giovedì 24 maggio 2018

Libro/i. Rileggiamoli insieme Povertà: vecchie utopie, nuovi pastrocchi

Dalla chiara pregiudiziale a favore dei poveri della cultura cattolica al disprezzo nei loro confronti da parte della mentalità anglosassone dominante. Fino all’abbaglio odierno del reddito di cittadinanza pentastellato come semplice sussidio alla disoccupazione. Una riflessione sulla povertà come fenomeno sociale a partire da due libri: “Le nuove povertà” di Zygmunt Bauman e “La responsabilità dei ricchi” di Innocenzo Cipolletta.



micromega Pierfranco Pellizzetti


«Più si organizzano forme di assistenza pubblica
per prendersi cura dei poveri, meno questi ultimi
avranno cura di sé […], meno si fa per loro, più
faranno qualcosa per se stessi».
Benjamin Franklin

«I paesi poveri sono tali perché chi detiene il potere
fa scelte che producono povertà; sbaglia non per
incompetenza ma di proposito»[1].
Daron Acemoglu e James A. Robinson

Innocenzo Cipolletta, La responsabilità dei ricchi, Laterza, Roma/Bari 1997
Zygmunt Bauman, Le nuove povertà, Castelvecchi, Roma 2018
Bergoglio… e Bentham!


Vi sono due criteri, del tutto antitetici, per giudicare una povertà oltre la soglia dell’indigenza, intesa come fenomeno sociale: scandalizzarsi per il consorzio umano che lo consente o – viceversa – indurre vergogna in chi ne è afflitto.
Da San Francesco a Papa Francesco, principiando dagli ambienti servili in cui avvenivano le prime conversioni collettive a seguito della predicazione paolina, per passare al rapporto prioritario con la piccola gente, massa di manovra indispensabile nelle lotte altomedievali con l’Impero e in età moderna contro il Capitale secolarizzato, ora nel suo tentativo di riposizionare il proprio messaggio apostolico nell’immensa area della miseria planetaria e terzomondista, la cultura cattolica mantiene costantemente una chiara pregiudiziale a favore degli ultimi, i miseri. Così Bergoglio, intervistato da la Stampa: «Un mese prima di aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II, Papa Giovanni XXIII disse: “La Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Negli anni successivi la scelta preferenziale per i poveri è entrata nei documenti del magistero. Qualcuno potrebbe pensare a una novità, mentre invece si tratta di un’attenzione che ha la sua origine nel Vangelo ed è documentata già nei primi secoli di cristianesimo. Se ripetessi alcuni brani delle omelie dei primi Padri della Chiesa, del II o del III secolo, su come si debbano trattare i poveri, ci sarebbe qualcuno ad accusarmi che la mia è un’omelia marxista. “Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi”. Sono parole di sant’Ambrogio, servite a Papa Paolo VI per affermare, nella “Populorum progressio”, che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario»[2].

L’esatto contrario di una antica tradizione anglosassone, sintetizzata da Geremia Bentham (bollato da Karl Marx “oracolo del senso comune borghese del XIX secolo”) definendo “scarto della società” i presunti “figli prediletti di dio”, le “immagini di Cristo”, di Santa Romana Chiesa.

La datazione in epoca vittoriana del disprezzo benthamiano nei confronti degli emarginati impone almeno due considerazioni sullo spirito del tempo: quanto sia avanzata l’anglo-americanizzazione dei nostri modelli di pensiero, ormai del tutto refrattari a concetti benevoli e umanitari quali solidarietà e carità; come si muova in (spesso solitaria) controtendenza la denuncia di una “globalizzazione dell’indifferenza” della quale è portavoce Papa Bergoglio.

Dunque, una mentalità dominante che ha trovato il proprio incubatore nelle isole britanniche. Come confessava sottovoce un altro vittoriano – Benjamin Disraeli – il regno dei due popoli: “i ricchi e i poveri”[3]. Una sorta di “xenofobia introversa”, di cui Michel Foucault nelle sue lezioni al Collège de France del 1976 aveva scorto lo stigma; retrodatandone l’incubazione ideologica di oltre mezzo millennio, colorata di transfert etnici: il trauma sublimato dell’invasione normanna, che scinde il Regno Unito nel mai ricomposto dualismo tra vincitori dominanti e vinti dominati, nobili contro plebei, abbienti e non abbienti. Ferita che risultava ancora aperta al tempo della Grande Insurrezione. Quando Gerrard Winstanley, capo dei Diggers (“Zappatori”, il movimento radicale per la messa in comune delle terre che verrà denominato dagli insiders “la canaglia”), così apostrofava i colonnelli di Cromwell: «voi, signori delle terre, gentry di stirpe normanna»[4].

Secondo lo storico del pensiero di Poitiers «ciò che Hobbes vuole eliminare è la conquista o meglio l’utilizzazione del problema della conquista all’interno del discorso storico e nella pratica politica. L’invisibile avversario del Leviatano è la conquista»[5]. L’idea che la lotta di classe sia – in effetti - guerra tra razze. Con la relativa avversione – appunto, “xenofoba” - per i poveri che – come si è visto - spurga periodicamente tra le righe del discorso sulla libertà degli intellettuali organici (come Benjamin Franklin) o nelle coordinate politiche dei leader più vicini al cuore di tenebra della dominante sociale (ad esempio Benjamin Disraeli).

Un’avversione che diventa parossistica nella fase di prima industrializzazione, quando mandrie umane vengono convogliate verso il lavoro di fabbrica. La massa creata da due deliberati impoverimenti: quello della società contadina, costretta all’accattonaggio dalla distruzione delle proprietà comuni attraverso le recinzioni operate dal capitalismo agrario; quella dei ceti artigiani, a seguito della dequalificazione delle mansioni realizzata attraverso il primo macchinismo.

Una massa comunque recalcitrante a farsi stipare negli opifici per interminabili giornate di lavoro, dai ritmi disumani e per una paga (se andava bene) di pura sussistenza, cui Bauman dedica la prima parte dell’ultimo saggio pubblicato in Italia e da cui prendiamo le mosse. Con l’abituale attitudine a sintetizzare e metaforizzare fenomeni complessi, più che approfondirli analiticamente.

«Il vero problema che i pionieri della modernizzazione dovettero affrontare derivava dalla necessità di costringere all’esecuzione di compiti dettati da altri, persone che, abituate a dare un significato al proprio lavoro, tendevano a considerarli privi di senso» (ZB pag. 14), Obiettivo conseguito, non solo grazie a svariati ricatti materiali (il bastone), anche attraverso la promozione a livello di crociata di quell’etica del lavoro (la carota?) che conculcava atteggiamenti contrari come “pigrizia” e rieducava i poveri a «l’unico mezzo moralmente accettabile di guadagnarsi da vivere » (ZB pag. 21). Anche perché la sola alternativa assistenziale era rappresentata dagli ospizi, in base a quanto stabilito dalla Poor Law 1834 del Parlamento inglese (“vero comitato d’affari della borghesia”, disse qualcuno). Sicché «quanto più terrorizzanti erano le notizie che filtravano dagli orrori degli ospizi tanto più la schiavitù degli operai sarebbe apparsa come una condizione di libertà e la miseria in cui vivevano una fortuna o una benedizione» (ZB pag. 23).

La povertà nell’età dell’oro ( e nel suo declino)

Dove Bauman prende un abbaglio nella sua ricostruzione è quando considera l’etica del lavoro agli albori dell’industrializzazione come un concetto univoco; mentre ne esistono due versioni profondamente diverse e diversamente indirizzate: l’ideologia borghese del lavoro come operosità, dunque individuale socio-economica, e l’utopia proletaria collettiva del riscatto, intesa in senso squisitamente politico-organizzativo[6].

Infatti per gli operai il senso del lavoro nel falansterio non è la coltivazione del ben fatto, bensì l’occasione per maturare coscienza di sé e per sé diventando “classe operaia”. Il soggetto plurale, cresciuto al centro della riproduzione del capitale; dunque in grado di lottare per la dignità, i diritti e i risarcimenti proprio in quanto contropotere. In grado di bloccare il processo capitalistico rallentando i ritmi e – al limite – bloccando il flusso produttivo, minacciando/utilizzando l’arma dello sciopero. Determinando - insieme alla presenza minacciosa di un’alternativa di sistema quale l’Unione Sovietica - quello stallo con la controparte padronale che venne superato nel corso del Novecento attraverso operazioni politiche a somma positiva: il New Deal rooseveltiano, il compromesso keynesiano fordista (l’accettazione del regime capitalista, a fronte della promessa di una piena occupazione tendenziale) che nel secondo dopoguerra porrà le basi del Welfare State. La creazione di una società del benessere inclusivo, che diffondeva cittadinanza sociale a cerchi sempre più ampi. Sempre basandosi sulla nozione di work-line (l’idea che i diritti sociali richiedano come contropartita la disponibilità al lavoro). Per la semplice considerazione che l’assistenza pubblica risultava finanziata in larga misura dal contributo fiscale dei lavoratori (che - secondo i calcoli Istat del 2012 - nel nostro Paese copriva il 68,7% dell’intera spesa previdenziale).

Ancora un lustro fa Alessandro Ferrera, scienziato politico dell’Università degli Studi di Milano, parlava di “solidarietà produttivistica”: «la lotta alla povertà e la promozione dell’inclusione devono diventare una priorità e devono essere perseguite non soltanto attraverso trasferimenti passivi ma anche attraverso servizi pubblici di elevata qualità e di occasioni formative. La controparte dell’inclusione è l’attivazione, ossia l’aspettativa/requisito che i beneficiari delle prestazioni si impegnino in attività che promettano di ricondurli a condizioni di autosufficienza economica»[7]. Memorizziamolo questo “autosufficienza economica” perché nelle conclusioni dovremo ritornarci sopra. Ma questo era il pensiero mainstream dell’Unione europea alla fine del XX secolo. Quando l’Eurobarometro segnalava che «maggioranze nazionali superiori al 90 per cento dei cittadini europei ritenevano che la sicurezza sociale [la security, non la safety, come incolumità; la paura indotta dalle campagne terroristiche dei nuovi demagoghi. Ndr.] è una conquista importantissima della società moderna e la maggioranza degli elettori era a favore del suo mantenimento»[8]. Perché – al netto della smemoratezza eurofobica – in quegli anni Bruxelles era una barriera contro la svolta neoliberista thatcheriano-reaganiana che stava dilagando a Occidente. Come ne dà conferma il Libro Bianco del 1994 che reca la firma di Jacques Delors, l’allora Presidente della Commissione europea, il cui primario intento dichiarato era quello di «salvaguardare lo spirito del modello sociale europeo»[9]. Poi verranno a invertire tale missione direttive come la Bolkenstein (2006) o la De Palacio (2001), promotrici di lavoro precarizzato rinominandolo “flessibilità”. Infine la breccia sarà completamente sfondata tra il 2008 e il 2011, quando l’esplosione delle bolle finanziare d’oltre atlantico convertirono Bruxelles al rigorismo suicida di un’austerity antipopolare. Ma al tempo del Libro Bianco le parole d’ordine erano ben altre: solidarietà produttivista, inclusione attiva, promozione sociale. Dunque coesione e inclusione. Nella perdurante ottica laborista, già espressa dal titolo del testo di Delors: “Crescita, competitività, occupazione”.

Intenti generosi, quanto inconsapevoli di quanto stava accadendo loro intorno. La deindustrializzazione forzata che dava vita alla cosiddetta “società post-industriale”.

Lo spostamento di centralità dalla produzione alla finanza, dal lavoro alla distribuzione, dall’etica manifatturiera all’estetica consumista, che avrebbe prodotto diseguaglianza e nuova povertà in misura incommensurabile. Il tutto accompagnato dalla rimessa in auge dell’antica demonizzazione anglosassone del povero. Visto che – come scrive Thomàs Piketty nel suo opus magnum - «la storia della disuguaglianza dipende dalla rappresentazione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è che si fanno gli attori economici, politici, sociali, dai rapporti di forza tra questi attori e delle scelte collettive che ne derivano»[10]. Nel frattempo – secondo Bauman – la nuova crescita economica, che sostituisce il lavoro fisso con quello precario, già compiva il proprio capolavoro nel Regno Unito devastato dall’uragano Thatcher; nelle sue ristrutturazioni/razionalizzazioni che con i tagli ai livelli occupazionali hanno trascinato con sé una raggelante stagnazione. «Non vi è dimostrazione più spettacolare di tale interrelazione del fatto che l’Inghilterra post-thatcheriana, battistrada del nuovo corso ed esaltata come il migliore esempio del suo successo nel mondo occidentale, sia diventata il Paese afflitto dalla peggiore povertà come rileva il Rapporto sullo Sviluppo Umano delle Nazioni Unite» (ZB pag. 61).

Oggi un quinto di bambini inglesi vive in stato di indigenza e il numero di poveri a basso reddito è balzato al sessanta per cento.

Un revival dei “borghi putridi” di dickensiana memoria?

Ma c’è un’altra trasformazione che il passaggio post-industriale si porta dietro. Preconizzata per tempo dai bourdivens parigini (i sociologi della scuola di Pierre Bourdieu): il punto critico della società che si sposta dallo sfruttamento all’esclusione. «Lo sfruttamento era anzitutto sfruttamento attraverso il lavoro. La nozione di esclusione, diversamente, designa soprattutto forme diverse di allontanamento dalla sfera dei rapporti di lavoro»[11]. E con questo cambia il modo stesso con cui dobbiamo rappresentarci la “questione povertà”. Nel momento in cui la desertificazione industriale imporrebbe passaggio di perimetro e cambio di registro della sicurezza sociale; transitando dal criterio laboristico a quello universalistico.

Eppure – va detto – sempre negli stessi anni in cui appariva evidente la marginalizzazione del lavoro in lotta contro la povertà, c’erano altri parigini – come il filosofo André Gorz e il sociologo Guy Aznar – che ipotizzavano soluzioni a base industrialista, come “il secondo assegno”. Mentre la società salariale stava crollando. Dice Gorz: «quando il lavoro, come oggi accade, cessa di essere la principale fonte di ricchezza, il diritto a un pieno reddito non può dipendere da un tempo di lavoro prestabilito»[12]. Prosegue Aznar: «noi tutti riceveremo, in futuro, due assegni: il primo, o salario diretto, corrispondente a un lavoro fatto; il secondo, o salario indiretto, corrispondente a una ricchezza prodotta dalle macchine, ma si potrebbe dire, più globalmente, prodotta dal sistema»[13]. Tutto ciò quando esattamente dieci anni prima della pubblicazione dell’aureo libello, il 18 giugno 1984, a Orgreave nello Yorkshire, la polizia di Margareth Thatcher in assetto di guerra aveva fatto a pezzi i minatori in sciopero, determinando la definitiva de-sindacalizzazione inglese.

Che avrebbe fatto precedente per tutte le economie capitalistiche.

Il reddito di cittadinanza in età postindustriale

Nel passaggio dalla società del lavoro, il cui punto di crisi è la disoccupazione, alla società dei consumi, il cui effetto di emarginazione è il sottoconsumo, la ricerca di sicurezza sociale tenta di individuare soluzioni la cui attivazione non sia collegata alla disponibilità di assumere un impegno lavorativo, sempre più aleatorio, da parte del beneficiario. Il Reddito di cittadinanza (definito in sede accademica basic income, “reddito di base”) «è l’emblema dell’universalismo più autentico in materia di diritti sociali»[14].

Trascurando riferimenti antiquari, quale quello a Thomas Paine, cui dobbiamo la prima proposta di una politica monetaria universale ed incondizionata molto simile al reddito di base contenuta nel libello del 1795 La Giustizia Agraria (in cui l'autore proponeva di risolvere il problema della povertà dilagante in Francia con la creazione di una tassa di accesso alla proprietà fondiaria per costituire un fondo poi equamente ripartito tra tutti i cittadini) di reddito di cittadinanza se ne parlò già nel bel mezzo dei Trenta Gloriosi (“L’età dell’oro” dei primi venticinque anni del dopoguerra, come la chiamava lo storico Eric Hobsbawm). Una ripresa attivata nel 1984 da un paper – Reflexion sur l’allocation universelle – firmato da un gruppo di studiosi belgi riuniti sotto lo pseudonimo di Collectif Fourier, che metteva il dito nella piaga degli inarrestabili processi di burocratizzazione che avevano iniziato sclerotizzare il Welfare: «Sopprimete le indennità di disoccupazione, le pensioni pubbliche, i salari minimi, gli aiuti alle famiglie, le esenzioni e i crediti d’imposta, le borse di studio, gli aiuti di stato alle imprese in difficoltà. Ma versate a ciascun cittadino una somma sufficiente per coprire i bisogni fondamentali. […] Contemporaneamente deregolamentate il mercato del lavoro. Abolite la legislazione sul salario minimo. Eliminate tutti gli ostacoli amministrativi». Una bellissima predica che trascura un particolare non propriamente trascurabile: per quale motivo il comando capitalistico avrebbe accettato di operare tali poderosi trasferimenti universalistici in assenza di controparti che bilanciassero i rapporti di forza, come il disarmo unilaterale del ceto medio operoso avrebbe comportato?

Semmai era risultata assai più con i piedi per terra la provocazione profetica di Joan Robinson introducendo l’edizione 1937 della Teoria Generale di Keynes: «se c’è disoccupazione da una parte e bisogni insoddisfatti dall’altra, perché non potrebbero eliminarsi vicendevolmente, col semplice accorgimento di fornire a coloro che lo desiderano la possibilità di acquistare i prodotti dei lavoratori che altrimenti resterebbero disoccupati?». Una saggia domanda, che diventa attualmente sempre più stringente nell’intrecciarsi della disoccupazione tecnologica con la povertà vera e propria. L’evidente contraddizione cui la congenita miopia suicida dell’avidità plutocratica rifiuta di prestare ascolto, preparando futuri sfracelli sistemici. Come ripete anche il nostro Bauman: i lavoratori «sono anche consumatori, e i produttori dei beni destinati al mercato interno devono contare sulla loro solvibilità e sulla loro propensione a spendere per evitare la caduta dei profitti e la bancarotta». Quanto era chiarissimo al pioniere della società di massa Henry Ford aumentando il salario ai propri operai.

Non a caso la proposta universalistica del Reddito di Base concretamente non ha mai trovato udienza. Di certo per aspetti relativi ai costi elevati, ma anche per le caratteristiche della povertà che si modifica nella trasformazione consumistica. In cui sempre più evidenti sono le distinzioni che corrono tra la condizione di “povertà assoluta” e quella “relativa”. Tema su cui interviene un saggio scritto oltre venti anni fa da un insospettabile Innocenzo Cipolletta, già Direttore Generale di Confindustria.

«Povero assoluto è chi non riesce a provvedere ad alcune funzioni vitali che gli assicurino la sopravvivenza, mentre il povero relativo è chi si trova ad avere meno (o molto meno) di altri che vivono nella stessa comunità» (IC pag. 9). Attualmente, in base ai calcoli dell’Istat, la povertà assoluta sarebbe al 6,3% dell’intera popolazione italiana e quella relativa si aggirerebbe attorno al 10,6%.

L’abbaglio pentastellato

E veniamo all’oggi.

Nella versione definitiva della travagliata stesura del “Contratto per il governo del cambiamento” stipulato tra Lega e Cinquestelle, alla voce “Reddito di cittadinanza” (che recepisce un’impostazione di esclusiva provenienza pentastellare), così si legge:

«Il Reddito di Cittadinanza è una misura attiva rivolta ai cittadini italiani al fine di reinserirli nella vita sociale e lavorativa del Paese. Garantisce la dignità dell’individuo e funge da volano per esprimere le potenzialità lavorative del nostro Paese, favorendo la crescita occupazionale ed economica. […] Al fine di consentire il reinserimento nel mondo del lavoro, l’erogazione del Reddito di Cittadinanza presuppone un impegno attivo del beneficiario che dovrà aderire alle offerte di lavoro provenienti dai centri dell’impiego (massimo tre proposte nell’arco temporale di due anni) con decadenza del beneficio in caso di rifiuto».

Insomma, nient’altro che un semplice sussidio alla disoccupazione, cui la prima risposta dovrebbe essere una politica industriale a misura della società postindustriale, di cui non c’è traccia negli elaborati degli attuali alleati di governo. Ben altro rispetto a quanto annuncerebbe il titolo ambizioso (e pomposo) in calce al capitolo; e come richiederebbe la definizione che ne fornisce Stefano Toso, docente di Scienza delle finanze all’Università di Bologna: «il reddito di cittadinanza è l’espressione più autenticamente universale di un welfare state che intende fornire una garanzia incondizionata di reddito a tutti, in quanto cittadini, a prescindere da qualsiasi caratteristica socio-economica (reddito, età, condizione professionale, disponibilità a lavorare[15]; cui si contrappone “il reddito minimo” (RM) che consiste nel trasferire reddito a soggetti indigenti. Con l’ulteriore dato che se la misura universalistica non è mai stata applicata, quella selettiva (RM) è presente in quasi tutti i sistemi di welfare. Eccetto Grecia e – guarda un po’ – Italia.

Ancora una volta l’obiettivo di abolire la miseria risulta depistato. Nel caso, per un sospetto di incomprensione del tema da parte del soggetto proponente, nei confronti dei destinatari del provvedimento, soggetti affetti da una disperante povertà assoluta e – quindi – non ricollocabili nel mercato del lavoro. In quanto non autosufficienti e spesso abbandonati (disabili e anziani in primis).

Infatti ci sono motivi di credere che Luigi di Maio, forse mal consigliato dai suggeritori che gli stanno attorno, continui a confondere Reddito di Cittadinanza e New Deal rooseveltiano. E si comporti di conseguenza, presupponendo a termine un provvedimento strutturale e a tempo indeterminato. Qui non si tratta di un volano per lo sviluppo, come l’investimento anticiclico keynesiano, ma di un semplice sussidio di sopravvivenza; socialmente benemerito quanto economicamente inerte.

NOTE 

[1] D. Acemoglu e J. A. Robinson, Perché le nazioni falliscomo, il Saggiatore, Milano 2013 pag. 79 [2] A. Tornielli e G. Galeazzi, “Aver cura di chi è povero non è comunismo, è Vangelo”, la Stampa 11 gennaio 2015 [3] Cit. in G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 187 [4] C. Hill, Il mondo alla rovescia, Einaudi, Torino 1981 pag. 122 [5] M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998 pag. 87 [6] Cfr. A. Accornero, Era il secolo del lavoro, il Mulino, Bologna 1997 pag. 123 [7] A. Ferrera, “Neowelfarisno liberale”, Stato e Mercato 1/2013 [8] ivi [9] Commissione delle Comunità Europea, Crescita, competizione, occupazione, il Saggiatore, Milano 1974 pag. 107 [10] T. Piketty, iI Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano pag. 43 [11] L. Boltanski e È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano/Udine 2014 pag. 401 [12] A. Gortz, introduzione a G, Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti, Bollati Boringhieri, Torino 1994 pag. 11 [13] Ivi pag. 82 [14] S. Toso, Reddito di cittadinanza, il Mulino, Bologna 2016 pag. 16 [15] S. Toso, Reddito, op. cit.

Nessun commento:

Posta un commento