Cina blocca rifiuti di plastica dall’estero. E l’Italia non potrà più “esportare” a Pechino la sua carta da maceroIl blocco delle importazioni di rifiuti di plastica non industriali in Cina, in vigore dal 1 gennaio 2018, avrà un impatto globale e influenzerà gli sforzi per ridurre la quantità di rifiuti di plastica che ogni giorno entrano nelle discariche. Una conseguenza che già era stata prevista quando la decisione di Pechino fu resa ufficiale nel 2017.
Ma questa volta un gruppo di ricercatori dell’Università della Georgia ne ha calcolato gli effetti in uno studio pubblicato su Science Advances. Morale: 
a causa del bando cinese si dovrà trovare una sistemazione per 122 milioni di tonnellate di plastica entro il 2030 e saranno i Paesi che finora avevano utilizzato la Cina come destinatario dei propri rifiuti ad avere l’obbligo di trovare nuove soluzioni.
Tra l’altro dal 1993 le importazioni e le esportazioni annuali globali di rifiuti di plastica sono salite alle stelle, con una crescita di circa l’800% nel 2016, mentre solo il 9% di tutta la plastica prodotta è stata riciclata, la maggior parte è finita nelle discariche o nell’ambiente naturale.

Da qui, secondo i ricercatori, la necessità di “sviluppare programmi di riciclaggio più robusti a livello nazionale e ripensare l’utilizzo e la progettazione di prodotti in plastica”.
In Italia, ancora più che la questione della plastica, scotta il problema di un altro materiale ‘bloccato’ dalla Cina, ossia la carta da macero.
Quanto ha importato la Cina – Già a partire dagli anni Ottanta la Cina era diventata una grande importatrice di rifiuti, che riciclava per farne materia prima. I Paesi industrializzati mandavano a Pechino in media la metà o più della loro spazzatura differenziata, come plastica o carta. Dal 1992 la Cina ha importato oltre 116 milioni di tonnellate di bottiglie, contenitori per il cibo e buste di plastica, ricevute in gran parte da Paesi come Usa, Giappone e e Germania. Quasi la metà delle importazioni mondiali di rifiuti di plastica. La Cina e Hong Kong hanno importato più del 72% di tutti i rifiuti di plastica, anche se la maggior parte dei rifiuti che entra a Hong Kong (circa il 63%) viene esportata in Cina. Negli ultimi anni, però, Pechino ha cominciato a porsi il problema dell’inquinamento. Di qui l’adozione della politica della ‘National Sword’ e la decisione di vietare l’importazione di 24 tipologie di materiali da riciclare: plastica riciclabile, residui tessili, carta straccia di qualità inferiore e altri materiali. Una vera e propria campagna contro la spazzatura straniera, un mercato stimato nel 2016 in 17 miliardi di dollari, soprattutto da Europa e Usa. Una decisione a cui si è arrivati, anche perché molti rifiuti non venivano riciclati, a causa di inefficienze del sistema o perché fortemente contaminati da altri materiali, finendo così nell’ambiente, già fortemente inquinato. Insomma, non era più un business redditizio. Il 1 gennaio 2018 è stata così bloccata l’importazione di materiali come le plastiche e il cartone, creando grossi problemi per le aziende di raccolta. Per gli esportatori, mandare i rifiuti all’estero era meno costoso rispetto al trasporto nazionale dei materiali.
Gli effetti del divieto – Secondo gli autori dello studio “The Chinese import ban and its impact on global plastic waste tradeAmy Brooks, Shunli Wang e Jenna Jambeck del College of Engineering, New Materials Institute dell’Università della Georgia “è difficile prevedere cosa accadrà ai rifiuti di plastica che un tempo erano destinati agli impianti di lavorazione cinesi”. Alcuni potrebbero essere dirottati verso altri Paesi “ma la maggior parte – ha aggiunto Jenna Jambeck – non ha le infrastrutture per gestire i propri rifiuti e tanto meno i rifiuti prodotti dal resto del mondo”. L’importazione di rifiuti di plastica in Cina ha contribuito a incrementare con un ulteriore 10-13% la quantità o che stavano già avendo difficoltà a gestire a causa della rapida crescita economica prima che entrasse in vigore il divieto di importazione. E non esiste un altro Paese che abbia la capacità che aveva la Cina per poter importare i rifiuti. Secondo lo studio “senza cambiamenti a livello di sistema, non raggiungeremo più neanche i livelli di riciclaggio attuali, relativamente bassi”.
Chi rischia di più I Paesi ad alto reddito dell’Europa, dell’Asia e delle Americhe rappresentano oltre l’85% di tutte le esportazioni mondiali di rifiuti di plastica. Considerata collettivamente, l’Unione europea è il principale esportatore.
Ma a rischiare di più potrebbero essere gli Stati Uniti di Donald Trump che hanno dichiarato guerra commerciale, tra gli altri, anche alla Cina.
Nel 2016 gli Stati Uniti hanno esportato verso la Cina 13,2 milioni di tonnellate di carta da macero e 1,42 milioni di tonnellate di residui di plastica da riciclare. Lo stop non può non avere effetti. Sono molte le città statunitensi i cui programmi di riciclaggio potrebbero saltare e, infatti, mentre il governo federale rimane immobile, sono proprio le amministrazioni locali a prendere dei provvedimenti.
Molte città, ad esempio, hanno vietato o tassato i sacchetti di plastica.
L’Italia e il problema della carta – L’Italia esporta circa il 12% della sua plastica in Cina, ma il vero problema è un altro. Nella lista nera dei materiali che non si possono più esportare in Cina, infatti, c’è anche una tipologia di carta da macero. Quella, tanto per intenderci, che si getta con i residui di cibo. Prima del blocco cinese esportavamo un terzo del nostro macero e lo importavamo nuovamente sotto forma di cartone per imballaggi e carta grafica.
Tradotto in numeri: nel 2016 abbiamo esportato 1,9 milioni di tonnellate delle 6,5 totali di carta e cartone raccolti e il 54% è andato in Cina. L’Italia, ad oggi, non è in grado di trasformare tali quantità. Di questa enorme mole, oltre la metà era destinata a Pechino.
Le conseguenze? La scorsa primavera si è registrato un crollo delle quotazioni della carta da macero, con un prezzo che si è ridotto di circa il 70 per cento rispetto a luglio 2017.  
I materiali si stanno continuando ad accumulare presso gli impianti di recupero, ormai vicini alle capacità di stoccaggio massime.