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Le dichiarazioni di Salvini sul “censimento dei rom” segnano una nuova tappa di quindici anni di politiche bipartisan in cui queste persone sono state usate come strumento di propaganda. Per superare i campi, però, serve ben altro: politiche sociali contro l’esclusione
«Ho chiesto un dossier sui rom, faremo un censimento, una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti». Con queste dichiarazioni Matteo Salvini lanciava lo scorso 18 giugno la sua ennesima battaglia sulla questione
rom, questa volta da ministro dell’Interno. Qualche settimana dopo, il 6
luglio, il governatore della Regione Lombardia dichiarava che «come
esistono gli uffici anagrafe che individuano tutti i cittadini
residenti, analogamente si farà con chi risiede nei campi».
Discorsi a parte, è
davvero difficile dire se l’idea di un censimento rom sia solo paventata
per guadagnare consenso elettorale o sia un reale obiettivo del governo
e della giunta lombarda, dal momento che il censimento su base etnica è
vietato dalla Costituzione Italiana. È certo, però, che negli ultimi
quindici anni i rom – complice anche il diffuso antiziganismo –
sono stati ciclicamente trasformati in oggetto e strumento di
propaganda politica, su cui scaricare la responsabilità di tensioni e
problemi sociali lasciati irrisolti, attraverso cui convogliare paure
irrazionali e fomentare antagonismi che chiamano in causa un passato che
sembrava ormai superato.
Si sbaglierebbe
tuttavia a pensare che siano state sole le forze di destra a cavalcare
la retorica securitaria costruita sulla pelle dei rom. Anzi, a onor del
vero, rispetto alla storia recente, fu il primo segretario del partito
democratico, Walter Veltroni, nel 2007, a porre nuovamente al centro del
dibattito politico nazionale la questione rom, a seguito di un doloroso
avvenimento di cronaca nera: il brutale assassinio della signora
Giovanna Reggiani, consumato nella stazione di Tor di Quinto di Roma a
opera di un ventiquattrenne di cittadinanza romena, residente in un
campo informale poco lontano. Quell’episodio travalicò rapidamente gli
steccati della cronaca nera, assumendo una forte connotazione politica
e, a tratti, anche strumentalmente ideologica, che animò il dibattito
nell’intero paese. Veltroni, allora ancora sindaco di Roma oltre che
segretario del partito democratico, lanciò l’ennesimo allarme sicurezza
e il governo, presieduto da Romano Prodi, introdusse limitazioni
all’ingresso e al soggiorno in Italia per i cittadini romeni, da pochi
mesi divenuti cittadini comunitari.
Nel maggio del 2008, il
nuovo governo con maggioranza di centro-destra, guidato da Silvio
Berlusconi, arrivò a emanare un decreto con il quale si sanciva in
Italia l’esistenza di un’emergenza nomadi. Quel decreto diede
poteri speciali ai prefetti di Roma, Napoli e Milano per affrontare la
presunta emergenza, conferendo loro, tra l’altro, la possibilità di
gestire ingenti somme di denaro pubblico in deroga alle procedure
ordinarie previste dalle leggi (con tutto quello che da ciò è
conseguito, ovvero “Mafia Capitale”). E fu proprio nel solco dell’emergenza nomadi che
si diede il via alla schedatura con foto e rilevamento delle impronte
digitali di una parte dei rom che vivevano nei campi di Roma, Napoli e
Milano, inclusi i bambini. Si trattò, nei fatti, di un vero e proprio
tentativo di censimento etnico, che riguardò tutti (apolidi, cittadini
italiani, comunitari), eseguito prima dalla Croce rossa, poi dalla
Polizia di Stato, condannato, oltre che da larghe parti della società
civile, da una sentenza del 24/5/2013 emanata dalla seconda sezione
civile del Tribunale ordinario di Roma.
In Italia sono tanti
gli esponenti politici e le forze politiche che parlano spesso di rom
senza avere minimamente cognizione della realtà in cui questi cittadini
vivono. Nel discorso pubblico la questione rom è declinata quasi esclusivamente in termini securitari: parlare di rom equivale a parlare di devianza e di campi.
È un discorso nel quale l’intrinseca complessità che caratterizza i
gruppi rom non trova alcuno spazio. I gruppi rom sono una galassia
eterogena, conosciuta perlopiù solo sulla base di stereotipi che
semplificano, reificano e falsificano la realtà.
Per esempio, pochi
sanno che dei circa 180 mila rom e sinti stimati in Italia (sono solo
0,2% della popolazione italiana), oltre la metà ha la cittadinanza
italiana. Sulla base delle ultime rilevazioni, in Italia, a vivere nei
campi è solo una minoranza dei cittadini rom, tra le 26 mila e 30 mila
persone circa,1
vale a dire lo 0,04% della popolazione italiana. La maggioranza dei rom
sono cittadini italiani che vivono in normali abitazioni. Senza
dimenticare che molti di questi cittadini rom discendono da famiglie
presenti in Italia sin dal 1400: quelli che, secondo il ministro
Salvini, «purtroppo dobbiamo tenerci».
La storia dei gruppi
rom presenti in Italia è una storia italiana, profondamente connessa con
quella dei luoghi in cui hanno vissuto. Sono tanti i rom che hanno
preso parte alla resistenza al nazifascismo, così come sono stati tanti i
rom italiani internati nei campi di concentramento nazifascisti, un
internamento reso operativamente possibile dalla schedatura etnico razziale degli zingari italiani e dalle leggi razziali del 1938. Una
storia, ancora, poco conosciuta nel nostro paese. Basti pensare che i
rom e sinti non sono nemmeno nominati nella legge n. 211 del 2000 che in
Italia istituisce la Giornata della Memoria. Eppure oltre cinquecento
mila rom e sinti sono stati sterminati nei campi di concentramento
nazifascisti.
I gruppi rom sono
caratterizzati da un’estrema eterogeneità in termini di elaborazioni
culturali, condizioni sociali, appartenenza religiosa, provenienza
geografica. Sono gruppi molto stratificati al loro interno, sia in
termini sociali che economici. Nonostante questa grande varietà di
condizioni, considerare i rom come appartenenti a gruppi con
caratteristiche culturali e condizioni economico-sociali comuni è stato e
continua a essere un approccio piuttosto diffuso, soprattutto
nell’azione politica delle nostre istituzioni pubbliche. Un’operazione
resa possibile grazie all’uso reificante, in ambito politico ed
amministrativo, della categoria di nomadi che, oltre a ingabbiare in un’identità omogenea una galassia di minoranze
assai eterogenee tra loro e di persone, ha contribuito e contribuisce a
separarli, nell’immaginario collettivo e sul piano delle azioni
politiche, dal resto della popolazione.
Sono state, infatti, le
leggi regionali, emanate soprattutto da amministrazioni progressiste,
che, a partire dagli anni Ottanta, proprio sulla base del presunto
nomadismo, hanno creato i campi nomadi. Aree di sosta, pensate inizialmente per promuovere e proteggere
i sinti giostrai, ma poi usate come strumento unico per gestire il
problema abitativo di tanti altri gruppi rom: di quelli itineranti e di
quelli stanziali, di quelli con cittadinanza italiana così come di
quelli provenienti dall’est europeo, prima dai Paesi dalla ex-Jugoslavia
(molti dei quali apolidi e profughi di guerra, soprattutto i kosovari
arrivati in Italia dopo il 1996) e poi dalla Romania e dalla Bulgaria.
L’Italia è l’unico paese in Europa ad aver utilizzato la forma del campo
sosta quale soluzione abitativa destinata ai rom, istituendo, nei
fatti, un sistema abitativo parallelo strutturato su base etnica, tanto
che nel 2000 l’European Roma Right Centre ha definito l’Italia il paese dei campi.
I campi rom,
informali o istituzionali, sono l’emblema di una cittadinanza mancata.
Rappresentano la materializzazione di uno stato di eccezione divenuto
permanente. Quando i Comuni mettono a disposizione aree attrezzate
destinate ai campi, la logica, a volte inconsapevole, che li ispira è
quella di proteggere simbolicamente il resto del territorio. Le
dinamiche interne a questi luoghi, le modalità di accesso ai servizi e
ai diritti, la stessa possibilità di comunicazione con l’esterno sono
elementi che incidono profondamente sulle aspettative e sulla mortificazione del sé
di chi ci vive dentro e pregiudica anche l’immagine che il resto della
popolazione ha dei gruppi rom, contribuendo ad alimentare pregiudizi e
distanza sociale.
I campi, infatti, non
solo non offrono alcuna risorsa per chi li abita, ma spesso escludono da
ogni possibilità d’interagire positivamente con il tessuto sociale
circostante. È per questo motivo che la Strategia Nazionale per
l’Integrazione dei i Rom, Sinti e Caminanti si pone tra i propri
obiettivi il superamento dei campi sosta monoetnici. Un obiettivo ancora
totalmente disatteso dal nostro paese: anzi, laddove sono state poste
in essere azioni di superamento queste hanno conosciuto, quasi sempre,
solo la forma dello sgombero, attuato spesso in violazione dei diritti
umani fondamentali, come avvenuto nel recente caso dello sgombero del
Camping River di Roma, dove famiglie con minori sono state abbandonate
per strada, dopo essere state costrette ad assistere alla distruzione e
alla vandalizzazione dei container nei quali vivevano.
La forma del campo è oggi divenuta un paradigma che
continua ad essere utilizzato dai decisori pubblici, e non solo
rispetto ai rom, si pensi alla situazione dei migranti. Bisogna non
costruire più campi, a differenza di quanto si continua a fare,
proporre, progettare.
Per superare i campi
rom, queste moderne baraccopoli, non occorrono censimenti, schedature,
fotosegnalazioni, ruspe. Occorrono, esattamente come per tutti gli altri
cittadini, politiche sociali capaci di contrastare le forme di
esclusione sociale di cui una parte dei rom è vittima. Non sgomberi, ma
politiche di contrasto alla povertà, accesso al lavoro regolare, accesso
all’edilizia residenziale pubblica, forme di sostegno all’affitto,
formazione professionale, sostegno alla scolarizzazione fino ai livelli
più alti.
1 Si vedano i dati del Rapporto Annuale 2017 dell’Associazione 21 luglio (http://www.21luglio.org/21luglio/rapporto-annuale-2017/) e i dati dell’indagine indagine Gli insediamenti Rom, Sinti e Caminanti in Italia (http://www.cittalia.it/images/Gli_insediamenti_Rom_Sinti_e_Caminanti_in_iItalia_.pdf).
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