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In molti
guardano, pochissimi riescono a vedere. La metafora s’adatta a una Turchia colpita,
impaurita, confusa che vive da mesi come in trance. Dell’ultimo incubo
materializzatosi nella Ortaköy dello svago - dove gli occhi telematici hanno
filmato il volto sospetto del killer stragista che da giorni occhi polizieschi
studiano - non c’è ancora nulla di tangibile. Tracce, disseminate da fotogrammi
che si rivelano impropri, per lo meno per centrare la cattura del jihadista del
Reina, di cui sono state offerte due identità inesatte: prima di un uiguro, poi
d’un kirghizo. Ma non di quelli giusti. La polizia ha seguìto tracce svanite
nel nulla nel giro di poche ore e, nel silenzio stampa con cui gli organi di
sicurezza affrontano il trauma del post attentato, non è chiaro se quelle
notizie sono state lanciate per offrire comunque ai concittadini la sensazione
che lo Stato c’è oppure i segugi degli apparati abbiano annusato piste fasulle.
Il claudicante operato avvalora la tesi di strutture purgate a tal punto da apparire
fragili e debilitate. Invece secondo altre ipotesi il disorientamento e
l’inefficacia sono conferma di quanta destabilizzazione i fethullaçi tuttora presenti negli organi della forza riescano a
innescare. Anche questa sarebbe una battaglia distruttiva verso il coriaceo
sistema vantato (o millantato?) da Erdoğan. Certamente più efficace del golpe di luglio,
al cui fallimento aveva contribuito più la reazione emotiva della gente che un
contro intervento armato. In quel momento i turchi si sono stretti attorno al
presidente, ora l’afflato appare svilito.
Per
recuperare credibilità lo staff del sultano dovrebbe mostrare efficienza più che
fermezza, ma forse per tranquillizzare se stessi prima dei cittadini rilancia
blindature: cortina di ferro sulle indagini e altri tre mesi di emergenza
sull’intero territorio nazionale. Qualcuno avanza l’idea del bluff: gli
scivoloni sui presunti attentatori sarebbero esche per incastrare il vero
responsabile che è ancora sul territorio, non è un lupo solitario e gode d’una
rete di protezione. Per questo da due giorni si fermano “complici” e si
setaccia il Molembeek di Istanbul, il quartiere di Zeytinburnu, abitato da
famiglie centroasiatiche di Paesi turcofoni, un’area periferica a cinque
chilometri dal centro città e altrettanti dall’aeroporto Atatürk. Anche per
quell’attentato vennero sospettati (e mai trovati) jihadisti d’origine
asiatica, almeno nei tratti somatici degli ennesimi fotogrammi sospetti che
fissavano immagini su volti cui non si riusciva a dare un nome. E’ in questo
bis di elementi la problematicità con cui Erdoğan deve fare i conti:
l’Intelligence revisionata, che probabilmente ha iniziato a perdere colpi dalla
dipartita d’un fidatissimo sodale come Fidan, e il porto delle nebbie diventata
Istanbul dal 2013, quando un numero crescente di foreign fighters passava per
il Bosforo per raggiungere il confine siriano e infilarsi nelle sue varie
componenti jihadiste in conflitto con Asad. La polizia che ora va a caccia di
questi combattenti, li ha schivati e tollerati a lungo. Li ha forse anche
protetti, e allora potrebbe conoscerne mosse e nascondigli. Ma c’è un problema:
quale polizia e quali jihadsti?
Se reti terroristiche e antiterroristiche non s’improvvisano né sorgono in un battibaleno, è anche vero che la mutabilità di questi orizzonti ha mostrato tempistiche più che razzenti. I combattenti sul fronte siriano hanno ruotato, i reclutamenti da vari serbatoi continuano ad attingere energie nuove tanto che oggi si rivolge lo sguardo all’islamismo delle ex Repubbliche Sovietiche centroasiatiche, alcune delle quali hanno abbracciato il jihad da decenni come gli uzbeki; altri (uiguri), che pure lottavano per l’indipendenza durante la guerra civile cinese, si stanno avvicinando in questi ultimi tempi a seguito di reazioni e oppressioni etniche nei propri territori. Ma chi aderisce al modello combattentistico di Al Baghdadi segue logiche che travalicano nazionalismi ed etnie. Al di là della creazione d’un proprio territorio, il Califfo punta a superare i confini nazionali e riunire i seguaci esaltando la lotta dei veri islamici contro infedeli e traditori. Il modello islamico turco, viene giudicato tale, e oggi è colpito forse più perché giudicato un traditore tattico, che fino a un anno fa permetteva al jihadismo di sopravvivere e organizzarsi nell’Anatolia mentre ora va a bombardare le aree del Daesh. Così due pensieri forti della politica turca - disegno neo ottomano e panturchismo - diventano una sorta di contrappasso per la realtà del Paese, messo sotto assedio dai sanguinosi assalti dell’Islam salafita che trova i suoi soldati anche nell’area turcofona.
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