giovedì 17 marzo 2016

Gli ebrei sul fiume Bug nel 1939 e i migranti sul Suva Reka nel 2016.

IDOMENI



Molti cercarono di scappare altrove. In migliaia s'incamminarono verso est. La salvezza era l'attraversamento del fiume Bug. Per settimane, nessuno li fermò. Poi, quando l'anno stava per finire, le guardie di frontiera sovietiche ricevettero l'ordine di non far più passare i profughi, sparando a vista in caso di resistenza. Se un ebreo riusciva a entrare nella parte di Polonia occupata dall'Armata Rossa in forza del patto criminale tra i ministri von Ribbentrop e Molotov per conto di Hitler e Stalin, veniva ricacciato indietro e consegnato a morte certa. In quegli stessi mesi, sigillando il vecchio ghetto di Varsavia cominciò il più feroce genocidio dell'era moderna.
Un fiume da attraversare, una barriera invalicabile. Nella memoria collettiva degli ebrei sopravvissuti all'Olocausto il fiume Bug è il confine d'acqua oltre il quale c'è la vita, così come il muro del ghetto è la barriera che esclude per sempre dal mondo.
Non è difficile immaginare perché il guado del fiume Suva Reka tra Grecia e Macedonia, cristallizzato in centinaia di foto e video di questi giorni, diventerà il Bug dei migranti in fuga dal macello mediorientale. E perché le centinaia di chilometri di filo spinato sui confini dei Balcani si trasfigureranno, nei ricordi, in altrettanti muri del ghetto di Varsavia.

Se non vediamo alle porte - questo c'è risparmiato - lo sterminio di milioni di persone, è già un dato di fatto lo sterminio di milioni di coscienze europee. Scrisse Nikolaj Gogol: "Molti errori si sono compiuti a questo mondo, tali che, si direbbe, ora non li farebbe neppure un bambino. (...) Ma ride la generazione che passa e, sicura di sé, orgogliosa, dà iniziò a una nuova serie di errori, sui quali a loro volta rideranno i posteri". Solo dieci anni fa non avremmo immaginato quanto è accaduto e accade ogni giorno lungo le frontiere di Serbia e Ungheria, Slovenia e Austria, Grecia e Macedonia, oppure sui bagnasciuga della Manica, nelle acque dell'Egeo e del mare di Sicilia. Avremmo giurato, allora, che l'Europa Unita avrebbe trovato una via comune fatta di accoglienza e solidarietà. Alla prova dei fatti, la realtà è tutt'altra. Dagli errori non s'impara.
Non bisogna tuttavia arrendersi. I paesi che s'arrenderanno chiudendosi a riccio metteranno le basi di una futura sconfitta epocale. Secondo il recente International Migration Report dell'Onu, dall'inizio del nuovo millennio il numero di quanti fuggono da fame, povertà e guerre è cresciuto del 41 per cento a livello globale fino a sommare 244 milioni di persone che risiedono oggi in paesi diversi da quelli di nascita. L'aumento è attestato al 2,3 per cento anno su anno, che equivale al raddoppio dei profughi globali in un trentennio: nel 2045 saranno mezzo miliardo. Tanti, ma il fenomeno non ha dimensioni tali da non poter essere gestito dagli stati e dalle istituzioni sovranazionali.
L'Europa è oggi una delle mete principali dei migranti. Con notevoli differenze tra stato e stato. In assoluto, nel 2015 l'Italia conta meno stranieri di Francia, Gran Bretagna e Germania. In termini relativi, Svezia e Austria (17 stranieri ogni 100 abitanti), Irlanda (16), Germania (15), Norvegia (14), Gran Bretagna e Spagna (13), Francia, Belgio e Olanda (12) hanno presenze non autoctone più evidenti e sensibili rispetto a quelle nel nostro paese, fermo al 10 per cento. Paradossalmente, i più contrari a ospitare quote ulteriori di profughi sono i governi di paesi a basso tasso d'immigrazione come Ungheria (5 per cento) e Polonia (2).
L'Unione ha ampi margini di accoglienza e il fiume umano in arrivo dal Medio Oriente ha caratteristiche che dovrebbero convincere anche i più riluttanti a riceverne i rivoli: buona scolarità, abitudini non così dissimili da quelle occidentali, età bassa e propensione all'inserimento e al lavoro produttivo. Respingere i profughi significherebbe far crescere la massa di chi, da lontano e da vicino, guarda alle nostre comunità come a sentine di mali da combattere. Un errore che pagherebbero i nostri figli e nipoti.
Questo articolo è pubblicato anche dai giornali del Gruppo Espressso-Finegil

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