era costui?
La versione edulcorata e consolatoria dei costi sociali di quella che è stata denominata alternativamente “quarta rivoluzione industriale” (la massiccia introduzione di robot e la conseguente automazione dei processi produttivi) o “seconda età delle macchine” (le innovazioni digitali stanno facendo per la nostra forza mentale quanto la macchina a vapore e i suoi epigoni fecero per la forza muscolare), si fonda su tesi risalenti nientemeno che agli albori della rivoluzione industriale: al venerando David Ricardo (1772 – 1823), che nel lontano 1821 ipotizzava una sorta di “mano invisibile ritardataria in materia di innovazione”. Il cosiddetto machinery effect, «in base al quale l’introduzione di macchine nei processi produttivi ha un effetto negativo sull’occupazione nel breve periodo. […] Nel lungo periodo i lavoratori possono essere riassorbiti dai nuovi processi produttivi, potenzialmente più numerosi dei precedenti a causa dell’aumento di produttività»13.
Intanto qualcosa è un po’ cambiato dal tempo dell’introduzione dei primi telai meccanici. Magari il fatto che negli anni Settanta del secolo scorso - a partire dagli Stati Uniti – venne imponendosi un nuovo paradigma tecnologico legato alle tecnologie dell’informazione. Nonostante le commesse e i finanziamenti militari abbiano svolto una funzione decisiva nei primi passi dell’industria elettronica tra gli anni Quaranta e Sessanta, il fatto che la creazione di tale paradigma abbia avuto luogo in California non è privo di effetti sostanziali. Non tanto sotto il profilo politico, dato che Silicon Valley è sempre stata un solido baluardo del voto conservatore e che buona parte degli innovatori erano rudi tempre di impolitici, intrisi degli umori reazionari di una cultura anarco-libertaria diffusa nei campus americani anni Sessanta; con un atavico retro-pensiero, proprio del calvinismo anglosassone, sulla povertà come colpevolezza agli occhi di dio. Semmai l’aspetto decisivo afferisce ai valori sociali veicolati, «volti alla rottura degli schemi di comportamenti consolidati, sia nella società in generale sia nel mondo degli affari. L’importanza attribuita a dispositivi personalizzati, all’interattività, all’interconnessione in rete e all’inseguimento senza tregua di nuove conquiste tecnologiche ha rappresentato un segno di discontinuità con la tradizione piuttosto cauta del mondo delle imprese»14. E mentre le nuove tecnologie si propagavano, si è assistito alla loro tracimazione su ogni tipo di impiego, omologandone le logiche all’impianto valoriale di cui sopra: l’assiomatica egoista dell’interesse individuale, insofferente di regole e strutture rispondenti a interessi generali, contrapposta alla cultura laborista dei diritti e delle tutele.
Prendeva così forma il tecno-mostro che si occulta dietro sigle apparentemente accattivanti e le retoriche consolatorie: l’operazione di pulizia etnica del lavoro realizzata per eliminare il principale contrappeso all’ordine turbo-capitalista. Un sogno a lungo coltivato dalle plutocrazie, dal tempo in cui la combattività operaia imponeva le prime legislazioni sociali e poi le grandi stagioni liberal-socialiste del Welfare e dello Stato sociale. Abrogandone il massimo esito inclusivo: la crescita imponente dell’area centrale della società nell’accesso alla cittadinanza e a un relativo benessere. Come ha puntualmente scritto Luciano Gallino nel suo ultimo saggio, «il consumatore medio – l’impiegato, l’operaio, l’insegnante, l’infermiera, ecc. – non è diventato più povero per qualche misteriosa disfunzione dell’economia: è stato intenzionalmente impoverito da chi aveva il potere di farlo, al fine di trasferire ai profitti e alle rendite la maggiore quota possibile dei redditi da lavoro»15.
Sterminare il lavoro!
Diciamolo francamente: il significato intrinseco di quanto sta avvenendo nel sistema-Mondo capitalistico concerne il definitivo spostamento di centralità politica e sociale dal lavoro al capitale, supportato da un flusso di innovazioni tecnologiche e organizzative finalizzate – per dire così - a “rimettere in riga” (o forse sarebbe meglio dire, “in un angolo”) la working class.
Se vogliamo, operazione sistemica avviata con la rivoluzione del container del 1954 che, mediante l’inventiva gestionale (il cassone metallico impilabile dalla lunghezza standard di 9,14 metri degli inizi, destinato ad abbattere di nove decimi i costi della movimentazione delle merci attraverso la catena intermodale terra-mare16), stroncava la capacità di lotta di una categoria allora all’avanguardia, quale quella dei lavoratori portuali. L’uragano che sconvolse la logistica a partire dalla seconda metà del secolo scorso, per cui le attuali super-navi portacontainer (le post post panamax da oltre 6mila TEUS, l’unità di misura standard corrispondente a un container da 20 piedi) hanno determinato il crollo dei trasporti; con il conseguente avvento del modo di produrre “toyotistico”. Il post-fordismo (o l’iper-fordismo, a piacere) che annulla la dipendenza dalle distanze, regolando just-in-time il flusso delle produzioni e rendendo sempre più volatili i luoghi della produzione. Second time, dopo aver desertificato i porti e banalizzato le funzioni che vi si svolgevano.
Sicché può ben dirsi che fu da quella prima mattanza di manodopera a occidente e dall’utilizzo di maestranze sottopagate a oriente, attraverso il decentramento transnazionale, che prese avvio la riscossa del comando capitalistico; spazzando via mediante il binomio flessibilizzazione/precarizzazione le rigidezze garantiste (i diritti del lavoro) conquistate dal movimento operaio attraverso le sue lotte novecentesche.
Allora nessuno se ne accorse, ma quella iniziata sulle banchine dei porti atlantici e mediterranei, nel bel mezzo dei “Trenta Gloriosi” (la stagione welfariana della società inclusiva coniugata con la massima espansione economica dell’Occidente), fu una prova generale; ben prima di quella militare del 1973, con il colpo di Stato cileno operato dal generale Pinochet. Avvisaglia di una fase restaurativa in gestazione, poco dopo favorita dall’avvento della controrivoluzione conservatrice (reazionaria) guidata dalle Margaret Thatcher e dai Ronald Reagan; impostasi facendo piazza pulita delle resistenze sociali. E il grimaldello divenne proprio l’introduzione di innovazioni labour saving. A partire dai contenitori con cui si schiantava la resistenza di quegli scaricatori marittimi che da oltre un secolo rappresentavano con orgoglio la punta di diamante del radicalismo sindacale17; per arrivare all’attuale alluvione di automazioni che sostituiscono – per dirla marxianamente - “lavoro vivo” con il “lavoro morto” delle macchine. Culminando nell’avvento della robotica; che tanto affascina governanti naif ma reca con sé problemi di organizzazione della società di cui ad oggi non sembra ci si renda conto. Drammatici. Che ci esploderanno in faccia quando i tassisti saranno sostituiti dalle auto senza autista (il Progetto Chauffeur di Google, in stato di avanzata sperimentazione) o le shampiste dall’androide con 24 dita realizzato dalla Panasonic; mandando a spasso entrambe le categorie.
O – peggio ancora – se farà scuola (come è molto probabile che lo faccia) il negriero 4.0 di nome Terry Gou: il taiwanese ras di FoxConn che nelle Export Processing Zones di Shenzhen, all’estuario del Fiume delle Perle, utilizza lavoro schiavistico per produrre i gadget di Apple, Microsoft e Samsung. Tale signore annunciava nel 2011 il programma d’acquisto di un milione di robot per sostituire altrettanti lavoratori umani (e già allora costui ne impiegava in fabbrica diecimila, mentre l’anno successivo il loro numero era balzato a trecentomila18); a prevenzione di qualunque timido segno di ribellione delle maestranze cinesi alle condizioni subumane loro imposte. Anche nell’Estremo Oriente la cosiddetta “seconda età delle macchine” (la loro resa “pensanti”) stronca ogni capacità di resistenza alla ristrutturazione in atto attraverso lotte del lavoro. Che – contrariamente ai tentativi di minimizzare – non riguarda soltanto lavori manuali e/o ripetitivi, addetti a basse istruzione e competenze, accertato che erode buona parte delle professioni qualificate; supportata dal continuo sviluppo del fenomeno dei “Big Data” (l’espressione onnicomprensiva per indicare l’immensa quantità di dati accumulati grazie alla digitalizzazione; utilizzabili per capire, analizzare e prevedere tendenze in tempo reale). «In attesa del giorno – ha scritto il softwarista di Silicon Valley Martin Ford – in cui farà la sua comparsa un algoritmo intelligente di apprendimento automatico che inizierà ad istruirsi da solo esplorando la documentazione lasciata dai suoi predecessori umani»19. Fatto sta – come sentenziano gli scienziati del MIT Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee - «gli apparecchi digitali ci stanno dando la paga, svolgendo attività in cui erano sempre stati carenti e mostrando capacità che non si pensava avrebbero acquisito in breve»20. E le applicazioni di tali avatar si inseriscono in ambiti che vanno dalla medicina chirurgica a quello delle lavorazioni di fabbrica più disparate (assemblaggi come verniciature), per arrivare a qualsivoglia lavoro d’ordine e perfino di servizio (ossia tassisti, baristi e cameriere. Attualmente, limitandoci a queste ultime, nei soli Stati Uniti si tratta di 2,3 milioni di persone). Al riguardo l’esperto di tecnologia Alec Ross, già consigliere per l’innovazione dell’allora Segretaria di Stato Hillary Clinton, ha recentemente fornito alcune cifre di massima, non certo tranquillizzanti: «quelli che svolgono mestieri difficili da automatizzare – per esempio gli avvocati – potrebbero essere al sicuro, ma i colletti bianchi con impieghi più facilmente automatizzabili, come i para-legali, sono ad alto rischio. Il pericolo massimo riguarda il 60 per cento della forza lavoro statunitense, la cui funzione principale è quella di aggregare e applicare le informazioni»21.
La secessione dell’uno percento
Dunque, sulla tolda del Titanic-mondo, mentre l’orchestrina suona l’allegro refrain della liberazione dal lavoro 4.0, va preparandosi un’immensa mattanza. Non la deliberata cospirazione di una mente volta al male, bensì la sommatoria di azioni con effetti reciprocamente moltiplicativi, ispirate da una sorta di incosciente volontà di ritorsione. L’eterna aspirazione dell’avidità ad avere le mani libere, spazzando via ogni inciampo che possa impicciarla. Come può emergere da una sintetica cronologia, che metta in ordine le tessere dei fatti in un quadro complessivo:
Diciamolo francamente: il significato intrinseco di quanto sta avvenendo nel sistema-Mondo capitalistico concerne il definitivo spostamento di centralità politica e sociale dal lavoro al capitale, supportato da un flusso di innovazioni tecnologiche e organizzative finalizzate – per dire così - a “rimettere in riga” (o forse sarebbe meglio dire, “in un angolo”) la working class.
Se vogliamo, operazione sistemica avviata con la rivoluzione del container del 1954 che, mediante l’inventiva gestionale (il cassone metallico impilabile dalla lunghezza standard di 9,14 metri degli inizi, destinato ad abbattere di nove decimi i costi della movimentazione delle merci attraverso la catena intermodale terra-mare16), stroncava la capacità di lotta di una categoria allora all’avanguardia, quale quella dei lavoratori portuali. L’uragano che sconvolse la logistica a partire dalla seconda metà del secolo scorso, per cui le attuali super-navi portacontainer (le post post panamax da oltre 6mila TEUS, l’unità di misura standard corrispondente a un container da 20 piedi) hanno determinato il crollo dei trasporti; con il conseguente avvento del modo di produrre “toyotistico”. Il post-fordismo (o l’iper-fordismo, a piacere) che annulla la dipendenza dalle distanze, regolando just-in-time il flusso delle produzioni e rendendo sempre più volatili i luoghi della produzione. Second time, dopo aver desertificato i porti e banalizzato le funzioni che vi si svolgevano.
Sicché può ben dirsi che fu da quella prima mattanza di manodopera a occidente e dall’utilizzo di maestranze sottopagate a oriente, attraverso il decentramento transnazionale, che prese avvio la riscossa del comando capitalistico; spazzando via mediante il binomio flessibilizzazione/precarizzazione le rigidezze garantiste (i diritti del lavoro) conquistate dal movimento operaio attraverso le sue lotte novecentesche.
Allora nessuno se ne accorse, ma quella iniziata sulle banchine dei porti atlantici e mediterranei, nel bel mezzo dei “Trenta Gloriosi” (la stagione welfariana della società inclusiva coniugata con la massima espansione economica dell’Occidente), fu una prova generale; ben prima di quella militare del 1973, con il colpo di Stato cileno operato dal generale Pinochet. Avvisaglia di una fase restaurativa in gestazione, poco dopo favorita dall’avvento della controrivoluzione conservatrice (reazionaria) guidata dalle Margaret Thatcher e dai Ronald Reagan; impostasi facendo piazza pulita delle resistenze sociali. E il grimaldello divenne proprio l’introduzione di innovazioni labour saving. A partire dai contenitori con cui si schiantava la resistenza di quegli scaricatori marittimi che da oltre un secolo rappresentavano con orgoglio la punta di diamante del radicalismo sindacale17; per arrivare all’attuale alluvione di automazioni che sostituiscono – per dirla marxianamente - “lavoro vivo” con il “lavoro morto” delle macchine. Culminando nell’avvento della robotica; che tanto affascina governanti naif ma reca con sé problemi di organizzazione della società di cui ad oggi non sembra ci si renda conto. Drammatici. Che ci esploderanno in faccia quando i tassisti saranno sostituiti dalle auto senza autista (il Progetto Chauffeur di Google, in stato di avanzata sperimentazione) o le shampiste dall’androide con 24 dita realizzato dalla Panasonic; mandando a spasso entrambe le categorie.
O – peggio ancora – se farà scuola (come è molto probabile che lo faccia) il negriero 4.0 di nome Terry Gou: il taiwanese ras di FoxConn che nelle Export Processing Zones di Shenzhen, all’estuario del Fiume delle Perle, utilizza lavoro schiavistico per produrre i gadget di Apple, Microsoft e Samsung. Tale signore annunciava nel 2011 il programma d’acquisto di un milione di robot per sostituire altrettanti lavoratori umani (e già allora costui ne impiegava in fabbrica diecimila, mentre l’anno successivo il loro numero era balzato a trecentomila18); a prevenzione di qualunque timido segno di ribellione delle maestranze cinesi alle condizioni subumane loro imposte. Anche nell’Estremo Oriente la cosiddetta “seconda età delle macchine” (la loro resa “pensanti”) stronca ogni capacità di resistenza alla ristrutturazione in atto attraverso lotte del lavoro. Che – contrariamente ai tentativi di minimizzare – non riguarda soltanto lavori manuali e/o ripetitivi, addetti a basse istruzione e competenze, accertato che erode buona parte delle professioni qualificate; supportata dal continuo sviluppo del fenomeno dei “Big Data” (l’espressione onnicomprensiva per indicare l’immensa quantità di dati accumulati grazie alla digitalizzazione; utilizzabili per capire, analizzare e prevedere tendenze in tempo reale). «In attesa del giorno – ha scritto il softwarista di Silicon Valley Martin Ford – in cui farà la sua comparsa un algoritmo intelligente di apprendimento automatico che inizierà ad istruirsi da solo esplorando la documentazione lasciata dai suoi predecessori umani»19. Fatto sta – come sentenziano gli scienziati del MIT Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee - «gli apparecchi digitali ci stanno dando la paga, svolgendo attività in cui erano sempre stati carenti e mostrando capacità che non si pensava avrebbero acquisito in breve»20. E le applicazioni di tali avatar si inseriscono in ambiti che vanno dalla medicina chirurgica a quello delle lavorazioni di fabbrica più disparate (assemblaggi come verniciature), per arrivare a qualsivoglia lavoro d’ordine e perfino di servizio (ossia tassisti, baristi e cameriere. Attualmente, limitandoci a queste ultime, nei soli Stati Uniti si tratta di 2,3 milioni di persone). Al riguardo l’esperto di tecnologia Alec Ross, già consigliere per l’innovazione dell’allora Segretaria di Stato Hillary Clinton, ha recentemente fornito alcune cifre di massima, non certo tranquillizzanti: «quelli che svolgono mestieri difficili da automatizzare – per esempio gli avvocati – potrebbero essere al sicuro, ma i colletti bianchi con impieghi più facilmente automatizzabili, come i para-legali, sono ad alto rischio. Il pericolo massimo riguarda il 60 per cento della forza lavoro statunitense, la cui funzione principale è quella di aggregare e applicare le informazioni»21.
La secessione dell’uno percento
Dunque, sulla tolda del Titanic-mondo, mentre l’orchestrina suona l’allegro refrain della liberazione dal lavoro 4.0, va preparandosi un’immensa mattanza. Non la deliberata cospirazione di una mente volta al male, bensì la sommatoria di azioni con effetti reciprocamente moltiplicativi, ispirate da una sorta di incosciente volontà di ritorsione. L’eterna aspirazione dell’avidità ad avere le mani libere, spazzando via ogni inciampo che possa impicciarla. Come può emergere da una sintetica cronologia, che metta in ordine le tessere dei fatti in un quadro complessivo:
- 26 aprile 1956, con l’imbarco sulla petroliera Ideal-X nel porto di Netwark di 58 cassoni in alluminio (the box)
prende avvio la rivoluzione logistica che, mentre schianta la
resistenza del lavoro portuale e desertifica le banchine, con
l’introduzione del container riorganizza il trasporto e sovverte le
catene del valore, nel passaggio al modo di produrre just-in-time;
- 8 ottobre 1962, la ditta USA Fairchild insedia a Hong Kong
l’assemblaggio delle componenti microelettroniche per computer. È
l’avvio del processo di delocalizzazione transnazionale che a
Occidente, con le imprese foot-loose (che atterrano e decollano
dai territori in base alle de-regolazioni), destabilizza le società
fondate sul lavoro e prosciuga le entrate fiscali degli Stati, a
vantaggio delle multinazionali e ora dei cosiddetti “signori del
silicio”. A Oriente ripristina forme di sfruttamento para-schiavistico
di fabbrica;
- 16 ottobre 1973, nel corso della guerra del Kippur - tra
Israele, Egitto e Siria – l’organizzazione dei Paesi produttori del
petrolio (Opec) decide come ritorsione il raddoppio del prezzo del
barile di greggio da 3 a 6$ e l’embargo nei confronti degli Stati
sostenitori di Tel Aviv. Inizia la corsa al rincaro delle materie prime
che, saldandosi con gli aumenti nel costo del lavoro degli anni
precedenti, induce i circoli economici occidentali a virare gli
investimenti dalla sfera materiale a quella finanziario-virtuale;
- 18 giugno 1984, Orgreave, nello Yorkshire del Sud, è lo
scenario dello scontro più violento tra i minatori guidati dal leader
sindacale Arthur Scargill e il primo ministro Margaret Thatcher,
intenzionata a stroncarne la resistenza22.
Una vera “battaglia”, al culmine di un anno di scioperi, segnata
dall’inaudita violenza della forza pubblica che, in pieno assetto
militare e anche con reparti a cavallo, assalì, arrestò, malmenò
selvaggiamente, per poi abbandonarsi alla devastazione di case e
villaggi, mandando in galera 39 minatori con accuse risultate false (a
seguito di un processo per tali abusi, la polizia dovette risarcirli
con 425 mila sterline). Tappa cruciale nell’emarginazione del lavoro
organizzato quale contrappeso “interno” del comando capitalistico;
- 9 novembre 1989, a Berlino crolla il muro che simboleggiava la
divisione delle due Germanie, tracciata dalla Guerra Fredda, dando
l’avvio allo smottamento a Est che determinerà il crollo dell’Unione
Sovietica. Al momento si parlò di vittoria della Democrazia;
gradatamente ci si rese conto che si trattava semmai di trionfo del
Capitalismo, ormai liberato del contrappeso “esterno” rappresentato dal
cosiddetto “Impero del Male”;
- 20 gennaio 1993, viene eletto 42ͦ presidente degli Stati Uniti
il giovane ex governatore dell’Arkansas Bill Clinton. Poco tempo prima
un gruppo di finanzieri e banchieri lo aveva convocato in un
ristorante di Manhattan per spiegargli che se voleva essere eletto
doveva impegnarsi a promuovere il free capital flow, l’immenso potenziale statunitense di gestione delle risorse finanziarie globali. «Lo sventurato rispose»23. La sua amministrazione divenne l’agente della globalizzazione finanziaria;
- Nel corso del 1995 l’agenzia americana National Science
Foundation cede il controllo del web al settore privato. Si chiede il
cyber-critico Evgeny Morozov: «la storia di internet sarebbe stata la
stessa?»24.
Secessione o implosione?
Da tempo i critici del Capitalismo ne avevano individuato il punto di rottura proprio nelle sue contraddizioni occupazionali. Immanuel Wallerstein, direttore del Fernand Braudel Center di New York, indicava tra le cause di un possibile ribaltamento dei rapporti di forza nel conflitto tra capitale e lavoro la “deruralizzazione” del mondo25; ossia la graduale estinzione degli “eserciti di riserva” a oriente che consentono il mantenimento di costanti livelli di profitto attraverso il decentramento produttivo transnazionale. Una dinamica abbondantemente spiazzata dallo svuotamento degli incubatori di nuovo lavoro, grazie alla sostituzione degli ingombri umani con macchine antropomorfe che costano infinitamente meno e neppure si lamentano.
Il post-capitalista Paul Mason, marxianamente determinista (come quando Marx lo è), ha recentemente ipotizzato che «i robot uccideranno il capitalismo perché creeranno una sottoccupazione di massa e i consumi crolleranno». E prosegue: «il vero pericolo insito nella robotizzazione è qualcosa di più grande della disoccupazione di massa: è l’esaurimento della tendenza del capitalismo, che dura da due secoli e mezzo, a creare nuovi mercati quando quelli vecchi sono esauriti». Per cui «un’economia basata sull’informazione, con la sua tendenza a generare prodotti a costo zero e diritti di proprietà deboli, non può essere un’economia capitalistica»26.
Indubbiamente ci sarebbe una sorta di macabra follia in questa desertificazione del lavoro prosciugando l’occupazione. Una sorta di vocazione del Capitalismo a tagliare il ramo su cui è appollaiato: in questo impoverimento diffuso dell’area mediana della società, chi sarà in grado di comprarsi i prodotti della mega-macchina universale?
Sempre ammesso che il quesito susciti interesse in un comando plutocratico che ha rinunciato alla riproduzione del capitale attraverso l’investimento e punta ad accumulare ricchezza attraverso il presidio speculativo di varchi dove transitano beni materiali e/o virtuali: le forme di accaparramento consentite dalla logistica e dalla finanza (magari intrattenendo rapporti cordiali con quella malavitosa). Magari predisponendosi a secessionare dalla società nei paradisi fiscali, dalle Cayman a Panama, o nei quartieri globali delle metropoli, presidiati da polizie private.
Sicché il classico richiamo al beneamato John Maynard Keynes risulta un’arma (concettuale) spuntata. In effetti l’intellettuale probabilmente più significativo del XX secolo aveva prefigurato già nel 1931 il problema di quel morbo «di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica». Analisi profetica a cui viene fornito quale rimedio la riduzione dell’orario di lavoro («ancora per moltissimi anni l’Adamo in noi sentirà di dover lavorare ancora un po’ […] Tre ore al giorno dovrebbero senz’altro bastare pe placarlo»27). Ossia una modalità di ripartizione/trasferimento sociale dei surplus produttivi creati dall’innovazione. Una via concettualmente analoga a soluzioni tipo “reddito di cittadinanza”, di “inclusione”, “secondo assegno” di cui si parla sempre più insistentemente. Senza cavare un ragno dal buco. Perché presuppongono rapporti di forza che sono stati ribaltati ormai in misura irrimediabile dal comando plutocratico. Che riduce a buonismi puramente testimoniali la stanca riproposizione di messaggi ormai anacronistici e vani. Con il contributo diversivo della cosiddetta scienza economica e delle sue ineluttabilità. Perché – per dirla con un grande irregolare del secolo scorso, Pierre Bourdieu - «la scienza che si chiama economia riposa su un’astrazione che consiste nel dissociare una particolare categoria di pratiche, o una particolare dimensione di ogni pratica, dall’ordine sociale nel quale ogni pratica umana è immersa»28.
NOTE
1 Cit. in G. Lunghini, L’età dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino 1995 pag. 48
2 F. Braudel, Una lezione di storia, Einaudi, Torino 1988 pag. 109
3 V. Foa e P. Marcenaro, Riprendere tempo, Einaudi, Torino 1982 pag. 111
4 Cit. in G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 187
5 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1997 pag. 97
6 H. Zinn, Storia del popolo americano, il Saggiatore, Milano 2005 pag. 473 V. Foa e P. Marcenaro, Riprendere tempo, Einaudi, Torino 1982 pag. 111
4 Cit. in G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 187
5 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1997 pag. 97
7 A. Pannone, “Industria 4.0 e disoccupazione tecnologica: né apocalittici né integrati” MicroMega 4/2017
8 F. Braudel, I tempi del mondo, Einaudi, Torino 1982 pag. 602
9 M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2002 pag. 5
10 P. Mason, Postcapitalismo, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 144
10 P. Mason, Postcapitalismo, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 144
11 M. J. Piore e C. F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, ISEDI, Torino 1987 pag. 29
12 T.Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014 pag. 512
13 A Pannone cit.
14 M. Castells, Nascita della società, cit. pag. 6
15 L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino 2015 pag. 18
16 S. Bologna, Le multinazionali del mare, EGEA, Milano 2010 pag. 49
17 M. Levinson, The Box, la scatola che ha cambiato il mondo, EGEA, Milano 2007 pag. 25
18 A. Ross, Il nostro futuro, Feltrinelli, Milano 2016 pag. 59
19 M. Ford, Il futuro senza lavoro, il Saggiatore, Milano 2017 pag. 15
20 E. Brynjolfsson e A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, Milano 2015 pag. 27
21 A. Ross, Il nostro futuro, cit. pag. 60
22 P. Pellizzetti, “La genia dei leader inadeguati”, MicroMega 8/2016
23 G. Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli, Milano 2002 pag. 21
24 E. Mozozov, Silicon Valley, i signori del silicio, Codice, Torino 2017 pag. 135
25 I. Wallerstein, Il declino dell’America, Feltrinelli, Milano 2004 pag. 57
26 P. Mason, Postcapitalismo, cit. pag. 212-213
27 J. M. Keynes, “Possibilità economiche per i nostri nipoti” in Sono un liberale?, Adelphi. Milano 2010 pag. 244
28 P. Bourdieu. Le strutture sociali dell’economia, Asterios, Trieste 2004 pag. 17(4 luglio 2017)
«In verità non resta da desiderare altro se non che
il re, rimasto solo nell’isola, girando continuamente
una manovella, faccia eseguire per mezzo di conge-
gni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra» 1
Sismonde De Sismondi
«Il capitalismo non ha inventato nulla di nuovo; ma
ha liberato la tecnica dei sistemi di frenaggio econo-
nomico-sociali grazie alle sue enormi possibilità di
investimento e alla sua fame insaziabile di profitto»2
Fernand Braudel
il re, rimasto solo nell’isola, girando continuamente
una manovella, faccia eseguire per mezzo di conge-
gni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra» 1
Sismonde De Sismondi
«Il capitalismo non ha inventato nulla di nuovo; ma
ha liberato la tecnica dei sistemi di frenaggio econo-
nomico-sociali grazie alle sue enormi possibilità di
investimento e alla sua fame insaziabile di profitto»2
Fernand Braudel
La feroce dittatura del luogo comune - imperante ai nostri giorni - criminalizza come reazionaria ogni pur timida obiezione all’assunto della funzione economicamente apprezzabile e socialmente meritoria esercitata sostituendo lavoro “vivo” con quello “morto” delle macchine; mentre si reintroduce l’addebito “luddista” per i critici della robotizzazione spinta e pervasiva. L’ennesima trappola terminologica dei Pangloss al servizio dell’esistente come “migliore dei mondi possibili”, contro cui insorgeva Vittorio Foa, vecchio saggio di una sinistra ormai estinta, rimettendo a posto i termini (e i lessici) della questione: «il luddismo, cioè la resistenza violenta all’introduzione dei telai meccanici nell’Inghilterra del primo Ottocento, fu per molto tempo presentato come una barbarica e rozza resistenza al Progresso. Poi vennero storici come Hammond, Hobsbawm e Thompson che ci spiegarono che il luddismo era, in quella circostanza, l’unica forma possibile di lotta sindacale dei tessitori a mano e degli apprendisti che vedevano colpite a morte una plurisecolare capacità di lavoro e un plurisecolare status sociale»3. Conflitto mortale come resistenza alla dequalificazione professionale e per i diritti di ruolo nel controllo del processo produttivo. Princìpi che in quel momento vennero battuti e cancellati dalla controparte, ma che – nel tempo – concorsero a promuovere l’imponente sviluppo del movimento sindacale. Dei diritti sociali di cittadinanza. Una delle prime battaglie campali nel conflitto intestino di cui oggi il paradigma impresa 4.0 potrebbe rivelarsi lo scontro finale: la guerra civile all’interno della nazione “Occidente capitalistico”, tra le due etnie che la compongono. Come aveva già ben chiaro Bejamin Disraeli, ministro della regina Vittoria, quando - in un imprevisto/imprevedibile moto di franchezza - confessava l’indicibile: «l’Inghilterra patria di due nazioni, i poveri e i ricchi»4. Lo schema binario dell’opposizione tra privilegiati e non come guerra tra razze; il cui trauma interiorizzato Michel Foucault scorgeva nelle classi sociali britanniche come effetto dell’invasione normanna vincitrice sui sassoni ad Hastings del 10665.
Dunque – come vedremo – una storia che parla largamente la lingua inglese; visto che nella Boston coloniale ma già plutocratica dei primi anni settanta del Settecento «il 5 percento che costituiva la fascia dei maggiori contribuenti deteneva il 49 percento dei beni soggetti a imposizione fiscale»6, in simmetria con lo stato dell’arte all’inizio del Terzo Millennio: l’1 percento degli americani che detiene il 40 percento dell’intera ricchezza nazionale (poi sceso al 37 durante la presidenza Obama). Tuttavia, nell’intervallo temporale tra Beniamino Franklin e George W. Bush, ci sono due lunghi secoli di duro conflitto distributivo, seppure in larga misura sottotraccia, il cui campo di battaglia era il punto di riproduzione della ricchezza in età industrialista: la fabbrica, che al tempo stesso fungeva da punto di aggregazione delle lotte operaie.
Conflitto in cui il Capitale ha sempre utilizzato la leva dell’innovazione, tanto organizzativa come tecnologica, per riportare a miti consigli il Lavoro; l’antagonista che lo contrappesava e che – nel contempo – assicurava la creazione di plusvalore. Nell’antica logica del nec tecum nec sine te vivere possumus. Di cui il suddetto Capitale sta ormai da tempo attrezzandosi per farne a meno. Se agli inizi degli anni Cinquanta – come si dirà – l’arsenale bellico fu prevalentemente di matrice organizzativa, a partire dal ventennio successivo sono stati i laboratori tecnologici a predisporre le nuove armi distruttive della ristrutturazione capitalistica.
Una vicenda che sfugge ai radar dell’economia proprio per la sua fideistica presunzione di trovare spiegazioni delle dinamiche sociali nell’ipotetico “fatto economico totale”. Che diventa una naïveté altamente pericolosa, (spesso) inconsciamente devastante, quando concorre ad accreditare letture panglossiane circa la rottura del secolare compromesso tra Capitale e Lavoro, rappresentata dalla fabbrica 4.0; sciorinando l’intera gamma delle sue retoriche giustificazioniste: “il migliore dei mondi possibili”, “la Mano Invisibile”, “The One Best Way”, “T.I.N.A.” (there is no alternative). Fraintendimento - diciamo così - che è scivolato insospettatamente persino tra le pagine dell’Almanacco di Economia di MicroMega7.
Cerchiobottisticamente?
Sia come sia, proprio perché nella questione entra pesantemente in gioco l’aspetto che la (presunta) scienza economica è strutturalmente refrattaria a prendere in considerazione: i rapporti di potere e i loro condizionamenti. Dominanti.
Tecnologia e società
Il filo rosso di questa critica del panglossismo up-to-date attiene alla connessione comunicativa che mette in sequenza la neutralità tecnologica e l’inevitabilità delle derive seguite attualmente dal modo di produrre e riprodurre (o accumulare) ricchezza. Il falso problema del determinismo tecnologico, quando il risultato finale di ogni trasformazione science based discende da un complesso rapporto di interazioni, in cui non è possibile né comprendere né rappresentare la società a prescindere dai suoi strumenti tecnologici. Come ci ha spiegato un intero filone di pensiero storico-filosofico tardo-novecentesco; dal Fernand Braudel secondo cui «la domanda crea l’innovazione»8 al Manuel Castells per il quale «la tecnologia non determina la società: la incarna»9. Senza per questo smarrire il criterio distintivo rispetto alle direzioni reali delle svolte in atto; che non trova riscontro nell’uso mediatico confusionista alla moda di etichettare trend epocali mediante sigle numeriche. Con il risultato di unificare gergalmente “industria 2.0” (l’accesso Internet a scopi produttivi) e “azienda 4.0” (le riduzioni del personale grazie all’automazione).
Dunque, processi con effetti antitetici (il 2.0 prefigura dinamiche espansive mentre il 4.0 persegue espulsioni di massa) la cui equiparazione si rivela particolarmente utile nell’opera di confondere le idee e celare alla vista code intrise di veleno. Sia negli speech del ministro NeoLib Carlo Calenda (il Macron de noiantri?) come nei convegni della Confindustria più revanscista.
“WEB 2.0” è un'espressione ormai diventata di uso corrente per indicare la nuova fase nell’evoluzione del World Wide Web, caratterizzata dal passaggio da una posizione statica (o monodirezionale) a una interattiva. Infatti, ci si riferisce all'insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono feedback permanenti tra il sito web e l'utente. Uno sviluppo che coincide con l’estensione della capacità di comunicare con le cose e tra le cose: la cosiddetta “Internet of Things” (IOT), che osservatori qualificati considerano la nuova rivoluzione industriale prossima futura.
Il tecno-entusiasta Paul Mason, autorevole firma dell’emittente britannica Channel 4, ci spiega che «il progresso tecnologico di inizio XXI secolo non consiste in nuovi oggetti, ma nell’aver reso intelligenti quelli vecchi. La conoscenza contenuta nei prodotti sta diventando più preziosa degli elementi fisici usati per produrli»10.
Appunto, ben diverso – o meglio, antitetico - rispetto a quanto in realtà prefigura la mela avvelenata4.0. La cui natura tossica retrostante si inizia a scoprire proprio uscendo dalla trappola del determinismo tecnologico; riscoprendo con gli storici dell’economia Michael Piore e Charles Sabel del MIT che la scelta di un paradigma tecnologico rispetto ad altri non è mai neutrale: «il fatto che certe tecnologie si sviluppino e altre languiscano dipende essenzialmente dalla struttura dei mercati dei prodotti tecnologici; e la struttura dei mercati dipende a sua volta da circostanze politiche fondamentali quali i diritti di proprietà e la distribuzione della ricchezza»11. I cosiddetti “spartiacque industriali”, per cui prevale il modo di produrre di massa (fordista) a scapito di quello flessibile perché nel mercato del lavoro USA abbondavano i lavoratori non specializzati - provenienti dall’immigrazione - e risultava più conveniente scomporre ogni mansione manuale in fasi semplici. Per cui ragioni extra-economiche determinarono in avionica la scelta del “più pesante dell’aria” rispetto al “più leggero”. Ancora una volta sono gli storici dell’economia a penetrare le logiche retrostanti alle decisioni produttive (mentre gli economisti si baloccano con algoritmi e diagrammi). Cosicché è ancora uno storico dell’economia – Thomas Piketty, dopo aver quantificato i processi di espansione della diseguaglianza - a illustrarcene le ragioni meta-economiche; chiamando in ballo “la rivoluzione conservatrice” anglosassone degli anni settanta e ottanta: «la possibilità di spiegare il fenomeno in base alle logiche della tecnologia diventa a questo punto sempre più labile, mentre diventa sempre più concreta quella di motivare il tutto in base alle norme sociali»12. Proviamo a decodificare la sentenza della star parigina.
Ricardo, chi era costui?
La versione edulcorata e consolatoria dei costi sociali di quella che è stata denominata alternativamente “quarta rivoluzione industriale” (la massiccia introduzione di robot e la conseguente automazione dei processi produttivi) o “seconda età delle macchine” (le innovazioni digitali stanno facendo per la nostra forza mentale quanto la macchina a vapore e i suoi epigoni fecero per la forza muscolare), si fonda su tesi risalenti nientemeno che agli albori della rivoluzione industriale: al venerando David Ricardo (1772 – 1823), che nel lontano 1821 ipotizzava una sorta di “mano invisibile ritardataria in materia di innovazione”. Il cosiddetto machinery effect, «in base al quale l’introduzione di macchine nei processi produttivi ha un effetto negativo sull’occupazione nel breve periodo. […] Nel lungo periodo i lavoratori possono essere riassorbiti dai nuovi processi produttivi, potenzialmente più numerosi dei precedenti a causa dell’aumento di produttività»13.
Intanto qualcosa è un po’ cambiato dal tempo dell’introduzione dei primi telai meccanici. Magari il fatto che negli anni Settanta del secolo scorso - a partire dagli Stati Uniti – venne imponendosi un nuovo paradigma tecnologico legato alle tecnologie dell’informazione. Nonostante le commesse e i finanziamenti militari abbiano svolto una funzione decisiva nei primi passi dell’industria elettronica tra gli anni Quaranta e Sessanta, il fatto che la creazione di tale paradigma abbia avuto luogo in California non è privo di effetti sostanziali. Non tanto sotto il profilo politico, dato che Silicon Valley è sempre stata un solido baluardo del voto conservatore e che buona parte degli innovatori erano rudi tempre di impolitici, intrisi degli umori reazionari di una cultura anarco-libertaria diffusa nei campus americani anni Sessanta; con un atavico retro-pensiero, proprio del calvinismo anglosassone, sulla povertà come colpevolezza agli occhi di dio. Semmai l’aspetto decisivo afferisce ai valori sociali veicolati, «volti alla rottura degli schemi di comportamenti consolidati, sia nella società in generale sia nel mondo degli affari. L’importanza attribuita a dispositivi personalizzati, all’interattività, all’interconnessione in rete e all’inseguimento senza tregua di nuove conquiste tecnologiche ha rappresentato un segno di discontinuità con la tradizione piuttosto cauta del mondo delle imprese»14. E mentre le nuove tecnologie si propagavano, si è assistito alla loro tracimazione su ogni tipo di impiego, omologandone le logiche all’impianto valoriale di cui sopra: l’assiomatica egoista dell’interesse individuale, insofferente di regole e strutture rispondenti a interessi generali, contrapposta alla cultura laborista dei diritti e delle tutele.
Prendeva così forma il tecno-mostro che si occulta dietro sigle apparentemente accattivanti e le retoriche consolatorie: l’operazione di pulizia etnica del lavoro realizzata per eliminare il principale contrappeso all’ordine turbo-capitalista. Un sogno a lungo coltivato dalle plutocrazie, dal tempo in cui la combattività operaia imponeva le prime legislazioni sociali e poi le grandi stagioni liberal-socialiste del Welfare e dello Stato sociale. Abrogandone il massimo esito inclusivo: la crescita imponente dell’area centrale della società nell’accesso alla cittadinanza e a un relativo benessere. Come ha puntualmente scritto Luciano Gallino nel suo ultimo saggio, «il consumatore medio – l’impiegato, l’operaio, l’insegnante, l’infermiera, ecc. – non è diventato più povero per qualche misteriosa disfunzione dell’economia: è stato intenzionalmente impoverito da chi aveva il potere di farlo, al fine di trasferire ai profitti e alle rendite la maggiore quota possibile dei redditi da lavoro»15.
Sterminare il lavoro!
Diciamolo francamente: il significato intrinseco di quanto sta avvenendo nel sistema-Mondo capitalistico concerne il definitivo spostamento di centralità politica e sociale dal lavoro al capitale, supportato da un flusso di innovazioni tecnologiche e organizzative finalizzate – per dire così - a “rimettere in riga” (o forse sarebbe meglio dire, “in un angolo”) la working class.
Se vogliamo, operazione sistemica avviata con la rivoluzione del container del 1954 che, mediante l’inventiva gestionale (il cassone metallico impilabile dalla lunghezza standard di 9,14 metri degli inizi, destinato ad abbattere di nove decimi i costi della movimentazione delle merci attraverso la catena intermodale terra-mare16), stroncava la capacità di lotta di una categoria allora all’avanguardia, quale quella dei lavoratori portuali. L’uragano che sconvolse la logistica a partire dalla seconda metà del secolo scorso, per cui le attuali super-navi portacontainer (le post post panamax da oltre 6mila TEUS, l’unità di misura standard corrispondente a un container da 20 piedi) hanno determinato il crollo dei trasporti; con il conseguente avvento del modo di produrre “toyotistico”. Il post-fordismo (o l’iper-fordismo, a piacere) che annulla la dipendenza dalle distanze, regolando just-in-time il flusso delle produzioni e rendendo sempre più volatili i luoghi della produzione. Second time, dopo aver desertificato i porti e banalizzato le funzioni che vi si svolgevano.
Sicché può ben dirsi che fu da quella prima mattanza di manodopera a occidente e dall’utilizzo di maestranze sottopagate a oriente, attraverso il decentramento transnazionale, che prese avvio la riscossa del comando capitalistico; spazzando via mediante il binomio flessibilizzazione/precarizzazione le rigidezze garantiste (i diritti del lavoro) conquistate dal movimento operaio attraverso le sue lotte novecentesche.
Allora nessuno se ne accorse, ma quella iniziata sulle banchine dei porti atlantici e mediterranei, nel bel mezzo dei “Trenta Gloriosi” (la stagione welfariana della società inclusiva coniugata con la massima espansione economica dell’Occidente), fu una prova generale; ben prima di quella militare del 1973, con il colpo di Stato cileno operato dal generale Pinochet. Avvisaglia di una fase restaurativa in gestazione, poco dopo favorita dall’avvento della controrivoluzione conservatrice (reazionaria) guidata dalle Margaret Thatcher e dai Ronald Reagan; impostasi facendo piazza pulita delle resistenze sociali. E il grimaldello divenne proprio l’introduzione di innovazioni labour saving. A partire dai contenitori con cui si schiantava la resistenza di quegli scaricatori marittimi che da oltre un secolo rappresentavano con orgoglio la punta di diamante del radicalismo sindacale17; per arrivare all’attuale alluvione di automazioni che sostituiscono – per dirla marxianamente - “lavoro vivo” con il “lavoro morto” delle macchine. Culminando nell’avvento della robotica; che tanto affascina governanti naif ma reca con sé problemi di organizzazione della società di cui ad oggi non sembra ci si renda conto. Drammatici. Che ci esploderanno in faccia quando i tassisti saranno sostituiti dalle auto senza autista (il Progetto Chauffeur di Google, in stato di avanzata sperimentazione) o le shampiste dall’androide con 24 dita realizzato dalla Panasonic; mandando a spasso entrambe le categorie.
O – peggio ancora – se farà scuola (come è molto probabile che lo faccia) il negriero 4.0 di nome Terry Gou: il taiwanese ras di FoxConn che nelle Export Processing Zones di Shenzhen, all’estuario del Fiume delle Perle, utilizza lavoro schiavistico per produrre i gadget di Apple, Microsoft e Samsung. Tale signore annunciava nel 2011 il programma d’acquisto di un milione di robot per sostituire altrettanti lavoratori umani (e già allora costui ne impiegava in fabbrica diecimila, mentre l’anno successivo il loro numero era balzato a trecentomila18); a prevenzione di qualunque timido segno di ribellione delle maestranze cinesi alle condizioni subumane loro imposte. Anche nell’Estremo Oriente la cosiddetta “seconda età delle macchine” (la loro resa “pensanti”) stronca ogni capacità di resistenza alla ristrutturazione in atto attraverso lotte del lavoro. Che – contrariamente ai tentativi di minimizzare – non riguarda soltanto lavori manuali e/o ripetitivi, addetti a basse istruzione e competenze, accertato che erode buona parte delle professioni qualificate; supportata dal continuo sviluppo del fenomeno dei “Big Data” (l’espressione onnicomprensiva per indicare l’immensa quantità di dati accumulati grazie alla digitalizzazione; utilizzabili per capire, analizzare e prevedere tendenze in tempo reale). «In attesa del giorno – ha scritto il softwarista di Silicon Valley Martin Ford – in cui farà la sua comparsa un algoritmo intelligente di apprendimento automatico che inizierà ad istruirsi da solo esplorando la documentazione lasciata dai suoi predecessori umani»19. Fatto sta – come sentenziano gli scienziati del MIT Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee - «gli apparecchi digitali ci stanno dando la paga, svolgendo attività in cui erano sempre stati carenti e mostrando capacità che non si pensava avrebbero acquisito in breve»20. E le applicazioni di tali avatar si inseriscono in ambiti che vanno dalla medicina chirurgica a quello delle lavorazioni di fabbrica più disparate (assemblaggi come verniciature), per arrivare a qualsivoglia lavoro d’ordine e perfino di servizio (ossia tassisti, baristi e cameriere. Attualmente, limitandoci a queste ultime, nei soli Stati Uniti si tratta di 2,3 milioni di persone). Al riguardo l’esperto di tecnologia Alec Ross, già consigliere per l’innovazione dell’allora Segretaria di Stato Hillary Clinton, ha recentemente fornito alcune cifre di massima, non certo tranquillizzanti: «quelli che svolgono mestieri difficili da automatizzare – per esempio gli avvocati – potrebbero essere al sicuro, ma i colletti bianchi con impieghi più facilmente automatizzabili, come i para-legali, sono ad alto rischio. Il pericolo massimo riguarda il 60 per cento della forza lavoro statunitense, la cui funzione principale è quella di aggregare e applicare le informazioni»21.
La secessione dell’uno percento
Dunque, sulla tolda del Titanic-mondo, mentre l’orchestrina suona l’allegro refrain della liberazione dal lavoro 4.0, va preparandosi un’immensa mattanza. Non la deliberata cospirazione di una mente volta al male, bensì la sommatoria di azioni con effetti reciprocamente moltiplicativi, ispirate da una sorta di incosciente volontà di ritorsione. L’eterna aspirazione dell’avidità ad avere le mani libere, spazzando via ogni inciampo che possa impicciarla. Come può emergere da una sintetica cronologia, che metta in ordine le tessere dei fatti in un quadro complessivo:
Diciamolo francamente: il significato intrinseco di quanto sta avvenendo nel sistema-Mondo capitalistico concerne il definitivo spostamento di centralità politica e sociale dal lavoro al capitale, supportato da un flusso di innovazioni tecnologiche e organizzative finalizzate – per dire così - a “rimettere in riga” (o forse sarebbe meglio dire, “in un angolo”) la working class.
Se vogliamo, operazione sistemica avviata con la rivoluzione del container del 1954 che, mediante l’inventiva gestionale (il cassone metallico impilabile dalla lunghezza standard di 9,14 metri degli inizi, destinato ad abbattere di nove decimi i costi della movimentazione delle merci attraverso la catena intermodale terra-mare16), stroncava la capacità di lotta di una categoria allora all’avanguardia, quale quella dei lavoratori portuali. L’uragano che sconvolse la logistica a partire dalla seconda metà del secolo scorso, per cui le attuali super-navi portacontainer (le post post panamax da oltre 6mila TEUS, l’unità di misura standard corrispondente a un container da 20 piedi) hanno determinato il crollo dei trasporti; con il conseguente avvento del modo di produrre “toyotistico”. Il post-fordismo (o l’iper-fordismo, a piacere) che annulla la dipendenza dalle distanze, regolando just-in-time il flusso delle produzioni e rendendo sempre più volatili i luoghi della produzione. Second time, dopo aver desertificato i porti e banalizzato le funzioni che vi si svolgevano.
Sicché può ben dirsi che fu da quella prima mattanza di manodopera a occidente e dall’utilizzo di maestranze sottopagate a oriente, attraverso il decentramento transnazionale, che prese avvio la riscossa del comando capitalistico; spazzando via mediante il binomio flessibilizzazione/precarizzazione le rigidezze garantiste (i diritti del lavoro) conquistate dal movimento operaio attraverso le sue lotte novecentesche.
Allora nessuno se ne accorse, ma quella iniziata sulle banchine dei porti atlantici e mediterranei, nel bel mezzo dei “Trenta Gloriosi” (la stagione welfariana della società inclusiva coniugata con la massima espansione economica dell’Occidente), fu una prova generale; ben prima di quella militare del 1973, con il colpo di Stato cileno operato dal generale Pinochet. Avvisaglia di una fase restaurativa in gestazione, poco dopo favorita dall’avvento della controrivoluzione conservatrice (reazionaria) guidata dalle Margaret Thatcher e dai Ronald Reagan; impostasi facendo piazza pulita delle resistenze sociali. E il grimaldello divenne proprio l’introduzione di innovazioni labour saving. A partire dai contenitori con cui si schiantava la resistenza di quegli scaricatori marittimi che da oltre un secolo rappresentavano con orgoglio la punta di diamante del radicalismo sindacale17; per arrivare all’attuale alluvione di automazioni che sostituiscono – per dirla marxianamente - “lavoro vivo” con il “lavoro morto” delle macchine. Culminando nell’avvento della robotica; che tanto affascina governanti naif ma reca con sé problemi di organizzazione della società di cui ad oggi non sembra ci si renda conto. Drammatici. Che ci esploderanno in faccia quando i tassisti saranno sostituiti dalle auto senza autista (il Progetto Chauffeur di Google, in stato di avanzata sperimentazione) o le shampiste dall’androide con 24 dita realizzato dalla Panasonic; mandando a spasso entrambe le categorie.
O – peggio ancora – se farà scuola (come è molto probabile che lo faccia) il negriero 4.0 di nome Terry Gou: il taiwanese ras di FoxConn che nelle Export Processing Zones di Shenzhen, all’estuario del Fiume delle Perle, utilizza lavoro schiavistico per produrre i gadget di Apple, Microsoft e Samsung. Tale signore annunciava nel 2011 il programma d’acquisto di un milione di robot per sostituire altrettanti lavoratori umani (e già allora costui ne impiegava in fabbrica diecimila, mentre l’anno successivo il loro numero era balzato a trecentomila18); a prevenzione di qualunque timido segno di ribellione delle maestranze cinesi alle condizioni subumane loro imposte. Anche nell’Estremo Oriente la cosiddetta “seconda età delle macchine” (la loro resa “pensanti”) stronca ogni capacità di resistenza alla ristrutturazione in atto attraverso lotte del lavoro. Che – contrariamente ai tentativi di minimizzare – non riguarda soltanto lavori manuali e/o ripetitivi, addetti a basse istruzione e competenze, accertato che erode buona parte delle professioni qualificate; supportata dal continuo sviluppo del fenomeno dei “Big Data” (l’espressione onnicomprensiva per indicare l’immensa quantità di dati accumulati grazie alla digitalizzazione; utilizzabili per capire, analizzare e prevedere tendenze in tempo reale). «In attesa del giorno – ha scritto il softwarista di Silicon Valley Martin Ford – in cui farà la sua comparsa un algoritmo intelligente di apprendimento automatico che inizierà ad istruirsi da solo esplorando la documentazione lasciata dai suoi predecessori umani»19. Fatto sta – come sentenziano gli scienziati del MIT Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee - «gli apparecchi digitali ci stanno dando la paga, svolgendo attività in cui erano sempre stati carenti e mostrando capacità che non si pensava avrebbero acquisito in breve»20. E le applicazioni di tali avatar si inseriscono in ambiti che vanno dalla medicina chirurgica a quello delle lavorazioni di fabbrica più disparate (assemblaggi come verniciature), per arrivare a qualsivoglia lavoro d’ordine e perfino di servizio (ossia tassisti, baristi e cameriere. Attualmente, limitandoci a queste ultime, nei soli Stati Uniti si tratta di 2,3 milioni di persone). Al riguardo l’esperto di tecnologia Alec Ross, già consigliere per l’innovazione dell’allora Segretaria di Stato Hillary Clinton, ha recentemente fornito alcune cifre di massima, non certo tranquillizzanti: «quelli che svolgono mestieri difficili da automatizzare – per esempio gli avvocati – potrebbero essere al sicuro, ma i colletti bianchi con impieghi più facilmente automatizzabili, come i para-legali, sono ad alto rischio. Il pericolo massimo riguarda il 60 per cento della forza lavoro statunitense, la cui funzione principale è quella di aggregare e applicare le informazioni»21.
La secessione dell’uno percento
Dunque, sulla tolda del Titanic-mondo, mentre l’orchestrina suona l’allegro refrain della liberazione dal lavoro 4.0, va preparandosi un’immensa mattanza. Non la deliberata cospirazione di una mente volta al male, bensì la sommatoria di azioni con effetti reciprocamente moltiplicativi, ispirate da una sorta di incosciente volontà di ritorsione. L’eterna aspirazione dell’avidità ad avere le mani libere, spazzando via ogni inciampo che possa impicciarla. Come può emergere da una sintetica cronologia, che metta in ordine le tessere dei fatti in un quadro complessivo:
- 26 aprile 1956, con l’imbarco sulla petroliera Ideal-X nel porto di Netwark di 58 cassoni in alluminio (the box)
prende avvio la rivoluzione logistica che, mentre schianta la
resistenza del lavoro portuale e desertifica le banchine, con
l’introduzione del container riorganizza il trasporto e sovverte le
catene del valore, nel passaggio al modo di produrre just-in-time;
- 8 ottobre 1962, la ditta USA Fairchild insedia a Hong Kong
l’assemblaggio delle componenti microelettroniche per computer. È
l’avvio del processo di delocalizzazione transnazionale che a
Occidente, con le imprese foot-loose (che atterrano e decollano
dai territori in base alle de-regolazioni), destabilizza le società
fondate sul lavoro e prosciuga le entrate fiscali degli Stati, a
vantaggio delle multinazionali e ora dei cosiddetti “signori del
silicio”. A Oriente ripristina forme di sfruttamento para-schiavistico
di fabbrica;
- 16 ottobre 1973, nel corso della guerra del Kippur - tra
Israele, Egitto e Siria – l’organizzazione dei Paesi produttori del
petrolio (Opec) decide come ritorsione il raddoppio del prezzo del
barile di greggio da 3 a 6$ e l’embargo nei confronti degli Stati
sostenitori di Tel Aviv. Inizia la corsa al rincaro delle materie prime
che, saldandosi con gli aumenti nel costo del lavoro degli anni
precedenti, induce i circoli economici occidentali a virare gli
investimenti dalla sfera materiale a quella finanziario-virtuale;
- 18 giugno 1984, Orgreave, nello Yorkshire del Sud, è lo
scenario dello scontro più violento tra i minatori guidati dal leader
sindacale Arthur Scargill e il primo ministro Margaret Thatcher,
intenzionata a stroncarne la resistenza22.
Una vera “battaglia”, al culmine di un anno di scioperi, segnata
dall’inaudita violenza della forza pubblica che, in pieno assetto
militare e anche con reparti a cavallo, assalì, arrestò, malmenò
selvaggiamente, per poi abbandonarsi alla devastazione di case e
villaggi, mandando in galera 39 minatori con accuse risultate false (a
seguito di un processo per tali abusi, la polizia dovette risarcirli
con 425 mila sterline). Tappa cruciale nell’emarginazione del lavoro
organizzato quale contrappeso “interno” del comando capitalistico;
- 9 novembre 1989, a Berlino crolla il muro che simboleggiava la
divisione delle due Germanie, tracciata dalla Guerra Fredda, dando
l’avvio allo smottamento a Est che determinerà il crollo dell’Unione
Sovietica. Al momento si parlò di vittoria della Democrazia;
gradatamente ci si rese conto che si trattava semmai di trionfo del
Capitalismo, ormai liberato del contrappeso “esterno” rappresentato dal
cosiddetto “Impero del Male”;
- 20 gennaio 1993, viene eletto 42ͦ presidente degli Stati Uniti
il giovane ex governatore dell’Arkansas Bill Clinton. Poco tempo prima
un gruppo di finanzieri e banchieri lo aveva convocato in un
ristorante di Manhattan per spiegargli che se voleva essere eletto
doveva impegnarsi a promuovere il free capital flow, l’immenso potenziale statunitense di gestione delle risorse finanziarie globali. «Lo sventurato rispose»23. La sua amministrazione divenne l’agente della globalizzazione finanziaria;
- Nel corso del 1995 l’agenzia americana National Science
Foundation cede il controllo del web al settore privato. Si chiede il
cyber-critico Evgeny Morozov: «la storia di internet sarebbe stata la
stessa?»24.
Secessione o implosione?
Da tempo i critici del Capitalismo ne avevano individuato il punto di rottura proprio nelle sue contraddizioni occupazionali. Immanuel Wallerstein, direttore del Fernand Braudel Center di New York, indicava tra le cause di un possibile ribaltamento dei rapporti di forza nel conflitto tra capitale e lavoro la “deruralizzazione” del mondo25; ossia la graduale estinzione degli “eserciti di riserva” a oriente che consentono il mantenimento di costanti livelli di profitto attraverso il decentramento produttivo transnazionale. Una dinamica abbondantemente spiazzata dallo svuotamento degli incubatori di nuovo lavoro, grazie alla sostituzione degli ingombri umani con macchine antropomorfe che costano infinitamente meno e neppure si lamentano.
Il post-capitalista Paul Mason, marxianamente determinista (come quando Marx lo è), ha recentemente ipotizzato che «i robot uccideranno il capitalismo perché creeranno una sottoccupazione di massa e i consumi crolleranno». E prosegue: «il vero pericolo insito nella robotizzazione è qualcosa di più grande della disoccupazione di massa: è l’esaurimento della tendenza del capitalismo, che dura da due secoli e mezzo, a creare nuovi mercati quando quelli vecchi sono esauriti». Per cui «un’economia basata sull’informazione, con la sua tendenza a generare prodotti a costo zero e diritti di proprietà deboli, non può essere un’economia capitalistica»26.
Indubbiamente ci sarebbe una sorta di macabra follia in questa desertificazione del lavoro prosciugando l’occupazione. Una sorta di vocazione del Capitalismo a tagliare il ramo su cui è appollaiato: in questo impoverimento diffuso dell’area mediana della società, chi sarà in grado di comprarsi i prodotti della mega-macchina universale?
Sempre ammesso che il quesito susciti interesse in un comando plutocratico che ha rinunciato alla riproduzione del capitale attraverso l’investimento e punta ad accumulare ricchezza attraverso il presidio speculativo di varchi dove transitano beni materiali e/o virtuali: le forme di accaparramento consentite dalla logistica e dalla finanza (magari intrattenendo rapporti cordiali con quella malavitosa). Magari predisponendosi a secessionare dalla società nei paradisi fiscali, dalle Cayman a Panama, o nei quartieri globali delle metropoli, presidiati da polizie private.
Sicché il classico richiamo al beneamato John Maynard Keynes risulta un’arma (concettuale) spuntata. In effetti l’intellettuale probabilmente più significativo del XX secolo aveva prefigurato già nel 1931 il problema di quel morbo «di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica». Analisi profetica a cui viene fornito quale rimedio la riduzione dell’orario di lavoro («ancora per moltissimi anni l’Adamo in noi sentirà di dover lavorare ancora un po’ […] Tre ore al giorno dovrebbero senz’altro bastare pe placarlo»27). Ossia una modalità di ripartizione/trasferimento sociale dei surplus produttivi creati dall’innovazione. Una via concettualmente analoga a soluzioni tipo “reddito di cittadinanza”, di “inclusione”, “secondo assegno” di cui si parla sempre più insistentemente. Senza cavare un ragno dal buco. Perché presuppongono rapporti di forza che sono stati ribaltati ormai in misura irrimediabile dal comando plutocratico. Che riduce a buonismi puramente testimoniali la stanca riproposizione di messaggi ormai anacronistici e vani. Con il contributo diversivo della cosiddetta scienza economica e delle sue ineluttabilità. Perché – per dirla con un grande irregolare del secolo scorso, Pierre Bourdieu - «la scienza che si chiama economia riposa su un’astrazione che consiste nel dissociare una particolare categoria di pratiche, o una particolare dimensione di ogni pratica, dall’ordine sociale nel quale ogni pratica umana è immersa»28.
NOTE
1 Cit. in G. Lunghini, L’età dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino 1995 pag. 48
2 F. Braudel, Una lezione di storia, Einaudi, Torino 1988 pag. 109
3 V. Foa e P. Marcenaro, Riprendere tempo, Einaudi, Torino 1982 pag. 111
4 Cit. in G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 187
5 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1997 pag. 97
6 H. Zinn, Storia del popolo americano, il Saggiatore, Milano 2005 pag. 473 V. Foa e P. Marcenaro, Riprendere tempo, Einaudi, Torino 1982 pag. 111
4 Cit. in G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 187
5 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1997 pag. 97
7 A. Pannone, “Industria 4.0 e disoccupazione tecnologica: né apocalittici né integrati” MicroMega 4/2017
8 F. Braudel, I tempi del mondo, Einaudi, Torino 1982 pag. 602
9 M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2002 pag. 5
10 P. Mason, Postcapitalismo, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 144
10 P. Mason, Postcapitalismo, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 144
11 M. J. Piore e C. F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, ISEDI, Torino 1987 pag. 29
12 T.Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014 pag. 512
13 A Pannone cit.
14 M. Castells, Nascita della società, cit. pag. 6
15 L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino 2015 pag. 18
16 S. Bologna, Le multinazionali del mare, EGEA, Milano 2010 pag. 49
17 M. Levinson, The Box, la scatola che ha cambiato il mondo, EGEA, Milano 2007 pag. 25
18 A. Ross, Il nostro futuro, Feltrinelli, Milano 2016 pag. 59
19 M. Ford, Il futuro senza lavoro, il Saggiatore, Milano 2017 pag. 15
20 E. Brynjolfsson e A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, Milano 2015 pag. 27
21 A. Ross, Il nostro futuro, cit. pag. 60
22 P. Pellizzetti, “La genia dei leader inadeguati”, MicroMega 8/2016
23 G. Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli, Milano 2002 pag. 21
24 E. Mozozov, Silicon Valley, i signori del silicio, Codice, Torino 2017 pag. 135
25 I. Wallerstein, Il declino dell’America, Feltrinelli, Milano 2004 pag. 57
26 P. Mason, Postcapitalismo, cit. pag. 212-213
27 J. M. Keynes, “Possibilità economiche per i nostri nipoti” in Sono un liberale?, Adelphi. Milano 2010 pag. 244
28 P. Bourdieu. Le strutture sociali dell’economia, Asterios, Trieste 2004 pag. 17(4 luglio 2017)
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