martedì 7 giugno 2016

John Thackara: "Gli Stati sono morti, viva le bioregioni".

Solo un mix di consapevolezza e tecnologia può salvare il pianeta. Creando strutture politiche innovative. Dove ogni città vive in simbiosi con le sue campagne. Parla un guru della nuova economia, a Milano per 'Future Ways of Living'.

John Thackara: Gli Stati sono morti, viva le bioregioni L'Espresso di Fabio Chiusi 
 


Designer, autore, voce tra le più autorevoli in tema di sostenibilità ambientale e nuova economia. I modi per definire John Thackara sono molti. In trent’anni, Thackara ha girato il mondo a caccia di storie, di esempi virtuosi di quella “prossima economia” che, dice, sta al fondamento di una rivoluzione senza precedenti nel nostro rapporto con la Terra, e con la sua sopravvivenza.

È l’alba della “terza fase della sostenibilità”: l’oggetto dell’intervento a Future Ways of Living , ideato da  Meet the Media Guru , che lo ha portato in questi giorni a Milano. Alla Triennale di Milano ha parlato del design dei servizi applicato alla città e delle pratiche sociali come chiave della trasformazione urbanistica.

Thackara, cos’è questa “terza fase”?

«Nel 1972 il Club di Roma ha pubblicato il Rapporto sui limiti dello sviluppo. Uno degli scenari proposti era che se la crescita economica fosse proseguita avrebbe condotto al collasso delle nazioni sviluppate. La prima reazione è stato negare, dire che si trattava di uno spauracchio. Nella seconda, sviluppatasi negli ultimi vent’anni, i moniti sull’esaurimento delle risorse naturali, la crisi energetica e il cambiamento climatico hanno cominciato a essere presi più sul serio - ma ancora all’interno dell’ottica di provare a modificare il sistema attuale per farlo continuare a esistere. L’idea era di renderlo più efficiente e pulito. Nella terza fase invece non è abbastanza, perché ci si è accorti che è il sistema stesso a essere fondamentalmente errato, e che è impossibile curarlo».

Che significa, in concreto?
«La trasformazione che ci è richiesta è di immaginarci come parte dei sistemi viventi del pianeta, invece che qualcosa di separato o al di sopra di essi. È un cambiamento enorme, ma ci sono molteplici esempi di come stia già avvenendo tramite piccoli gesti. Ciò che sostengo è che, mettendoli insieme secondo questa nuova narrazione del nostro posto nel mondo, si colgono gli ingredienti di una trasformazione molto più profonda rispetto a quanto avvenuto negli ultimi 40 anni».

Ciò che chiama “Next Economy”, la prossima economia.
«È più che altro l’espressione di un nuovo modo di pensare al nostro posto nel mondo, e ha a che fare con il riconnetterci ai luoghi in cui viviamo come fonte del cibo che mangiamo, dell’acqua che beviamo e dell’aria che respiriamo».

Se dovessi riassumere il suo pensiero in un motto direi: «Dobbiamo hackerare la sostenibilità». Già quando nel 1993 creò il suo progetto “Doors of Perception” la domanda era: «Sappiamo cosa possono fare le nuove tecnologie, ma per quale obiettivo?». Che risposta si è dato, vent’anni dopo?
«All’epoca ce lo chiedemmo per Internet e non ottenemmo risposte soddisfacenti dall’industria tecnologica. Poi nel 1995 riunimmo per la prima volta la comunità degli ambientalisti e quella tecnologica; i primi chiesero ai secondi come le nuove tecnologie avrebbero potuto contribuire a riorganizzare l’economia prima che distruggesse il pianeta; i secondi si mostrarono collaborativi, ma ci sono voluti almeno 15 anni per vederne i frutti. Negli ultimi tre o quattro anni però ne stiamo vedendo in termini di piattaforme per riorganizzare la distribuzione di cose reali in tutto il pianeta. Il cibo è un buon esempio, con piattaforme come la francese “La ruche qui dit oui”, che connette produttori e consumatori in modo diretto tramite Internet e smartphone - con il risultato di diminuire le distanze percorse dai cibi o migliorare l’accesso a buon cibo».

Le tecnologie hanno dunque il massimo impatto quando intervengono su fenomeni reali.
«Esatto. Oggi l’attenzione è sugli investimenti massicci in tecnologia di per sé, ma il mio punto è che non costituiscono una risposta ai problemi energetici e dell’economia - cioè quelli che dobbiamo davvero affrontare. Aggiungere continuamente complessità grazie alla tecnologia peggiora le cose, da un punto di vista termodinamico. La tecnologia che porta cambiamenti positivi è invece quella che semplifica e chiarifica le relazioni tra persone che agiscono nel mondo reale».

Lei è critico anche verso la cosiddetta “sharing economy”, sul modello Uber. Non sta rendendo il mondo più sostenibile?
«Sono colpevole come molti altri di essere stato un entusiasta di Uber, all’inizio. Pensai: “È fantastico! Ecco un sistema che ci consente di sfruttare risorse, come le automobili, in modo molto più efficace, ci saranno di certo meno auto per le strade”. Il problema è duplice. Il primo è che con Uber ce ne sono invece di più. Il secondo è che il denaro generato dal sistema non finisce nelle mani dell’economia locale. Al contrario, un sistema basato sui beni comuni lascia il denaro prodotto lì dove si produce. Il mio esempio preferito è la piattaforma israeliana LaZooz, che svolge la stessa funzione di Uber ma appartiene alla comunità, e tutto il denaro resta a piloti e utenti. Io non sono pro o contro lo “sharing”: bisogna considerarlo in modo critico, a seconda delle circostanze e di chi ne trae beneficio».

Più in generale, lei sostiene che “il valore risiede in ciò che non scala”, ovvero in ciò che è unico a un luogo; e ne ha raccolti molteplici esempi. Ma può un principio simile estendersi fino a diventare un modello socio-economico alternativo a quello attuale?
«È una domanda fondamentale. Credo sia controintuitivo, ma ciò che non scala può produrre risposte su scala globale. Di certo saranno necessarie risposte globali ai danni del sistema economico attuale, si dirà. Eppure io credo che l’unità di misura fondamentale in futuro sarà il luogo in cui viviamo, e tutti i diversi modi in cui le cose che facciamo l’uno per l’altro - coltivare cibo, costruire case - lo rendono più sano. Questo avrà valore, non il Pil o il denaro.

Ma se il cambiamento è locale, “dal basso” e con piccole soluzioni di piccole comunità, che ruolo resta a governi e istituzioni nazionali, e internazionali? Lei propone il concetto di “bioregione”...
«Credo che i governi non siano del tutto in grado di tenere sotto controllo il corso degli eventi: la dimensione nazionale è quella sbagliata per connettersi alle persone a un livello gestibile. Per molti sono invece la città e la città-regione a indicare una strada più percorribile. Io parlo di “bioregione”, lo spazio naturale e geografico intorno alla città. Non credo che a molte città interessino le “bioregioni”, ma io provo a chiedere: “Sapete da dove proviene il vostro prossimo pasto?” E poi: “Quel luogo è sano?”. A quel punto le istituzioni dovrebbero occuparsi dei propri sistemi di supporto vitale come si occupano del traffico. È solo il naturale passo successivo della città verso il ricongiungersi con la propria terra, le proprie colture, i fiumi».

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