giovedì 23 luglio 2015

Nuovi movimenti.

Ovunque fioriscono gruppi di persone comuni che mettono in discussione l’ossessione della crescita. Dalla Francia all’Italia passando per gli Stati uniti, espressioni come decrescita, décroissance e degrowth sono accolte sempre più con attenzione e alludono ai molti modi con cui tanti e tante hanno deciso di riprendersi il proprio tempo e i propri saperi facendoli uscire dal mercato. A rendere più importante questa trasformazione – spiega Chris Carlsson in un saggio pubblicato sul suo blog – è il fatto che questi cambiamenti si intrecciano e si affiancano ad altri movimenti, in cui si costruiscono relazioni in modo orizzontale. Viviamo al tempo stesso un impoverimento mondiale, come dimostra la Grecia, ma anche la diffusione dei movimenti per la decrescita, dei neri, delle donne, dei movimenti transgender, dei movimenti anti polizia, per utilizzare un’unica espressione dei movimenti anti-autoritari. Sono i diversi volti di critica al capitalismo.

comune-info.netdi Chris Carlsson*
909Innanzitutto un enorme grazie a tutti coloro che hanno supportato il “Pigeon Palace” (comunità di San Francisco nata dalla protesta di un gruppo di cittadini per l’affitto costoso e precario, ndr). Sembra che possiamo stare qui nella nostra casa di Felsom Street a San Francisco in modo permanente; ci sono alcuni ostacoli finali da superare, ma la cosa sembra piuttosto concreta. Per la fine dell’estate dovremmo festeggiare. Ci stiamo anche mettendo d’accordo tra di noi per organizzarci internamente in modo da poter gestire l’edificio e supervisionare un enorme processo di riabilitazione e miglioramenti nel nostro centenario palazzo vittoriano. La nostra apparente vittoria sta già inspirando molta gente a San Francisco che potrebbero seguire questo percorso, persone sfrattate ma anche tutte le migliaia di persone che si trovano in situazioni d’affitto precario. Proseguendo, speriamo di essere fonte di supporto anche per altri che potrebbero raggiungere risultati simili.

La radicale pulizia etnica e di classe in corso a San Francisco è simile a ciò che sta succedendo in molte altre città nel mondo che si stanno trasformando in modo competitivo in capitali neoliberali. In giugno a Parigi ho visto una città che è stata resa regale da più di un secolo – consiglio l’ottimo libro di David Harvey “Parigi: la capitale della modernità” che svela un processo perseguito durante il Secondo Impero (1849-1871) dal famoso urbanista Hausmann basato sul debito, la ristrutturazione spaziale e sociale, lo sgombero degli slum, la costruzione di strade, ecc. Il risultato fu l’espulsione di molta parte industriale che si era sviluppata nel cuore di Parigi –  e con essa tutta la classe operaia impiegata. I ceti sociali erano segregati in differenti distretti (i neo arrondissements), mentre gli affitti aumentavano incessantemente alimentati dalla concentrazione di ricchezza e dal costante impoverimento della maggior parte della popolazione. Nel frattempo, nuovi trend di far attività promozionale (ad esempio il grande magazzino) e un deliberato incoraggiamento alle nuove mode, alimentano il consumismo che è stato anche da stimolo per l’economia dopo la crisi depressiva del 1840 (non importa che la California Gold Rush abbia fatto circolare un sacco di soldi nell’economia francese).
Una protesta in strada del Pigeon Palace, San Francisco
11148530_10153775501252004_9205843822362088362_oComunque, contro ogni probabilità l’apparente fortunata “vincita alla lotteria” della nostra casa nella Mission District di San Francisco, placa – per i pochi di noi fortunati – la terribile insicurezza ed incertezza che sta dominando la vita di molti affittuari locali in questi giorni. Psicologicamente posso smettere di agitarmi sul dove sarò e tornare a focalizzarmi su come impegnarmi con ciò che sono. Il fatto che siamo parte di una cooperativa agricola significa che non dobbiamo preoccuparci della valutazione della casa, futuri aumenti di affitto o qualsiasi altra questione che accompagna una proprietà o un affitto. Ci saranno sicuramente altre questioni, l’autogestione ha i suoi costi e mal di testa (spesso scherziamo ponendo come slogan dell’edificio “Vogliamo il mal di testa, non l’equità”!). Ma al di là di qualsiasi problema o preoccupazione, sento che la mia casa è “abbastanza” quando diventa il fondamento per perseguire altri interessi ed attività. Mantenere la propria casa è uno delle basi fondamentali per una buona vita.
Ma l’onnicomprensiva logica di questa società è focalizzata sulla crescita incessante, per la quale i promotori ideologici insistono che ci sarà una buona vita per tutti sebbene sia perfettamente evidente come in realtà produca il contrario: un crescente numero di gente impoverita e sfollata a livello globale, poche persone sempre più ricche e che possiedono sempre di più e di tutto, un pianeta degradato dallo sfruttamento rapace di ogni angolo e ogni risorsa. Per i milioni di lavoratori nelle fabbriche ed uffici del mondo il lavoro è un costante correre e un dover fare più intensamente che richiede più tempo (Cos’è successo alle 8 ore giornaliere, alle 40 settimanali?) mentre lo spazio per la creatività, l’arte, la musica, l’espressione di sé, senza menzionare la natura, è ridotto drasticamente.
Decrescita
Da pochi anni è emerso un nuovo movimento sotto la rubrica “Degrowth”, sebbene suoni meglio in francese o italiano (Décroissance o Decrescita, nella scena italiana si parla anche di Decrescita Felice) Paesi in cui i teorici hanno scritto parecchio. Un amico ha suggerito un termine inglese più appropriato che potrebbe essere “sufficienza”, che surclassando i terribili connotati negativi di decrescita e spingendo i nostri pensieri verso una direzione nuova rispetto al cooptato termine di “sostenibilità” (la quale, per ora, sembra essere anch’essa pur sempre una crescita anche se sostenibile!). Le parole francesi del titolo significano “è sufficiente” e sono molto interessato a sviluppare un discorso politico nell’opinione pubblica basato ‘sull’essere abbastanza’.
Degrowth-VocabularyHo scritto Newtopia qualche tempo fa (nel 2008 in inglese, 2009 in italiano, l’anno scorso in portoghese brasiliano) con l’intenzione di descrivere una nuova politica del lavoro basata sulla comune esperienza della gente di prendersi il proprio tempo e i propri saperi facendoli uscire dal mercato. Quando queste persone non sono a lavoro per fare soldi, stanno svolgendo un lavoro duro, di valore, ma non retribuito. Questo lavoro newtupiano indirizza verso vie locali le crisi ecologiche planetarie, le anomie sociali e l’isolamento, ma permette a chi lo pratica di impegnare in creatività sociali e tecnologiche che raramente sono permesse invece nei lavori salariati.
Quando sono stato in Italia nel 2008 col mio libro, ho incontrato Maurizio Pallante, autore di “Felicità Sostenibile” e uomo impegnato nella nuova politica della Decrescita. Ora un nuovo libro è stato pubblicato in inglese intitolato “Decrescita: un vocabolario per la nuova Era”, un ottimo contributo per ripensare alla politica nel 21° Secolo (a dirla tutta ho scritto uno dei 51 saggi brevi/definizioni nel libro sui “Newtopiani”). Questo sottile libro è strutturato su grandi idee organizzate in saggi da 3 pagine l’uno che definiscono i termini chiave come: Comune, Convivialità, Bio-economia, Giustizia contestuale, Ecologia Politica, Autonomia, Comun-modificazione, Emersione, Immaginario, Felicità e molte altre. La collezione di parole non rifugge però dalle molte contraddizioni incorporate dalla emergente critica della crescita capitalistica- infatti molti dei saggi del libro contrastano apertamente l’un l’altra, il che, ai miei occhi, supporta la credibilità ed importanza del libro. Ho anche apprezzato il fatto che il libro includa esplicite critiche al capitalismo (come le mie), vari sostenitori della decrescita ambivalenti relativamente a mercato, soldi, comodità ed altri che considerano questi aspetti del mondo attuale come immutabili. In un altro articolo pubblicato nel 2014 in Capitalismo, natura, socialismo chiamato “Decrescita e Demonetizzazione: sui limiti dell’economia di mercato non capitalistica” Andreas Exner sviluppa una bella critica delle illusioni supportate da molti radicali eco-ispirati sul fatto che vi sia un ruolo per i soldi e il mercato nel mondo post-capitalistico. Riprendendo Pierre Joseph Proudhon, l’assunzione che i soldi e il mercato non capitalistico possano esistere “sboccia nel discorso sulle valute regionali, banche del tempo e sistemi di Local Exchange Trading Systems (Lets, NdT Sistemi di scambio commerciale locale, corrispondenti alle banche del tempo, ndr) che è anche al centro del dibattito della ‘moneta verde’”. Per Exner “solo la reciprocità permette una amministrazione democratica e una pianificazione partecipata”. La raccolta “Degrowth” è organizzata a partire dal lessico che cerca di inserire nel dibattito politico. Molte delle parole non sembrano immediatamente familiari, qui ad esempio “matabolismo, sociale …”
Per incontrare le esigenze di un sistema socio-economico come quello attuale nel Nord globale che funziona con un’elevata diversità economica, la dipendenza dei rapporti (dovuto alla crescente proporzione di gente anziana e un alto tasso di scolarizzazione) e l’alta percentuale di contributi nel settore dei servizi nell’economia, è evidente come siano richiesti sempre più lavoratori ed più ore di lavoro per mantenere i modelli metabolici attuali della società data la diminuzione di combustibile fossile. Ciò indica una contraddizione con il proposito della decrescita che spinge al ridurre le ore di lavoro (e al lavoro condiviso). In un futuro scarso di risorse energetiche dovremmo lavorare di più, non di meno. (di Alevgül H. Sorman, p. 43)
Ridurre il lavoro
Molti di noi attratti da un programma di decrescita sono interessati a ricercare un approccio teso a ridurre il lavoro e a farlo pienamente sotto il controllo di quelli che lo fanno. Come chiarisce la citazione precedente, una ridotta economia imposta (come pare essere) dalla scarsa e costosa energia ci richiederà sempre più un lavoro per mantenere i nostri confort abituali, ma potrebbe essere possibile individuare un’economia basata sul concetto di “abbastanza” o ciò che è sufficiente per una buona vita, con un po’ meno di energia e un meno “metabolico volume di produzione” di quello attuale.
Un altro saggio argomenta che l’energia è sempre in eccesso rispetto al necessario per il semplice mantenimento della vita. Onofrio Romano, un professore del Sud Italia, nel suo saggio che definisce la parola “Dépense” (NdT spesa) argomenta in modo provocatorio:
Il consumo di energia consiste di due parti: la prima necessaria per la conservazione e riproduzione della vita; la seconda usata per spese non produttive quali il lusso, i lutti, le guerre, le religioni, i giochi, gli spettacoli, le arti, le attività sessuali perverse. Tutte queste attività – qualificate come dépense- sono fini a sé stesse.
Qualsiasi società ha un eccesso di energia, più precisamente definita come tutta quell’energia non necessaria ad una mera riproduzione delle vita (p. 86).
“Dépense” è un concetto chiave, poi, per teorizzare una via al di fuori della crescita di una società. Paradossalmente non figura tra le pillole epistemologiche delle teorie di riferimento alla decrescita né è una fonte di ispirazione per gli obiettori del movimento per la decrescita, questo perché forse abbracciare pienamente la dépense implica lo smantellamento di una cornice cognitiva di catastrofe e scarsità che è invece alla base del paradigma di decrescita (p.88).
La teoria della decrescita rischia di rianimare e dare nuovo slancio al precetto basilare dell’economia: il principio di scarsità. Rischia di rispecchiare il mito della crescita usando lo stesso immaginario dal punto di vista capovolto, un immaginario che implica l’uso di tutta l’energia in circolo per la preservazione dell’esistenza questa volta però ruotando attorno al significato di stili di vita “virtuosi” e tecniche efficienti. (p. 89)
Il libro apre con un problema più profondo ovvero il banale utilitarismo che rimarca molto i presupposti più profondi della società. In “anti-utilitarismo” lo stesso Romano argomenta:
Gli anti-utilitaristi criticano l’utilitarismo perché riduce l’essere umano.
Loro pretendono che la battaglia, affinchè sia bilanciata, dovrebbe insistere sulla ricognizione della complessità e della pluralità delle forme di vita.
L’anti-utilitarismo, lontano dal qualificare se stesso come un pensiero anti-moderno, ha lo scopo di riscoprire il vero significato di modernità, ripristinare lo spirito scientifico contro lo scetticismo, la ragione contro il razionalismo, la democrazia contro la tecnocrazia.
La premura di un pensare criticamente questi punti è ovviamente un modo per colmare il frenetico cliccare giornaliero delle nostre vite dominate dai social media, del navigare canali e da periodi di intenso impiego o di insicura disoccupazione. Molti nostri contemporanei, persino quelli inspirati da Newtopia e similari, sperando al meglio fanno affidamento ad una volontaristica forma di vivere semplice. In un altro importante contributo al libro “Degrowth”, Blake Alcott ci inoltra nel concetto noto come “Il paradosso di Jevon” (Effetto Ripresa):
… è solo con l’elevata incertezza che uno può pretendere risparmi reale tramite l’efficienza tecnologica e è tentato di cambiare verso una strategia alternativa del vivere più sufficientemente- lavorare, produrre e consumare meno. Qui vi è, nonostante tutto, una ripresa: se io unilateralmente decido di comprare meno energia, la mia domanda svanita fa abbassare il prezzo dell’energia all’aumentare della richiesta di energia sul mercato internazionale. Ciò permette ai bilioni di ‘consumatori marginali’ del mondo, i quali desiderano lavorare tanto come prima e consumare di più, di richiedere ciò che io non richiedo più.
Questo potrebbe portare ad un consumo più equilibrato, ma non a conservare energia.
A meno che l’intera popolazione mondiale non inizi a vivere di più “sufficientemente”, che è comunque immorale dato che bilioni di persone vivono in una involontaria povertà, altre persone prendono l’esubero della domanda di energia lasciata da quelli che volontariamente ne fanno a meno. La ripresa è un concetto rilevante nella decrescita perché ciò che dovrebbe decrescere in maniera sostenibile non è l’utilità, la felicità o il sempre necessario Pil, ma piuttosto l’ammontare del volume di produzione biofisico causato dagli uomini dato dall’ammontare totale delle risorse naturali consumate più le emissioni e la distruzione causata da questo consumo massivo. (p. 123).
La convivialità di Ivan Illich
Quello che mi è piaciuto di più di questa raccolta è l’essere regolarmente sfidato a ripensare le mie assunzioni superficiali. Operare (come noi tutti facciamo) entro il contesto della propria vita quotidiana facilita l’omettere cose che sono incorporate così profondamente da darle per scontate. Colui che probabilmente ha meglio criticato ciò è Ivan Illich, invocato da Marco Deriu nella definizione di “Convivialità”:
Illich indica come, pur con prodotti sempre più efficienti a livello ecologico, una società benestante generi attraverso il monopolio radicale la paralisi della sua gente e ne elimina l’autonomia: “questo monopolio radicale accompagnerebbe il traffico ad alta velocità anche se i motori fossero alimentati dal sole e i veicoli ruotassero ad aria” (Illich, 1978; 73) … si può notare una connessione con il tema dell’alienazione di Marx, ma l’alienazione di cui Illich parla non dipende dalla proprietà dei mezzi di produzione.
Per lui non è una questione di proprietà o ridistribuzione, ma dall’inerente logica incorporata nello strumento: alcuni utensili sono distruttivi, continua Illich, indifferentemente da chi li possiede ed usa. Essi sono stati realizzati per produrre nuove domande e nuove forme di schiavitù tali da rendere la società industriale un intensivo mercato di economia indispensabile (p.80).
Raramente ci fermiamo a considerare cosa possa essere “abbastanza” ed invece agiamo come se tutto o la maggior parte delle cose che consumiamo in qualche modo fossero necessarie ed indispensabili. Non mi piacciono le politiche anti-consumistiche che giocano sulla colpa o la vergogna per far consumare meno le persone. Non perché non funzionino, ma perché vergogna e colpa sono vie terribili per muovere un movimento politico di emancipazione.
Troppa gente è così convinta di non avere “abbastanza” che ho sempre sentito sia meglio esordire con la desiderio di avere Tutto di Qualsiasi cosa e che potremmo farlo se riorganizzassimo il lavoro, la produzione e la distribuzione. Se ci imbarcassimo in questo processo dovremmo tenere in conto degli attuali limiti di quanto vogliamo lavorare (non molto) e delle conseguenze ecologiche dei vari tipi di produzione e distribuzione.
Protesta ad Atene
Movimenti anti-autoritari
AthensStudentProtestUna volta che tutto ciò sia posto di fronte ad una genuina politica democratica, insieme potremmo decidere che, dato il nostro desiderio di lavorare di meno e salvare l’ecologia del pianeta, possiamo vivere con spensieratezza senza un po’ di cose che ingombrano le nostre vite. Sono interessato al fatto che questo tipo di questioni trovino la propria via verso un processo politico che sia radicalmente più orizzontale, anti-autoritario e aperto di qualsiasi cosa possiamo trovare nel mondo attualmente. Ma risulta evidente che questi principi siano la logica che spinge parecchio dell’attivismo politico di base che ha preso piede attualmente. In un altro importante libro letto recentemente, Chris Dixon compie un affascinante lavoro di esame delle politiche emergenti in “Another Politics: Talkng Across today’s transformative movements” (NdT. Un’altra politica: parlando attorno agli attuali movimenti trasformativi).
Dixon compie un viaggio nel Quebec, nella costa orientale e nell’area della Baia di San Francisco per intervistare sul posto molti attivisti e visitare progetti dal basso. Dalle interviste fatte (e dal proprio impegno con questi movimenti) ci dà la prospettiva di voler rilevare i principi che attraversano molte degli impegni più disparati e ha provato ad stilare delle lezioni dai modesti successi e dai frequenti fallimenti dei politici radicali della nostra era. Ci sono dozzine di illuminanti analisi in questo libro e lo raccomando caldamente.
Qui ce n’è una che ha catturato il mio occhio da quando sono stato così tante volte in questo tipo di conversazioni:
Un risultato di questa fissazione dei principi sui piani è che gli attivisti spesso trascorrono molto tempo ed energia discutendo se particolari individui, attività o organizzazioni siano sufficientemente “radicali” senza porsi domande fondamentali sul come cercano di indirizzarci attorno alle attuali vittorie.
In questo senso, una focalizzazione sulle idee politiche e sulla retorica surclassa un pensare strategico e crea un contesto in cui alcuni attivisti liquidano velocemente qualsiasi impegno, trascurandolo – usando termini come “liberale” e “riformista” – cosa che non porta alla completa distruzione dell’ordine sociale esistente. (p.112)
Io mi identifico piuttosto fortemente con gran parte della logica che Dixon sta descrivendo. Dai giorni del mio “Processed World” negli anni ‘80 e primi ‘90 ai primi vitali cinque anni della Critical Mass ai continui sforzi di riprodurre una sensibilità storica radicale nel mio “Shaping San Francisco” ho fatto del mio meglio per portare ad un orientamento anti-autoritario. Dixon descrive bene come questo porti a focalizzarsi sulle connessioni umane alla base dei progetti politici (se fatto bene):
…per capire pienamente un’organizzazione antiautoritaria abbiamo bisogno di tornare alla caratteristica che penso possa portare più chiaramente ad un orientamento coordinativo e ad una prassi prefigurativa, ovvero ciò che io chiamo “organizzazione non strumentale”. Con ciò intendo un approccio organizzativo che porti a costruire relazioni con le persone come collaboratori che si sforzano piuttosto che come strumenti per raggiungere determinate conclusioni.
Questo approccio intende mettere in relazione persone in quanto soggetti dignitosi capaci di analizzare criticamente il mondo, di creare sofisticate strategie per contrastare le ingiustizie, prendersi coraggiosamente rischi nelle sfide e concepire una società migliore. Significa anche comprendere l’organizzazione come un processo collettivo attraverso il quale sviluppiamo nuove idee, nuove relazioni, nuove pratiche e nuove domande. (p. 167)
La lezione del movimento delle donne
Nello speciale anniversario dei vent’anni dalla pubblicazione di “Processed World” nel 2001, ho scritto alcuni degli assunti che Dixon parla nel suo libro. La leadership è un argomento nodoso tra gli anti-autoritari, i quali troppo spesso hanno un senso del concetto arretrato e li porta a reazioni impulsive di fronte a comportamenti di gruppi che non sono oppressivi o problematici di per sé ma sembrano “leadership”. Dixon ha bisogno di un lungo capitolo per “decifrare” questo argomento spinoso e conclude con alcune lezioni estratte dall’organizzatrice afroamericana, Ella Baker:
La frangia radicale del movimento di liberazione delle donne si costituì su questa critica quando ha sfidato la prevalente leadership maschile nella Nuova Sinistra.
Questa prospettiva radicale femminista tendeva al rifiuto generalizzato di leader e di una leadership in quanto naturalmente oppressiva.
Dal 1970 ad oggi questo atteggiamento contro la leadership è stato collegato alle politiche antiautoritarie attraverso il movimento di azione diretta non violenta, radicali organizzazioni omosessuali, l’azione diretta di ambientalisti, il movimento di giustizia globale e più recentemente il movimento di occupazione.
Gli anarchici in particolare si son venuti ad identificare con questa visione di leadership come una forma basilarmente sottile di manipolazione e dominazione.
Attualmente molti degli anti-autoritari prendono questo atteggiamento per assodato (p.178) … tre tipi di leadership ed attività associate: “come facilitatore, creando processi e metodi affinché gli altri possano esprimere sé stessi e prendere decisioni; come coordinatore, creando eventi, situazioni e dinamiche che costruiscono e rafforzano gli sforzi collettivi; come insegnante/educatore, lavorando con gli altri per sviluppare il proprio senso di potere, la capacità di organizzare ed analizzare visioni di liberazioni e l’abilità di agire nel mondo per la giustizia”. A questi potremmo aggiungere un altro tipo di leadership: un leader che si prende cura delle persone, sostiene le relazioni e mantiene i nostri gruppi e movimenti sani e funzionali.
Identificando questi tipi di ruoli ed attività possiamo iniziare a spiegare la leadership e discutere di essa in modo più chiaro (p.187) … Sebbene ci identifichiamo spesso come persone che rifiutano le gerarchie, i ruoli della leadership – facilitazione, coordinazione, educazione ed altri –coinvolgono necessariamente qualche tipo di gerarchia? E se così, può essere di tipo non-autoritario?
Queste sono questioni annose, ma che dobbiamo risolvere se vogliamo essere veramente chiari, consapevoli e collegiali relativamente alla leadership (p.197)

march-on-monsanto-durban-s-africaIn un’altra sezione Dixon ci conduce nella difficile questione della costruzione di organizzazione, di partiti politici mirato come una delle forme che è meglio tralasciare. Non lo fa con l’obiettivo di scartare tutte quelle persone attratte dalla costruzione di un partito definite credulone ed autoritarie, ma preferisce cercare di scoprire perché la gente vuole costruire partiti rivoluzionari e cerca di imparare da questo impegno nello “scoprire spazi intenzionali, strutture e strategie di pianificazione e portare avanti una coordinata e durevole attività rivoluzionaria che possa potenzialmente coinvolgere milioni di persone“.
In conclusione ho trovato il libro di Dixon un sorprendente compagno nella mia lettura di “Degrowth”. Mentre quest’ultimo è stato scritto per lo più da intellettuali, apparentemente piuttosto lontano da un organizzare quotidiano, Dixon si focalizza pienamente sull’organizzazione politica, ma manca una critica più ampia alle logiche profonde del capitalismo ossessionato dalla crescita (non che lui non sarebbe d’accordo con questo tipo di critica). Il punto focale del suo libro è:
“Contrapporre sfruttamento ed oppressione, sviluppare nuove relazioni sociali e nuove modalità di organizzazione sociale, collegare sfide giornaliere a visioni trasformative ed impegnarsi in organizzazioni che partono dal basso verso l’alto. Basati su questi principi e sulle pratiche ad essi collegati, questi poli opposti provocano molti attivisti ed organizzatori, i quali stanno cercando di essere più organizzati e strategici, ma che sono ambivalenti rispetto al mondo delle Ong, critici verso le varie forme di organizzazione che conducono ad un partito, non soddisfatti della scena subculturale radicale. In questo senso, un’altra politica è l’assetto di politiche condivise, pratiche e sensibilità che gli anti-autoritari stanno avanzando anche se non ancora pienamente agli antipodi politici. È una politica che dev’essere elaborata e ridefinita. (p.221)”
Sento che in questi due libri posso vederci l’inizio delle politiche del 21° Secolo che finalmente stanno rompendo molte delle assunzioni e dei limiti del secolo scorso. L’essere nel 2015, con la Grecia, la bancarotta di Porto Rico, l’economia mondiale vicino al collasso nei prossimi mesi o anni, la tragica crisi ecologica/climatica e le sue manifestazioni (acidificazione dell’oceano, specie in estinzione, caos climatico, etc.) la prospettiva di un cambio rivoluzionario intimorisce a dir poco. Ma è anche l’anno in cui la questione dei neri, le organizzazioni anti-polizia e il movimento transgender hanno demolito e rimodellato la discussione pubblica. Il fatto che molto dell’attivismo di base sia consapevole dei valori di Dixon è rincuorante.
Forse siamo sull’orlo di individuare movimenti sociali più forti, solidi alle basi e filosoficamente meglio organizzati che abbiano la sfrontatezza di sfidare la totalità del come la vita sia organizzata. Con questi due libri e il fiorire di eventi a livello globale sento di poter vedere gli elementi prender forma, sebbene non emergano pienamente, ma probabilmente molti più vicino di quello che pensiamo.
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* Chris Carlsson, scrittore e artista (foto) da sempre nei movimenti sociali statunitensi, è stato tra i promotori della prima storica Critical mass a San Francisco. Autore, tra le altre cose, di «Nowutopia» (Shake edizioni) e, più recentemente, di «Critical mass. Noi siamo il traffico» (Memori), invia periodicamente i suoi articoli, molti dei quali raccolti sul blog nowtopians.com, a Comune: il saggio qui pubblicato (titolo originale Ça Suffit? Politics In the Early 21st Century) è stato tradotto per Comune da Alie Michelotto.

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