martedì 21 ottobre 2014

Direzione Pd, Matteo Renzi soft con le minoranze. Obiettivo: Italicum a misura del partito della nazione.

RENZIIneditamente morbido. In direzione Pd Matteo Renzi lascia cadere il guanto di sfida di Gianni Cuperlo che lo attacca sui finanziamenti alla Leopolda: “Il segretario sta costruendo un partito parallelo dotato di mezzi e risorse? Vuole fare del Pd una confederazione di correnti?”. Il leader risponde, “la Leopolda è uno spazio di libertà…”, ma non affonda, come sa fare.

 
Anche nei confronti di Stefano Fassina, che si prende il diritto di decidere in autonomia sulla fiducia al Jobs Act (“Il programma del 2013 non lo prevedeva”), il premier non infierisce. Gli dice semplicemente che quel programma “non può essere l’unico punto di riferimento se nel 2013 non si è vinto…”. Renzi in versione soft, che succede? L’obiettivo è non esacerbare gli animi, sapendo di avere già in tasca (quasi) l’approvazione di un nuovo Italicum, magari con “premio di lista” e non di coalizione, per realizzare quel “partito della nazione” allargato ad apporti di ex Sel o Scelta Civica in grado di governare da solo e non in governi di coalizione e men che meno di larga coalizione.
“Dobbiamo trovare il modo di stare insieme – dice Renzi alla direzione – se non ci siamo noi, l’alternativa è la piazza talvolta xenofoba o il populismo o la demagogia e fuori di qui non c’è qualcosa che rispetti di più la democrazia interna ma la demagogia che incrina le regole del gioco”.
I fondo, il premier non ha bisogno di infierire. Sa che chi lo ascolta in fondo è d’accordo. E’ convinto che nessuno nel Pd immagina davvero orizzonti politici fuori dal Pd. E ne ha ben donde. Se poi qualcuno se ne andrà, sarà scelta sua. Ma non avrà sconti dalla legge elettorale che Renzi ha in testa e che è a un passo dall’approvazione, visto che anche Silvio Berlusconi pare si stia convincendo sul premio alla lista e non alla coalizione. E’ questa la direzione di marcia e per indicarla Renzi non ha necessità di graffiare in direzione.
I suoi stretti collaboratori dicono che la linea soft rispecchia una scelta di rispetto nei confronti di un dibattito ‘alto’ sulla ‘forma partito’. Dibattito che prende le mosse dalla vecchia discussione tra partito liquido e solido dell’era Veltroni (presente in direzione) e che ora prosegue in forma un po’ aggiornata: tra chi come Renzi sostiene il partito a vocazione maggioritaria, il partito della nazione, che includa da “Gennaro Migliore”, ex di Sel, ad “Andrea Romano”, ex di Scelta civica, a chi come le minoranze sono affezionate alla forma classica fatta di iscritti e circoli. Dibattito complesso che oggi è solo iniziato in direzione Pd e che continuerà: “Oggi non ci sono conclusioni”, ha esordito Renzi di fronte ad un’assemblea sonnacchiosa, la descrivono i parlamentari renziani. Eppure le critiche non sono mancate, anche se l’ex segretario Pierluigi Bersani ha preferito non intervenire e se n’è andato anzitempo, mentre Massimo D’Alema non c’era. Ma Renzi ha solo accarezzato gli attacchi su chi finanzia la Leopolda del prossimo weekend a Firenze, sul perché quei soldi non finiscano nelle casse del Pd, perché vanno alla ‘corrente renziana’. Niente affondi.
Eppure sottotraccia, i suoi riflettono invece sul perché il patrimonio immobiliare che fu dei Ds e del Pci, gestito sul territorio da 57 fondazioni locali, non vada nelle casse del Pd. Insomma, si risponde ‘pan per focaccia’, ma lo scontro anche oggi resta subacqueo, per dirla in termini di partito liquido renziano. Ne parla a chiare lettere in direzione il lucano Salvatore Margiotta: “Le polemiche sulla Leopolda sono strumentali. Piuttosto ogni parlamentare faccia la propria parte nella ricerca di finanziamenti trasparenti per il partito e si affronti finalmente il tema del patrimonio ex Ds, mai confluito nel Pd". Il senatore renziano Andrea Marcucci accenna al tema: “Non capisco poi lo stupore, mi pare che nella storia del Pd ci siano altre Fondazioni che svolgono peraltro un lavoro egregio, come ad esempio Italiani Europei”. Ma Renzi non alza il tiro dello scontro. Perché la questione è delicata. Quando il Pd fu fondato nel 2007, Ds e Margherita non scelsero la comunione dei beni. Ora se si cominciasse a litigare in streaming sui patrimoni degli uni e degli altri, vorrebbe dire che il partito è sull’orlo della separazione, come ogni coppia che scoppia.
Questo non succede. Da parte del segretario c’è il rispetto per il dibattito (“Smettiamola di pensare alla Leopolda in contraddizione con il partito. Se vogliamo parlare di soldi parliamone veramente che il tema è serio”) ma c’è anche l’obiettivo di non creare martiri nel Pd, soprattutto a meno di una settimana dalla manifestazione della Cgil dove si presenterà anche qualche dirigente di minoranza del Pd. E’ la stesso motivo per cui la settimana scorsa Renzi ha scelto di evitare le procedure di espulsione dei tre senatori Dem che non hanno votato la fiducia sul Jobs Act. Per il premier è anche un modo per distinguersi da Beppe Grillo, che proprio oggi ha espulso cinque attivisti protagonisti di una protesta sul palco al Circo Massimo. In direzione lo ha anche detto, con una battuta: “E’ imbarazzante che il M5s scelga di espellere chi ha solo chiesto un organigramma del movimento: tra di noi ci dovremmo espellere appena ci guardiamo…”.
Non fare come Grillo è fondamentale soprattutto in questo momento. Perché, dice Renzi, “vedo segni di sgretolamento di quel blocco lì e della destra: dobbiamo capire se questo stallo lo superiamo o no”. E’ il messaggio che lascia alla minoranza. La bussola è sempre quella di costruire il partito della nazione, più che dibatterlo, allargare i consensi del Pd in tutte le direzioni, da sinistra a destra, fino al centro. Ed è questo obiettivo che porta il premier a scegliere di farsi ospitare in tv dai programmi tv più pop del momento, dal format di Del Debbio a quello di Barbara D’Urso. “A me piace vincere – dice in direzione la senatrice renziana Maria Di Giorgi – ci sono pochi iscritti nel Pd? E’ irrilevante”, brusio in sala. Lei continua: “In questo secolo non è fondamentale: i nostri giovani non hanno voglia di iscriversi ma poi ci votano…”.
Conquistare il consenso perché, spiega a chiare lettere Renzi nelle repliche, “è finito il voto a tempo indeterminato, è finito l’articolo 18 del voto. La gente non vota sempre gli stessi comunque vada. La gente fa zapping anche con i voti e la fatica del consenso è quotidiana”. Sta qui il cuore della risposta alla minoranza, il motivo per cui non vale la pena infierire: “E’ un grande tema conquistare il consenso, che non vuol dire governare con l’occhio fisso ai sondaggi”. Certo, c’è l’avvertimento alla minoranza sul rispetto degli ordini di scuderia quando arriverà il momento di eleggere il prossimo presidente della Repubblica, che verrà concordato anche con Forza Italia “Non seguite twitter…”, dice Renzi, quasi che tema trappole ‘anti Patto del Nazareno’ in aula, nascoste dal voto segreto, come accadde per Romano Prodi l’anno scorso. E c’è il tema del ‘che fare’ con chi non vota la fiducia al governo. E’ successo sul Jobs Act al Senato, potrebbe risuccedere alla Camera, nonché sullo Sblocca Italia, contestatissimo dai civatiani. “Dobbiamo darci delle regole sul voto di fiducia. Non possiamo essere un club elettorale ma nemmeno un club di anarchici e liberi pensatori…”. Ma il tema verrà affrontato più in là, magari all’assemblea nazionale tra qualche mese. Prima la legge elettorale, cioè il lasciapassare verso il futuro del partito che Renzi vuole costruire.

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