lunedì 28 maggio 2018

L’essenziale è "invisibile" agli occhi.

Nella quotidianità flessibile e globalizzata, all'interno della quale anche le identità professionali diventano sempre più identità "glocal", esiste una porzione di risorse umane tagliate fuori dal mondo del lavoro, risorse umane "invisibili".


Si tratta di giovani che hanno difficoltà a trovare un'occupazione, lavoratori anziani che perdono l'impiego e devono riqualificarsi. Lavoratori oggetto di pregiudizio come i disabili, il cui inserimento lavorativo è un vero e proprio percorso a ostacoli, nonostante strumenti teorici e normative o come le donne, alle quali si precludono spesso avanzamenti di carriera, dove anche un solo errore non viene perdonato.
L'auspicato processo di capacitazione e auto-capacitazione –che risulta essenziale tanto per un inserimento lavorativo duraturo quanto, più in generale, per una solida inclusione sociale– trova attualmente un ulteriore pesante ostacolo nella crisi occupazionale.

Da un lato, l'offerta di lavoro è andata diminuendo, seguendo sempre più i criteri economicistici della produttività e dell'efficienza; dall'altro lato, i servizi di collocamento hanno, a loro volta, subìto una contrazione delle risorse destinate all'inserimento lavorativo, trovandosi di fronte al complesso compito di mediazione e soddisfazione secondo le nuove esigenze delle aziende.
Nasce, così, la necessità di un altro tipo di intervento che miri all'ascolto e alla creazione di un "dialogo sociale". Ed è proprio dall'ascolto di risorse umane appartenenti alle sopraccitate categorie che si sedimentano livelli di significazione della pratica lavorativa intesa come schiavitù, povertà, svalutazione professionale e discriminazione.
Nel passato è stata molto forte la coscienza di appartenere a una comunità e ciò ha reso le persone sicure delle proprie radici e della collaborazione altrui. Oggi manca tutto questo. Le cosiddette "generazioni senza lavoro", sono il risultato di quanto possa contare il lavoro e pesare la sua assenza. Nel nostro paese tocchiamo cifre pari al 32,7% di disoccupazione giovanile e circa 2,1 milioni di Neet fra gli under 30.
Il lavoro conta perché diventa una modalità per ri-socializzarsi e ri-stabilire l'appartenenza alla comunità. Per usare le parole di Saint-Exupéry ne Il piccolo Principe "L'essenziale è invisibile agli occhi", è proprio quell'"essenziale"che deve essere reso "visibile". Non bisogna dimenticare che dietro le statistiche e dietro un lavoratore, c'è un essere umano con motivazioni, bisogni e orientamenti di carriera; variabili non visibili, tuttavia fondamentali. In questa logica, occuparsi delle persone in qualità di lavoratori e seguirli in un percorso di gestione della carriera, significa aumentare la possibilità di occupazione e umanizzazione del rapporto tra "risorsa umana" e mercato del lavoro, restituendo la "voce" a chi fino a ora è stato emarginato dalla sfera pubblica.
Iniziare a fare del lavoro un'opportunità e non una privazione, significa, in definitiva, riappropriarsi dei fondamenti della Costituzione, secondo cui l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.
(Questo post di Fondazione G. Feltrinelli è a cura di Concetta Papapicco, laureata in Psicologia delle risorse umane, dottoranda di ricerca in Scienze delle Relazioni Umane e Isabella Quatera, docente e formatrice, esperta in gestione di interventi e processi d'inclusione, disability e diversity manager, dottoranda di ricerca in Scienze delle Relazioni Umane)

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