domenica 15 luglio 2018

«Il populismo? È roba da ricchi»

Negli Usa e in Europa il vento che viene dal basso e punisce i progressisti contiene un paradosso: favorisce chi sta meglio. La diagnosi di Branko Milanovic, economista serbo-americano capofila degli studi sulle diseguaglianze.


La parola “populismo” non la usa volentieri, ma sulla diagnosi di quel che sta succedendo alla politica americana ed europea non ha dubbi: è la reazione, interna ai confini del mondo ricco, a un grande cambiamento che viene da fuori dei suoi confini.
Ma la rivolta che viene dal basso sta portando a un paradosso: «la combinazione tra populismo e politiche a favore dei più ricchi: lo si vede negli Stati Uniti con Trump, in Italia con la flat tax».
Questa la diagnosi di Branko Milanovic, economista serbo-americano capofila degli studi sulle diseguaglianze, ai quali ha impresso una svolta dando al fenomeno una visione globale.
Sua la famosa “curva dell’elefante”, illustrata a Roma davanti alla platea del Forum Diseguaglianze Diversità: grafico che smentisce la visione corrente della diseguaglianza, come una forbice che si allarga, tra una minoranza di ricchi sempre più ricchi e un esercito di poveri che cresce, mentre le classi medie spariscono.
Se guardiamo a tutto il globo, dice Milanovic, la curva delle diseguaglianze assume la silhouette dell’elefante: nella gobba che cresce c’è l’ascesa dei poveri di Cina e India, e il formarsi della nuova classe media asiatica; poi c’è una discesa ripida, la parte calante della proboscide sulla quale sono precipitate rovinosamente le classi medie occidentali. E un picco finale, dei super-ricchi di tutto il mondo che schizzano in su.


La classe media non c’è più, o si è solo spostata?
«Se guardiamo alle diseguaglianze da un punto di vista globale, capiamo che c’è interdipendenza tra le varie parti del mondo, per esempio che la crescita della classe media nei Paesi dell’est ha un impatto diretto sulle classi medie in Italia. Può darsi che il declino delle classi medie nel mondo occidentale sia stato essenzialmente il prezzo da pagare all’ascesa delle classi medie in Cina. Il punto è: le persone che sono colpite dalla globalizzazione, il cambiamento tecnologico, le migrazioni, sono colpite da processi che hanno luogo fuori dai confini della propria nazione, ma il solo posto in cui possono manifestare il proprio dissenso è quello dove vivono. Così si è creato un dualismo, i tuoi salari sono determinati e sempre più lo saranno dalla competizione con il resto del mondo e politicamente il solo posto in cui puoi avere una voce è il Paese dove vivi. E questo dualismo crea molti problemi».

Nasce da qui il fenomeno che comunemente chiamiamo populismo?
«Non sono un grande fan della definizione “populismo”: quando parliamo di questo fenomeno, dobbiamo tener conto che è una reazione a qualcosa che è successo. In altre parole c’è disaccordo tra persone come me che dicono che il populismo che vediamo in Europa e negli Stati Uniti è la reazione a eventi e problemi economici effettivi, e altri che accusano il populismo di xenofobia e razzismo. Non ho alcun dubbio sul fatto che oggi le manifestazioni del populismo siano di questo tipo, ma le ragioni della sua crescita vanno cercate nella mancanza di miglioramenti economici per gran parte della popolazione. Ed è importante guardare alle cause del fenomeno, poiché questo dovrebbe portarci a prendere sul serio il malcontento delle persone colpite dalla globalizzazione e dal cambiamento tecnologico e sviluppare politiche - a livello nazionale - che mantengano la globalizzazione ma migliorino le posizioni di coloro che sono stati lasciati indietro».


Il nuovo governo italiano è stato eletto sulla base di un programma che combina reddito garantito e flat tax. Cosa ne pensa?
«Queste due politiche stanno insieme solo per motivi politici. La proposta del reddito di base viene dai Cinque Stelle, che pensano soprattutto alla popolazione del Sud, quella della flat tax dalla Lega per il Nord. Alla parte più povera della popolazione dovrebbe piacere il reddito garantito, a quella più ricca la flat tax. La combinazione dei due è interessante, non si è mai vista prima. Se devo valutare ciascuna delle due isolatamente, non sono a favore di nessuna delle due. Il reddito garantito implica il cambiamento della filosofia del welfare state, dato che non si potrebbero mantenere tutti i programmi di welfare che già esistono in Italia e aggiungere il reddito garantito: sarebbe troppo costoso. Dunque si potrebbe attuare il reddito garantito, ma al tempo stesso decidere cosa tagliare: benefici di disoccupazione, pensioni, non so, ma chiaramente è impossibile avere tutto. E personalmente non credo che sia desiderabile che la gente abbia un reddito senza neanche cercare lavoro, penso che sia fondamentalmente disincentivante».

Ma nella proposta dei Cinque Stelle il reddito è condizionato alla disponibilità a lavorare.
«Ma allora non è tanto diverso dal sistema dei benefici di disoccupazione. Quanto alla flat tax, credo che essenzialmente sia un ritorno all’Ottocento, la giustificazione che sento in Italia è che aumenterebbe le entrate: i ricchi non avrebbero più desiderio di evadere, perché devono pagare di meno. Ma anche questo cambia del tutto la filosofia del welfare state, che è quella che i ricchi devono pagare proporzioni maggiori del proprio reddito per finanziare le spese sociali. Il welfare state si è sempre basato sull’assunzione della redistribuzione, con una flat tax non c’è più redistribuzione, dunque significa tornare indietro alla situazione che esisteva nell’Ottocento. Sono del tutto contrario. Quanto al mix di reddito più flat tax, è qualcosa di nuovo: non so cosa possa venirne fuori. I poveri perderebbero alcuni benefici sociali, sostituiti dal reddito di base, e i ricchi pagherebbero meno tasse».

Lei propone politiche nazionali contro le diseguaglianze. Quali?
«Faccio due esempi. Il primo è sull’istruzione: non si tratta tanto di aumentarne la quantità, ma la qualità, e di renderla pubblica e con accesso uguale per tutti. Questo vale soprattutto negli Stati Uniti, dove le università private, accessibili a pochi, non solo sono migliori, ma diventano sempre più forti poiché i ricchi fanno loro donazioni e per di più su questo hanno sconti fiscali. La seconda politica è sul lato della ricchezza: i redditi da capitale e i patrimoni sono molto pesantemente concentrati nelle mani di pochi, in Italia il 10 per cento più benestante ha l’80-90 per cento della ricchezza finanziaria. Questo porta automaticamente a un enorme aumento della diseguaglianza. Per combatterla ci sono varie cose da fare: dare vantaggi fiscali ai piccoli investitori, incentivi a società che distribuiscono quote ai loro lavoratori, e infine dotazioni di capitali ai giovani, come “l’eredità di cittadinanza” proposta dal grande economista Tony Atkinson: ossia dotare i giovani, quando arrivano a 18 o 20 anni, di soldi che possono spendere o risparmiare, usarli per studiare, anche questo riduce la diseguaglianza. Questo non risponde a tutti i problemi, per esempio cosa fare per i lavoratori che perdono il loro posto perché la loro impresa se ne va in Slovacchia, ma penso che queste emergenze si possano affrontare con gli strumenti esistenti di sostegno per la disoccupazione e riqualificazione».

E cosa pensa dell’imposta patrimoniale globale proposta da Piketty?
«Sarebbe utile, va nella stessa direzione, quella di ridurre la diseguaglianza nella ricchezza, e per questa via ridurrebbe anche la concentrazione del reddito. Ma non sono sicuro che possa essere concretamente realizzata, per questo non l’ho nominata e ho proposto due gruppi di misure, a livello nazionale, per ridurre le diseguaglianze in capitale umano e in capitale finanziario».

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