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E’
un Sisi paterno
quello che ha incontrato al Cairo Mario Calabresi, direttore de La
Repubblica,
nelle vesti di ambasciatore più che di giornalista, tanto la sua
intervista appare vuota, privata di tutte le domande, certamente
imbarazzanti, ma necessarie per il mestiere di chi le fa, o dovrebbe
farle, e per la posizione tenuta fino a questo momento dai vertici
egiziani che dal generale dipendono. Una chiacchierata amichevole, un
vero spot per il presunto buongoverno del presidente golpista in un
Paese minacciato dal terrorismo. Tema senz’altro vero applicato al
fondamentalismo qaedista e del Daesh che coinvolge tutto il
Mediterraneo, nelle sponde meridionali e settentrionali, compreso il
cuore d’Europa. Lo ricorda Sisi medesimo rispondendo a una delle
domande. Però, viene da chiosare, se il terrorismo è nei Paesi da
lui citati (Libia, Siria, Yemen, Iraq, Mali, Somalia, Nigeria) e in
altri ancora, il quadro è assai più ampio e sminuisce l’idea del
complotto antiegiziano.
Allora
quel che cerca Al Sisi,
grazie alla sponda d’una nostra grande testata nazionale con
l’attuale direttore ancor più vicina a Palazzo Chigi, è catturare
la benevolenza di un’opinione pubblica spinta dal caso Regeni verso
interrogativi inquietanti. Su una vicenda sanguinosa ed efferata che
amici del ricercatore e gli attivisti locali rimasti in libertà
indicano come una dei cento e cento casi di sparizioni misteriose
terminate con un omicidio. Taluni cadaveri si ritrovano, altri
spariscono nel nulla. Succedeva con Mubarak e sta accadendo con Sisi
con frequenza impressionante. Il generale intervistato rovescia i
ruoli e pone lui una domanda (retorica): perché il corpo del giovane
è stato fatto ritrovare nel giorno dell’incontro fra una
delegazione italiana del Ministero dello sviluppo e i propri
funzionari? Sposta l’attenzione dall’omicidio (preceduto da
rapimento di giorni e torture) al ritrovamento del cadavere in
simultanea con gli impegni economici fra i partner italiano ed
egiziano.
L’interesse
del presidente è rivolto
non alla macabra scoperta dell’omicidio, e alle ricerche dello
studioso che lo facevano straniero non gradito, bensì all’intralcio
agli affari di Stato che il ritrovamento ha creato e alla successiva
impasse. Sisi cerca, anche grazie ai buoni uffici di simili
interviste, di ribadire l’amicizia col premier Renzi (“un
amico e persona che non dimentica gli impegni”)
e il business (“il
lavoro con l’Eni è il simbolo delle nostre eccezionali relazioni.
L’Italia è il primo partner Ue”).
Certo un blocco della possibile partnership con L’Eni per lo
sfruttamento del giacimento Zohr nei fondali mediterranei si
competenza egiziana sarebbe l’ennesimo durissimo colpo alle finanze
interne già provate dal crollo delle entrate turistiche svilite
dagli attacchi terroristici (ricordiamo l’aereo russo esploso sul
Sinai), perciò il generale fa appello alla sensibilità liberista di
Renzi, intuisce che il governo italiano non spingerà per una rottura
delle relazioni. Gli affari fanno comodo a tutti, diventano questione
di Stato e accordo fra apparati degli Stati.
Basterà
un Pignatone
per opporgli il tema della “verità e giustizi per Giulio”? Roba
accademica da Amnesty,
non cruda real polik. L’altro asso che Sisi cala, nel suo
intervento dalla pagine de La
Repubblica,
è questione egualmente grossa: il suo ruolo di castigamatti del
terrorismo. Risolutore di faccende come l’Isis in casa propria e
sul territorio confinante libico, i foreign fighter tunisini che
assieme ai marocchini arricchiscono il reclutamento del Daesh. Reale
o presunto il generale si spaccia per cane da guardia del modello (e
degli interessi) occidentali nel Maghreb e Mashreq, un compare
disponibile a ogni servizio. Parla di stabilità (bluffando perché
dopo due anni al comando il suo Paese non lo è) e lancia uno
spettro: “se
uno su mille dei 60 milioni di giovani egiziani venisse reclutato
dallo Stato Islamico, cosa accadrebbe al Mediterraneo e all’Europa?”
Sessantamila jihadisti egiziani sono il fantasma agitato dal
generale, che poi fa intendere, senza dirlo, chi sono gli sponsor del
terrorismo (gli odiati-amati sauditi concorrenti regionali ed
elargitori di petrodollari. E gli odiatissimi Fratelli Musulmani,
iniziati a uccidere già dal 14 agosto 2013).
Ma
non finisce qui.
Altri due passi del “proclama Al Sisi” fanno accapponar la pelle
ai sinceri democratici che vivono in Italia ed Egitto. Il presidente
pareggia il conto con l’uccisione di Regeni agitando la faccenda di
Adel Moawad Heikal, cittadino egiziano scomparso da cinque mesi
dall’Italia. Di lui non si sa più nulla. Sisi non l’afferma ma
chiederebbe notizie del concittadino, alla politica e alla
magistratura italiane. In tal modo evidenzia comportamenti speculari
e fa intendere che in quanto alleati similitudini, fra noi e voi, ci
sono. Il pensiero vola alla collaborazione su Abu Omar, l’imam
egiziano rapito a Milano dai Servizi di Pollari e consegnato ai
mukhabarat di Suleiman per gli interrogatori e le torture di rito,
tutto su ordine della Cia. Un passato che ci lega e grazie al quale
la “sicurezza” e “la lotta al terrorismo” c’imporrebbero di
continuare. Infine il rito del buon padre, diffuso con la benedizione
di Calabresi, tocca l’apice: “Mi
rivolgo a voi (i
genitori di Giulio, ndr)
come padre prima che come presidente, comprendo la pena e il dolore
che state provando, il mio cuore e le mie preghiere sono con voi”.
I
Regeni non meritano quest’insulto.
Domani
La
Repubblica
riserva ai lettori e agli italiani una seconda scena.
Enrico Campofreda, 16 marzo 2016
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