martedì 8 maggio 2018

Migranti & Italia. Agricoltura, il made in Italy trainato dagli immigrati. Senza di loro il Nord rischia la paralisi

Nelle piantagioni il 36% dei lavoratori arriva dall’estero e la proporzione sale al 57% (con trend in aumento) proprio nelle regioni a trazione leghista. Molti di loro lavorano senza garanzie previdenziali.


repubblica.it
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Le bottiglie di Barolo? Rischierebbero di diventare una rarità. Le mele del Trentino ce le potremmo dimenticare e anche le pesche Igp di Verona, il mais mantovano per la polenta e il latte per il Parmigiano. Se dalle campagne italiane sparissero i lavoratori stranieri, il made in Italy agricolo subirebbe un colpo mortale. E il Nord, in particolare, si paralizzerebbe. Un dettagliato studio condotto dalla Uila, l'Unione italiana dei lavoratori agroalimentari, documenta in modo puntuale l'incidenza della manodopera immigrata nelle colture e allevamenti del Paese. Una mappa che ha un confine demarcato in modo netto lungo la Penisola, quasi quanto quello emerso dai risultati delle recenti elezioni. E che, però, si legge in modo politicamente inverso. Se a portare avanti le aziende agricole fossero solo gli italiani, infatti, le produzioni si bloccherebbero proprio nelle aree a forte trazione leghista, laddove cioè si registrano maggiori proclami ostili rispetto alla presunta "invasione straniera".


Senza gli immigrati, che spesso operano in condizioni di sfruttamento e con versamenti previdenziali minimi, il Piemonte vedrebbe sparire dai campi 20mila dei 32 mila lavoratori con incarico stagionale o a giornata. La provincia di Mantova dovrebbe invece andare a caccia di 3.632 operai, il 58 per cento di quelli che imbracciano oggi gli strumenti di lavoro per conto dei fattori. Percentuale che sale fino ai due terzi a Pordenone, mentre a Verona è al 69 per cento e a Cuneo sfiora il 74. L'indice più alto si registra a Bolzano, che raggiunge l'81 per cento di manodopera straniera. In generale, il settentrione senza stranieri perderebbe il 57 per cento della forza lavoro nei campi.

Tra Toscana, Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo l'apporto di manodopera forestiera scende, ma resta a un passo dal 50 per cento. Abbastanza per trainare l'economia in diverse province, dove gli insediamenti sono così massicci da cambiare il volto dei quartieri rurali. Basta visitare Borgo Hermada, nell'Agro Pontino: porta il nome di un monte friulano perché nacque per ospitare gli operai del Triveneto arrivati negli anni Trenta per bonificare le paludi, ma adesso è abitato da oltre seicento indiani, con i loro negozi, punti di ritrovo e luoghi di culto.  

E al Sud? Secondo i dati, chiudendo le frontiere non ci sarebbero problemi ad accudire le viti del Negramaro né a raccogliere le arance rosse siciliane. Le proporzioni, a queste latitudini, risultano infatti ribaltate: basti considerare che a Lecce, ad esempio, nell'industria agricola sette operai su otto sono italiani, in molte zone della Sicilia nove su dieci. E non si tratta di territori marginali, perché proprio al meridione, secondo il rapporto stilato dalla Uila, si condensa un numero di lavoratori agricoli superiore alla somma di quelli che risultano al Centro e al Nord. Per avere un'idea: se i dipendenti delle aziende sono in tutta Italia poco più di un milione, oltre 590mila risultano impiegati nell'area della Penisola che va dal Molise alla Calabria con l'aggiunta delle due isole.

Il tutto, ovviamente, avvalendosi delle cifre ufficiali, che fanno riferimento ai dati Inps sul 2016 e includono quindi i dipendenti in regola. Ma sono dati che, secondo le stime della Uila, sono da considerare attendibili in virtù dei segnali incoraggianti sul fronte dell'emersione. Spiega Stefano Mantegazza, segretario generale del sindacato: "Malgrado la nuova legge sul caporalato sia entrata in vigore a fine 2016, è bastato il solo annuncio di una stretta sul lavoro nero a provocare una corsa alla regolarizzazione. Tra il 2014 e il 2016, le giornate lavorate in agricoltura sono passate da 76 a 81 milioni, con una crescita del 6,7 per cento. E anche il numero di lavoratori occupati è cresciuto del 3,6 per cento".

Più del "total black", preoccupano semmai in questa fase le aree che gli esperti definiscono "grigio scuro". Quelle, cioè, in cui si dichiara solo una minima parte rispetto all'impiego effettivo dei lavoratori. Come individuarle? "Per esempio concentrandosi sulle aree in cui viene dichiarato un numero di giornate chiaramente insufficiente per completare la lavorazione agricola" spiega Giorgio Carra, che della Uila è segretario nazionale. Succede, anche in questo caso, con maggiore frequenza al Nord. Ad esempio nel Pavese, dove esiste un reggimento di oltre 2.500 lavoratori - il 43 per cento di quelli agricoli a tempo determinato - per ciascuno dei quali sono sufficienti le dita di due mani per contare le giornate lavorative dichiarate in un anno. Ma i dati sono simili anche ad Asti, Firenze, Alessandria, Arezzo, Reggio Emilia. E ancora, con numeri assoluti inferiori alle mille unità ma incidenza percentuale molto alta, a Prato e Gorizia. In tutto, i casi da monitorare secondo la Uila sarebbero 142mila in tutta Italia.
Al Sud, invece, il dato che risalta è l'alta frequenza di braccianti impiegati per un numero di giornate che, nell'arco di un biennio, si attesta poco sopra quota 101: è la soglia che permette ai dipendenti di ottenere sussidi e benefici previdenziali. Una parte consistente degli stagionali, però, vive condizioni estreme: uno su tre non raggiunge le 51 giornate annue e non percepisce quindi prestazioni assistenziali. "Il contratto di lavoro agricolo - dice Carra - è volutamente flessibile perché le produzioni risentono di tanti fattori: questo può essere considerato una risorsa per aiutare gli imprenditori, ma non può diventare uno strumento per arricchirsi commettendo degli abusi e penalizzando i lavoratori".

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