sabato 23 giugno 2018

Il Consiglio Superiore di Sanità contro la cannabis light: un altro passo indietro in Italia

 
 dinamopress Andrea Carrozzini*
Il CSS si è espresso su richiesta dell’ex ministra Lorenzin sull’eventuale nocività in assenza di studi clinici e sulle forme di commercializzazione della cannabis a basso contenuto di THC, esprimendo posizioni difensiviste che, sebbene non vincolanti per legge, riportano indietro il senso comune sull’utilizzo della cannabis

Due giorni fa il Consiglio Superiore di Sanità (CSS) si è pronunciato sulle nuove forme di “cannabis light”, rilasciando un parere di tipo consultivo su due quesiti sollevati dal precedente Governo attraverso l’ex ministra Lorenzin. Queste nuove tipologie di cannabis sono state messe in commercio grazie alla legge 242/2016 che dispone in merito alla filiera agroalimentare derivante dalla produzione e commercializzazione di infiorescenze di canapa con contenuto di THC entro lo 0,6% del prodotto finito. Queste disposizioni hanno permesso al paese un’incredibile rivisitazione e apertura, mentale ed economica, verso settori e circostanze fino ad allora poco considerate, come quella di consumare prodotti ormai facenti parte della cultura contemporanea ma senza una sequela di sgradevoli “effetti collaterali”. Sembrava si fosse aperto un varco interessante, uno squarcio nel velo oltre cui sbirciare, o meglio, far sbirciare scettici e stoici. Ce lo dice il potenziale volume di soldi mosso dalla coltivazione della materia prima, conseguenza dell’aumentato fabbisogno della popolazione acquirente attraverso i cosiddetti “weed shop”: 40 milioni di euro, stando alla Coldiretti. Ma andiamo con ordine.
I due quesiti sollevati dal Ministero della Salute erano incentrati sulla pericolosità per la salute umana nonostante le percentuali irrisorie di THC presenti naturalmente nelle infiorescenze e, secondariamente, sulla possibilità e forme di commercializzazione. Il parere giunge in un momento storico in cui si sono raggiunti apici sulla narrazione e sullo studio della cannabis che non si erano mai immaginati e vengono rilanciati da qualsiasi media mainstream. In queste prime 24 ore, infatti, la popolazione si è dimostrata tutt’altro che disponibile a fare un passo indietro riguardo la prassi ormai consolidata in questi mesi.
Nella fattispecie, cito le risposte del CSS: «La biodisponibilità di THC anche a basse concentrazioni non è trascurabile, sulla base dei dati di letteratura; (…) THC e altri principi attivi inalati o assunti con le infiorescenze di cannabis sativa possono penetrare e accumularsi in alcuni tessuti, tra cui cervello e grasso, ben oltre le concentrazioni plasmatiche misurabili; tale consumo avviene al di fuori di ogni possibilità di monitoraggio e controllo della quantità effettivamente assunta e quindi degli effetti psicotropi che questa possa produrre, sia a breve che a lungo termine». Proseguendo: «non appare in particolare che sia stato valutato il rischio al consumo di tali prodotti in relazione a specifiche condizioni, quali ad esempio età, presenza di patologie concomitanti, stati di gravidanza/allattamento, interazioni con farmaci, effetti sullo stato di attenzione, così da evitare che l’assunzione inconsapevolmente percepita come ‘sicura’ e ‘priva di effetti collaterali’ si traduca in un danno per se stessi o per altri (feto, neonato, guida in stato di alterazione)». Pertanto «la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, (…) non può essere esclusa». Da queste risposte si evincono delle cose che credo meritino attenzione.
Comincio a leggerla con le lenti della mia professione, peraltro relativamente “intrecciata” al CSS. Da medico, non mi sembra di trovare alcunché di nuovo rispetto agli ultimi dieci anni: anzi, se penso alle recenti dichiarazioni dell’associazione Luca Coscioni riguardo gli impegni dell’OMS, la risposta del CSS acquisisce colori più vintage. Sembra infatti che le Nazioni Unite, attraverso l’agenzia che si occupa di studiare i modi migliori ed efficaci per raggiungere un livello di benessere psicofisico e sociale completo, vogliano rivalutare le proprietà terapeutiche della cannabis, alla luce degli evidenti e considerevoli progressi tecnologici e scientifici. Non solo: la posizione del CSS appare ancora più “difensivista” e accademica, quando sembra fare il paragone con i bugiardini dei farmaci in circolazione, denunciando la mancanza di studi in merito alle interazioni con farmaci o con stati fisiologici della vita come la gravidanza, a partire dalla biodisponibilità della sostanza. Legittimo come punto di vista, ma francamente respingente nel 2018, come le dichiarazioni del prof. Silvio Garattini, direttore dell’istituto Mario Negri di Milano e membro del CSS: «Una concentrazione dello 0,2-0,6% non è una dose omeopatica, può avere degli effetti sulle persone, non si può dire che sia innocua. Questo è valido soprattutto per i giovani, il cui cervello è ancora in formazione ed è quindi ancora più sensibile a questo tipo di sostanza, e sono sempre di più gli studi scientifici che testimoniano i danni cognitivi proprio sugli adolescenti. In assenza di ricerche che ci dicano che questa concentrazione non ha effetti, che al momento non ci sono, ritengo che la vendita indiscriminata sia da evitare«. Parole forti, insomma, perché se lette scevre del loro – effettivo e reale – valore “biologico”, aprono a direttive e imposizioni più politiche che sanitarie, se non addirittura morali: «Sappiamo che le droghe leggere sono una ‘porta’ che favorisce poi il passaggio a quelle più pesanti; bisogna tenerne conto se si permette la vendita libera, anche se di una versione ‘light’»
Questo mi da lo spunto per passare alla lente antiproibizionista, che mi sta tanto a cuore, e di svestire il camice. Devo ammettere che quest’ultima affermazione mi ha spiazzato. Mi domando se si creda ancora, diffusamente, che sia la conditio sine qua non per accedere successivamente a sostanze d’abuso pesanti (di cui prima o poi va anche combattuto il mito della “strada senza ritorno” cui conduce l’eroina) o che, peggio, sia l’imprescindibile condizione che porta all’inevitabile. Mi domando quanto stigma ci sia ancora intorno alla cannabis, al suo uso ricreativo e al suo uso farmacologico in sempre più malattie. Perché credo che sia questa la radice della censura intorno a questo tema, cioè la radicalizzazione indiscriminata e tendenziosa che la cannabis rappresenti il male per le nuove generazioni. Come se anni ed anni di studi di psicologia, pedagogia, antropologia sulla famiglia e la scuola (e la chiesa) non significassero nulla nell’evoluzione dell’individuo e nello strutturarsi della sua personalità. Non dimentichiamo che solo recentemente sono state proposte nuove strategie di prevenzione verso la dipendenza e l’abuso da certe sostanze pesanti, trovando il modo di coniugare finalmente l’accessibilità agli studi scientifici con il contesto ricreativo nel quale avviene l’assunzione dei prodotti psicotropi, aumentando la consapevolezza degli utenti e una maggiore coscienza intorno a tematiche altrimenti tabù.
Sul secondo quesito sempre il CSS afferma: «tra le finalità della coltivazione della canapa industriale non è inclusa la produzione delle infiorescenze né la libera vendita al pubblico; pertanto la vendita dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, in cui viene indicata in etichetta la presenza di ‘cannabis’ o ‘cannabis light’ o ‘cannabis leggera’, in forza del parere espresso sulla loro pericolosità, qualunque ne sia il contenuto di THC, pone certamente motivo di preoccupazione».
Anche in questo caso, un parere abbastanza fermo e vincolante, con ben poche aperture. È utile ricordare che l’acquisto delle infiorescenze nei negozi appare vincolato al collezionismo, condizione che impone la conservazione dell’integrità del prodotto anche nel suo packaging, assieme allo scontrino di vendita. La prassi ci racconta un’altra storia: questa zona grigia legale nella quale di fatto si vende e si compra erba con effetti esclusivamente rilassanti ha permesso il ritorno di una grossa fetta di consumatori, per lo più dai 30 anni in su che si erano in precedenza allontanati dalla classica cannabis, all’usufrutto del potenziale di una pianta vissuta all’ombra della sorella “malvagia”. Le testimonianze raccolte anche personalmente sono tutte entusiaste: chi ha anche smesso di fumare sigarette nel frattempo si aiuta con il vaporizzatore, chi utilizza cannabis con THC ne ha ridotto l’utilizzo contestualizzandolo con situazioni più occasionali. Sembra quasi di leggere in queste parole un’urgenza nella regolamentazione di questa nebulosa scappatoia legale. Di fatto, è esattamente quanto ha risposto il neo Ministro della Salute Grillo: «una conclusione un pò forte, visto che si tratta di un principio di precauzione e comunque di una quantità di sostanza attiva molto bassa». Prosegue rassicurando che in programma «non c’è la chiusura dei canapa shop, casomai una loro regolamentazione».
Una faccenda che sembra conclusa qui. Ha sicuramente giovato il dibattito pubblico, permettendo una crepa nello stigma che si era costruito intorno alla marijuana in tanti anni di oscurantismo e proibizionismo. Ma ecco che, da quando si sono ripresi gli studi, arrivano notizie sempre più rassicuranti circa l’utilizzo come terapia in moltissime patologie invalidanti, dal THC al CBD. Certamente risulta fondamentale anche stavolta abbattere i pregiudizi morali, informarsi e aprirsi al dibattito. Rimane la lotta antiproibizionista, rimangono ancora dei passaggi da fare per permettere una liberalizzazione della sostanza, dal consumo alla produzione alla libera associazione; rimangono ancora tantissimi soldi e vite in mano alle narcomafie; rimangono purtroppo in carcere per reato di coltivazione molti che meriterebbero la libertà immediata e tante scuse dal sistema; rimane il fallimento di tanti anni di lotta alle droghe senza alcun investimento sulla salute di persone abbandonate alla loro solitudine ed etichettate per sempre.

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