mercoledì 6 giugno 2018

COME SI FINANZIAVA L'ITALIA PRIMA DEL DIVORZIO FRA TESORO E BANCA D'ITALIA 1981

http://arjelle.altervista.org

 di Daniele Della Bona
Il file in formato pdf stampabile è disponibile a questo link
 
Quinta puntata della serie dedicata all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia (qui trovate la Parte 1Parte 2; Parte 3 e Parte 4) e alla sua relazione con i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), fino alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti; per chiudere poi con lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.
Oggi parleremo di come si finanziava il governo (cioè di come il Tesoro finanziava la propria spesa) prima del divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia.

Prima del divorzio i canali di finanziamento del Tesoro presso la Banca d’Italia erano sostanzialmente due. Il primo era il cosiddetto “Conto corrente di Tesoreria”. Esso era un vero e proprio conto corrente bancario detenuto dal Tesoro presso la Banca d’Italia già a partire dal dopoguerra, nel quale come spiega questo documento pubblicato dalla Banca d’Italia (La Banca d’Italia e la Tesoreria dello Stato di Giuseppe Mulone, 2006, p.33):
confluivano giornalmente gli introiti e gli esiti in contanti eseguiti da tutte le sezioni di tesoreria. In un primo tempo, lo sbilancio del conto a debito del Tesoro fu fissato, in cifra fissa, nell’ammontare massimo di 50 miliardi di lire; successivamente (D.lgs. 544/48) la misura massima di indebitamento venne rapportata al 15 per cento del complessivo importo degli originari stati di previsione della spesa approvata dal Parlamento e delle successive variazioni di bilancio. In seguito, la L. 13/12/1964, n. 1333, in relazione alla mutata classificazione delle spese, ridusse tale percentuale al 14 per cento. I provvedimenti del 1948 prevedevano che ogni qual volta dalla situazione mensile della Banca d’Italia risultasse uno sbilancio a debito del Tesoro superiore al limite prestabilito la Banca stessa ne desse comunicazione immediata al Ministro del Tesoro per gli opportuni provvedimenti. Qualora l’indebitamento al Tesoro non fosse rientrato nei limiti di legge entro 20 giorni dalla suddetta comunicazione, la Banca d’Italia non doveva dare corso a ulteriori pagamenti di tesoreria fino a quando, a seguito di introiti o versamenti fatti dallo stesso Tesoro, lo sbilancio del conto corrente non fosse rientrato nel limite. Il meccanismo non mirava in teoria a facilitare il finanziamento della Banca d’Italia al Tesoro, ma solo ad assicurare a quest’ultimo una elasticità di cassa, attraverso la creazione di uno strumento di carattere temporaneo come una linea di credito e che non costituisse un vero e proprio finanziamento.
In pratica, come ricorda l’attuale Presidente della Bce, Mario Draghi, il Tesoro aveva la possibilità di “attingere a un’apertura di credito di conto corrente presso la Banca per il 14 per cento delle spese iscritte in bilancio” (Fonte: L’autonomia della politica monetaria. Una riflessione a trent’anni dalla lettera del Ministro Andreatta al Governatore Ciampi che avviò il “divorzio” tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, 2011, p. 2-3)
Ossia, “il Tesoro poteva spendere sopra le proprie entrate utilizzando un ‘diritto di scoperto’ sul conto accentrato presso l’Istituto di emissione; diritto consentito fino al 14 per cento della spesa di bilancio” (Fonte: L’indipendenza della Banca d’Italia dal Governo negli anni Ottanta: cause interne e internazionali di Maria Luisa Marinelli, 2011, p. 148)
Il Tesoro quindi poteva cioè finanziare tramite la Banca d’Italia le spese iscritte nel suo bilancio preventivo (quindi non ancora materialmente effettuate) per un ammontare pari al 14 per cento del loro totale. Facciamo un esempio per capire meglio: supponiamo che il Tesoro decidesse di effettuare una spesa per un ammontare totale di 100, iscrivendo questa spesa nel suo bilancio preventivo, la Banca d’Italia a quel punto avrebbe dovuto garantire al Tesoro uno scoperto di conto pari a 14.
Il secondo canale di finanziamento del Tesoro presso la Banca d’Italia fu introdotto con la riforma del mercato dei Bot (Buoni ordinari del Tesoro) del 1975. A partire da quella data, come ricorda il solito Draghi, la Banca d’Italia si era “impegnata ad acquistare alle aste tutti i titoli non collocati presso il pubblico, finanziando quindi gli ampi disavanzi del Tesoro con emissione di base monetaria”. Anche Draghi, dunque, conferma quello che ci ha già detto Andreatta: la Banca d’Italia si impegnava a “garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo” (Fonte). E questo era un fatto di enorme importanza per il Tesoro, dal momento che “gli interventi della Banca centrale alle aste dei titoli servivano a mantenere il tasso d’interesse a un livello stabilito, compatibile con l’esigenza del Tesoro di finanziarsi relativamente a buon mercato: semplicemente se il mercato non voleva i titoli al tasso stabilito dal Tesoro, la Banca d’Italia li acquistava, immettendo così moneta fresca nel sistema. Il Tesoro, certo, le pagava interessi, ma la Banca d’Italia poi glieli restituiva, e quindi per il Tesoro questo era debito a costo zero, equivalente al finanziamento di una parte del fabbisogno con moneta, la cosiddetta ‘base monetaria creata dal canale del tesoro’” (Il Tramonto dell’Euro di Alberto Bagnai, 2012, p. 184).
Facciamo un esempio: il Tesoro decide di offrire al mercato l’equivalente di 100 in titoli di Stato a un tasso d’interesse fissato del 3 per cento (faccio notare che il tasso veniva fissato dal Tesoro stesso, non dal mercato come avviene oggi). Ipotizziamo adesso che il mercato avesse deciso di acquistare solamente 80 di questi titoli. Cosa sarebbe successo a questo punto? Si sarebbe scatenato il panico perché non ci sarebbero stati sono i soldi per finanziare la spesa per scuole, ospedali, infrastrutture? Niente affatto. A quel punto la Banca d’Italia sarebbe intervenuta, acquistando gli altri titoli, equivalenti a un controvalore di 20. “E la Banca d’Italia – si chiederà qualcuno – dove prendeva questi soldi?”. Semplice: li creava dal nulla, trasferendoli poi sul conto corrente detenuto dal Tesoro presso di essa. Come conseguenza la Banca avrebbe poi registrato i titoli acquistati alla voce attivi sul suo bilancio e l’incremento equivalente operato sul conto del Tesoro fra i passivi. A questo punto, il Tesoro avrebbe potuto tranquillamente spendere quel denaro, che indovinate un po’ a chi finiva? Ai privati. Sotto forma di reddito diretto (lo stipendio di un impiegato comunale, di un insegnate, di un medico…) o di reddito da interesse percepito dai detentori dei titoli del debito pubblico (parleremo della differenza nella distribuzione di questa spesa).
“Sì, ma in questo modo – si potrebbe obiettare – il Tesoro non si sarebbe indebitato con la Banca d’Italia?”. La risposta è no, dal momento che la vendita di titoli da parte del Tesoro alla propria Banca Centrale, a differenza di quanto erroneamente pensano in molti (ogni riferimento ai signoraggisti è puramente voluto), non costituisce affatto un indebitamento reale verso essa. Come spiega l’economista francese Alain Parguez, infatti, tale procedura costituisce una semplice operazione contabile “fittizia”: “la quota di disavanzo che non è assorbita dalla vendita di obbligazioni [presso il mercato, nda] viene assorbita dalla vendita fittizia di tali obbligazioni alla Banca Centrale. Si tratta della cosiddetta componente ‘monetaria’ del vincolo di bilancio” (Parguez A., The Tragedy of Disciplinary Fiscal Economics or Back to the Ancien Régime, 29th Annual Conference of the Eastern Economic Association, New York, 2003)
Tesoro e Banca d’Italia agiscono, in questo caso, di concerto, ma è il primo a indirizzare l’operato della seconda, stabilendo l’ammontare della spesa, la quantità di titoli da emettere e il tasso d’interesse al quale offrire quei titoli. In quest’ottica, dice sempre Parguez, bisogna considerare “l’esistenza della Banca Centrale come ramo bancario dello Stato. Nel bilancio della Banca Centrale, la controparte del deficit [pubblico, nda] si traduce nell’accumulo sul lato delle attività di titoli del debito pubblico ad un tasso di rendimento fissato dal Tesoro. In questo caso il debito pubblico non è altro che un debito che lo Stato ha con sé stesso” (Parguez A., The true rules of a good management of public finance, mimeo, 2010).
E anche Luigi Spaventa, per citare un noto ed eminente economista italiano, riconosceva candidamente questo fatto già nel lontano 1984. Leggete cosa scriveva: “lo stock di base monetaria creata tramite il canale del Tesoro può essere considerato un debito solo convenzionalmente. Ciò si vede bene qualora si consolidi il Tesoro con la Banca Centrale: in questo caso manca un vero e proprio debito corrispondente alla base monetaria creata dalla Banca d’Italia per conto del Tesoro, e in ciò consiste l’essenza del potere del signoraggio” (Spaventa L., La crescita del debito pubblico in Italia: evoluzione, prospettive e problemi di politica economica, Moneta e Credito, Volume n. 37 , Fascicolo n. 147, 1984).
Il punto fondamentale da capire è che anche governi che dispongono della piena sovranità monetaria tendono a creare assetti istituzionali che (operativamente parlando) separano l’azione svolta dal Tesoro e dalla Banca Centrale (i motivi possono essere molteplici e sicuramente il principale è l’incomprensione di fondo di come funzionano i sistemi monetari, oltre a un preciso orientamento ideologico di fondo contro lo Stato e la sua inefficienza, la spesa pubblica…). Ma, nella sostanza, questa divisione di ruolo non intacca il fatto che il potere di emissione di monetaria, essendo emanazione del potere che Parlamento e Governo esercitano in nome del popolo sovrano, sia nelle mani del Tesoro. E l’Italia prima del divorzio ne era un esempio lampante.
Per capirlo, vediamo passo dopo passo cosa avveniva durante il processo di vendita di titoli di Stato da parte del Tesoro alla Banca d’Italia. Dunque, ipotizziamo che la Banca d’Italia acquistasse dal Tesoro un ammontare di titoli di Stato pari a 100. Questa sarebbe stata la situazione nei rispettivi bilanci: la Banca d’Italia registra fra le attività i titoli di Stato acquistati e fra le passività l’incremento equivalente messo a disposizione sul conto corrente del Tesoro; specularmente il Tesoro metterà al passivo i titoli di Stato venduti alla propria Banca Centrale e all’attivo l’incremento equivalente del suo conto. Ecco un’immagine per esemplificare il tutto:

1.operazione

Notate subito una cosa: se consolidiamo i bilanci di Tesoro e Banca d’Italia di fatto non esiste un indebitamento del Tesoro (come scriveva lo stesso Spaventa), passività e attività si compensano a vicenda; ma, questa semplice operazione contabile “fittizia” (Parguez) permette al Tesoro di creare dal nulla i fondi necessari a finanziare la sua spesa.
Il Tesoro dunque effettua la sua spesa: ipotizziamo che sia equivalente a 100 per costruire una scuola; paga le aziende incaricate di realizzare l’opera accreditando i loro conti correnti detenuti presso le varie banche private (per semplicità ipotizziamo che ci sia una sola banca commerciale che rappresenta di fatto l’aggregato di tutte le banche commerciali esistenti). Ecco la nuova situazione (vi consiglio di aprire l’immagine in una nuova scheda, basta cliccarci sopra):

2.operazione

Andiamo con ordine: il Tesoro ha effettuato la sua spesa e dunque il saldo del suo conto corrente presso la Banca Centrale diventa zero; i soldi spesi dal Tesoro sono finiti ad aziende e famiglie che hanno lavorato per costruire la scuola, che (per ora) decidono di lasciarli in banca sotto forma di depositi; la banca commerciale registra fra le passività il denaro che famiglie e aziende detengono presso di essa, dal momento che quelli sono soldi che la banca “deve” ai propri clienti; allo stesso tempo, però, contemporaneamente all’aumento dei depositi la banca commerciale vede crescere in egual misura anche le sue riserve detenute presso la Banca Centrale (utilizzate per regolare i pagamenti con le altre banche e per far fronte alla riserva obbligatoria).
Facciamo un ulteriore passo avanti: ipotizziamo (realisticamente) che famiglie e imprese non detengano tutte le loro attività sotto forma di depositi ma che decidano di detenere una quota delle loro attività sotto forma dei contanti (circolante), per esempio 10. In questo caso avremo una variazione che coinvolge i bilanci della banca commerciale e della Banca Centrale. Ecco come:

3.operazione

Adesso, arriviamo a un punto cruciale (attenzione: capire questo significa capire uno snodo importante del funzionamento delle operazioni effettuate dalla Banca Centrale!): ipotizziamo che la Banca Centrale imponga un obbligo di riserva alle banche commerciali pari al 10 per cento dei loro depositi. Nel nostro esempio i depositi delle banche commerciali ammontano complessivamente a 90, dunque le banche commerciali saranno obbligate a detenere a riserva obbligatoria 9 di questi 90. La domanda fondamentale a questo punto è: cosa faranno le banche con le riserve in eccesso, quelle che non sono obbligate a detenere presso la Banca Centrale, nel nostro caso 81? Le possibilità sono solamente tre:
1) Le banche commerciali possono mantenere le riserve in eccesso presso la Banca Centrale e percepire un interesse piuttosto modesto su di esse (oggi, per esempio, nell’Eurosistema questo tasso d’interesse, chiamato deposit facility, è pari a zero).
2) Le banche che hanno un eccesso di riserve possono prestarle (sul mercato interbancario) a quelle che hanno carenza di riserve e devono far fronte alla riserva obbligatoria. Ma, come avviene nel nostro esempio, se in aggregato le banche commerciali hanno un eccesso di riserve significa che complessivamente una volta che tutte le banche sono in grado di far fronte all’obbligo di riserva permarrà una situazione di eccesso di liquidità; quindi le banche cercheranno di piazzare queste riserve in eccesso in vista di guadagni maggiori. E qual è la loro unica opzione?
3) Nel momento in cui il rendimento dei titoli di Stato si colloca anche leggermente al di sopra del tasso d’interesse percepito sulle riserve in eccesso detenute presso la Banca Centrale e del tasso d’interesse interbancario (quello al quale le banche si prestano denaro fra di loro), è nell’interesse delle banche commerciali liberarsi di quelle riserve in modo da ottenere un’attività sicura, facilmente scambiabile ed estremamente liquida, con un rendimento maggiore. Ecco quindi che esse saranno ben liete di acquistare dalla Banca Centrale i titoli di Stato (sul perché la Banca decida di venderli parleremo in uno dei prossimo post in cui vedremo come la Banca Centrale fissa il tasso d’interesse di riferimento).
Ecco quindi la nuova situazione che si viene a creare:

4.operazione

Dunque, riepilogando, questa è tutta le sequenza che abbiamo visto:
1) Il Tesoro emette dei titoli di Stato, li vende alla propria Banca Centrale sul cosiddetto mercato primario (la Banca d’Italia fino al 1981 era obbligata ad acquistare tutti quelli non venduti in sede d’asta).
2) Il Tesoro effettua così la propria spesa a favore dei privati (costruzione di ospedali, scuole….) e accredita i conti correnti delle aziende e famiglie incaricate di eseguire il lavoro.
3) Il denaro così immesso nel circuito bancario crea un eccesso di riserve bancarie rispetto agli obblighi di riserva. Le banche commerciali avranno quindi tutto l’interesse ad acquistare sul mercato secondario i titoli precedentemente acquistati dalla Banca d’Italia, dal momento che essi garantiscono un tasso d’interesse maggiore di quello che le banche otterrebbero lasciando le riserve in eccesso parcheggiate presso la Banca Centrale.
Questo meccanismo (che io ho esemplificato) trova piena conferma empirica in un paper pubblicato nel 2012 dalla Banca d’Italia (Monetary policy and fiscal dominance in Italy from the early 1970s to the adoption of the euro: a review di Eugenio Gaiotti e Alessandro Secchi) che a pagina 27 mostra l’ammontare netto di titoli di Stato (cioè la differenza fra i titoli acquistati dalla Banca Centrale e quelli ripagati dal Tesoro alla Banca stessa) acquistati dalla Banca d’Italia sul mercato primario (in blu) e di quelli scambiati sul mercato secondario da parte della Banca d’Italia con le banche commerciali (in grigio).

garfico mercato primario e secondario

Come scrivono gli autori: “la figura conferma che gli acquisti di titoli di Stato (al netto, nda) sul mercato primario da parte della Banca d’Italia sono progressivamente aumentati durante gli anni settanta, raggiungendo il picco nel 1981, poi si sono rapidamente ridotti dopo il “divorzio” (cioè da quando la Banca d’Italia non era più costretta a garantire in asta il collocamento integrale dei titoli emessi dal Tesoro, ma poteva intervenire in via facoltativa, nda), sebbene siano rimasti positivi per il resto del decennio. [...] Negli anni novanta, dal momento che gli acquisti lordi sul mercato primario scesero a zero, il canale Tesoro distruggeva liquidità per un’ammontare pari ai titoli in scadenza detenuti in portafoglio dalla Banca d’Italia, mentre le operazioni sul mercato aperto creavano liquidità per fini di controllo monetario”.
In sostanza il grafico ci dice che nel momento in cui i titoli detenuti dalla Banca d’Italia giungevano a maturazione il Tesoro emetteva altri titoli, per un ammontare maggiore di quelli a scadenza e li vendeva alla Banca d’Italia. In sostanza il debito veniva ripagato emettendo altro debito che veniva venduto alla Banca d’Italia (ricordiamo che si tratta di una vendita “fittizia”, Parguez) e questo per tutti gli anni settanta e ottanta. Poi, con l’entrata in vigore il primo novembre 1993 del Tratto di Maastricht, viene vietata la “concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle Banche centrali degli Stati membri [..] a istituzioni o organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle Banche centrali nazionali”. Il Trattato, inoltre, sancisce anche l’abolizione del Conto corrente di Tesoreria.
Come conferma il professore della Bocconi Luca Fantacci: “Nessuno stato è in grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli stati non sono nemmeno tenuti a ripagare i loro debiti. I debiti degli stati, da quando hanno preso la forma di titoli negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non sono più fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e per circolare indefinitamente. I titoli di stato sono emessi, sono acquistati e rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a scadenza, sono rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli” (fonte).
Quindi, fino al 1981 il Tesoro aveva la possibilità di finanziare la propria spesa utilizzando (oltre alla vendita di titoli presso privati) denaro fresco, creato dal nulla dalla Banca d’Italia tramite l’acquisto “fittizio” di titoli emessi dal Tesoro; questo denaro veniva immesso all’interno del settore privato (famiglie e aziende) all’atto della spesa pubblica. In pratica, a livello operativo, la Banca d’Italia “consentiva” semplicemente al Tesoro di monetizzare il proprio disavanzo.
Capite bene che, in un contesto di questo tipo, il potere monetario non era affatto indipendente e sovraordinato agli altri; al contrario, il suo controllo era ben saldo nelle mani del Tesoro, che a sua volta rispondeva al governo, al parlamento e al controllo della magistratura. In altre parole, il suo esercizio avveniva, nonostante tutti i limiti che potesse avere (la corruzione, la casta, i favori al cugino, le ostriche e lo champagne), all’interno del circuito democratico.

FONTE: 

Nessun commento:

Posta un commento