mercoledì 23 maggio 2018

Roma. Casa delle Donne. Per la Raggi la storia della Casa delle donne può andare sul mercato.

"La Casa apre le porte, il comune le chiude". Questo cartello veniva innalzato ieri alla manifestazione in Campidoglio in difesa della Casa Internazionale delle Donne. La sindaca Raggi naturalmente nega, sostenendo al contrario di voler rilanciare un progetto della sua amministrazione per le donne. Ma la realtà dei fatti e le scelte concrete ci dicono il contrario.
 

La proposta che il Comune avanza implica lo sfratto della Casa Internazionale delle Donne e la fine della sua quarantennale esperienza. Ormai, la raffica di sfratti, di ingiunzioni di pagamento che hanno raggiunto più di ottocento associazioni romane ospitate in edifici di proprietà del comune non sono più soltanto la burocratica e sorda applicazione di una delibera sciagurata che impone la cosiddetta "messa a reddito" del patrimonio pubblico.
Si qualifica invece ormai, dopo due anni di amministrazione a 5 Stelle, come un tentativo di mettere la parola fine a tutte le esperienze di autogestione e di produzione dal basso di attività culturali e servizi ai cittadini.
La Casa Internazionale delle Donne rappresenta, di questa politica, il caso più evidente.

Le donne della Casa Internazionale delle Donne affermano, e con loro le migliaia di persone che hanno riempito ieri piazza del Campidoglio, proponendo il riconoscimento delle spese di manutenzione del Buon Pastore, uno stabile del '600 e il valore dei servizi erogati, come strada per superare il problema del debito derivante da un canone irragionevolmente alto, l'importanza delle esperienze di gestione dei beni pubblici che non è né statalista, né semplicemente affidata al mercato.
Una esperienza che, proprio perché nasce dalla esperienza femminista e si è nutrita per oltre trenta anni dei contenuti e delle pratiche dei movimenti delle donne, oggi rappresenta un esempio, forse persino senza una piena consapevolezza, di un bene comune affidato a una comunità che, non solo se ne prende cura, ma lo rende produttivo di produzione di cultura, di politica, di solidarietà, di esperienze mutualistiche. Da queste esperienze sta nascendo il nuovo, l'inedito, l'inaspettato.
Non può essere casuale che due premi internazionali prestigiosi, l'Orso D'Oro ai Fratelli Taviani per il film "Cesare non deve morire" e ultimamente la Palma D'oro a Marcello Fonte come miglior attore, siano stati attribuiti a persone e opere che nascono da luoghi occupati, dal Teatro Valle, al Cinema Palazzo Occupato, all'esperienza dei detenuti di Rebibbia.
Ormai è cresciuta in Italia e in particolare a Roma una presenza nuova che, senza sanzione pubblica, contro la sordità di grande parte delle forze politiche, applica quotidianamente l'articolo 43 della Costituzione, che recita –con una preveggenza straordinaria– che lo stato può affidare beni e servizi a comunità di lavoratori e utenti servizi pubblici essenziali.
Virginia Raggi propone invece un progetto dall'alto. Ci propone un piano di servizi pubblici messi a bando e quindi offerti sul mercato. Il cosiddetto rilancio del progetto della Casa è la riproposizione, la più tradizionale possibile, di una gestione del patrimonio e dell'intervento pubblico, in continuità assoluta con tutte le esperienze di governo di questi ultimi anni, in ossequio totale alle posizioni espresse in questi anni dalle vestali della riduzione della spesa pubblica.
Il valore è solo quello stabilito dal mercato, comuni e stato devono fare cassa sul patrimonio. Nient'altro conta, nient'altro vale.
Basta andare in un giorno qualsiasi (la Casa è aperta per sei giorni a settimana, tutta la giornata) al Buon Pastore per rendersi conto della differenza tra una Casa delle Donne e un centro di coordinamento di servizi pubblici.
La Casa è un luogo aperto, disponibile a associazioni, ma anche a singoli, a chi organizza spettacoli, a chi promuove convegni, a chi riceve le donne in difficoltà, a chi si incontra in gruppi informali, a chi vuole consultare la biblioteca e l'archivio del femminismo e a tante altre cose ancora. Il tutto senza costare un euro di denaro pubblico per la sua gestione.
È veramente paradossale che la prima esperienza di governo dei 5 Stelle si incagli nelle secche dei vecchi schemi delle società che tanto invece sembrano criticare.

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